Vito Ciancimino è stato un "uomo d'onore" per quasi mezzo secolo. Se Cosa Nostra a Palermo è riuscita a fare una montagna di denaro lo deve anche a don Vito che, da assessore ai Lavori Pubblici (con Salvo Lima sindaco), concesse in quattro anni oltre 4mila concessioni edilizie, tutte alle stesse ditte legate alla mafia: è il cosiddetto "sacco di Palermo".
Vito ha tre figli, uno di questi si chiama Massimo. Il padre nel corso degli anni ha accumulato un capitale difficile da quantificare e che dopo la sua morte, avvenuta nel 2002, è stato gestito dal figlio. A questo proposito Massimo è stato condannato in primo grado dal Tribunale di Palermo a 5 anni e tre mesi per riciclaggio. Oltre a conservare, e a quanto pare riciclare, il suo denaro custodito in diverse banche all'estero, Massimo è stato anche il confidente del padre. Ha visto tante cose, ha sentito tanti discorsi e, soprattutto, è "custode" delle carte del genitore. Carte che potrebbero far tremare dalle fondamenta la Seconda Repubblica. Il tema è sempre lo stesso: la trattativa fra Stato e Cosa Nostra.
Fino al 2007 Ciancimino junior si è difeso nel suo processo ma poi, incalzato dai magistrati, ha iniziato a parlare di altri argomenti. Nel 2005 la Procura di Palermo era passata dalle mani di Piero Grasso (assunto a Procuratore Nazionale Antimafia e recentemente confermato dal Csm per un secondo mandato) a quelle di Francesco Messineo. Ciancimino inizia a parlare delle istituzioni, tema mai toccato dalla precedente gestione Grasso durante la quale casa Ciancimino era stata perquisita ma senza che i Carabinieri toccassero il contenuto di una cassaforte ben visibile nell'abitazione. Come quando il Ros "dimenticò" di sorvegliare il covo di Riina e perquisirlo. Un deja vù.
Nel febbraio 2005, ancora durante la gestione Grasso, a casa Ciancimino era stato trovato un documento scottante. Una lettera scritta da Bernardo Provenzano e indirizzata al Presidente del Consiglio di allora e di oggi. Una lettera, tagliata quasi a metà, in cui si legge: "... posizione politica intendo portare il mio contributo (che non sarà di poco) perché questo triste evento non ne abbia a verificarsi. Sono convinto che questo evento onorevole Berlusconi vorrà mettere a disposizione le sue reti televisive". Secondo i magistrati la lettera poteva essere scritta da ''uno che sa scrivere, sotto la dettatura di uno che non sa parlare''. Ovvero come se l'avesse scritta Vito Ciancimino sotto la dettatura del boss Provenzano. Poi l'esame calligrafico ha escluso che a scriverla fossero stati tanto don Vito quanto il figlio. Che sia davvero di Provenzano?
Nessuna domanda è stata posta a Massimo Ciancimino dall'allora Procuratore di Palermo Piero Grasso a proposito di quella lettera. Nè da lui nè da Giuseppe Pignatone, attualmente procuratore capo a Reggio Calabria, che allora faceva parte della Procura di Palermo e che condusse molti di quegli interrogatori con Ciancimino
La lettera viene dimenticata negli archivi della Procura per quattro anni. Nel 2009 Messineo la trova e riesce, sul filo di lana, a farla depositare agli atti del processo d'appello per concorso esterno in associazione mafiosa a carica di Marcello Dell'Utri. Quando Ciancimino jr. vede la lettera "sbianca". Capisce che sta per entrare in un terreno pericoloso. Ma poi inizia a parlare e pare riesca a "ricostruire" a memoria il resto della lettera. In ogni caso afferma di avere la copia di quella lettera, nella sua versione integrale, fra le carte del padre custodite all'estero.
Ciancimo racconta anche dei rapporti tra don Vito e il colonnello Mario Mori nel giugno del 1992, fra Capaci e Via D'Amelio. In pratica il momento in cui lo Stato inizia a tessere la trattativa con Cosa Nostra. Ma racconta anche che suo padre, agli arresti domiciliari dal 1993 per una condanna a 13 anni, ha intrattenuto rapporti con Bernardo Provenzano e lo avrebbe incontrato spesso almeno fino al 2000. Ciancimino jr non sapeva chi fosse quell'uomo che lui conosceva come l'ingengner Lo Verde. Poi lo riconobbe da un'identikit pubblicato su un giornale e chiese conferma al padre: si, era lui, il capo di Cosa Nostra.
Il testimone diretto della trattativa è un fiume in piena: racconta di aver visto il "papello", vale a dire quel foglio di carta sul quale Cosa Nostra (Riina) aveva scritto le richieste che lo Stato avrebbe dovuto esaudire per vedere la fine della strategia stragista. Una copia originale del "papello" è stata consegnata da Ciancimino ai magistrati nell'ottobre del 2009.
Il figlio di don Vito racconta anche dell'altro. Ad esempio il coinvolgimento dei servizi segreti, di un tale "Carlo" o "Franco" che per anni è stato una sorta di ombra del padre. Spiega come Vito fosse sicuro che durante la trattativa dietro Mori ci fosse una "copertura politica". E dice che quella lettera di Provenzano a Berlusconi non è l'unica, ma che complessivamente sarebbero tre. Una dell'inizio e un'altra alla fine del 1992, l'ultima nei primi mesi del 1994. Prima e dopo le stragi e prima delle elezioni politiche del marzo 1994 che videro la vittoria della coalizione guidata da Berlusconi.
Se nella lettera trovata dai Carabinieri a casa Ciancimino Provenzano si rivolge a Berlusconi chiamandolo "onorevole" viene naturale pensare che quella sia la lettera numero tre.
E cosa significa "mettere a disposizione le televisioni"? Secondo Marco Travaglio gli attacchi quotidiani riservati alle reti Mediaset alla Procura di Palermo guidata dal 1993 da Giancarlo Caselli, e impegnata a istruire i processi contro Dell'Utri, Andreotti e Contrada, sono più di un indizio. Vittorio Sgarbi, conduttore su Canale 5 di una rubrica quotidiana chiamata "Sgarbi Quotidiani" arriverà a definire "assassino" il procuratore Caselli. Una diffamazione continua nei confronti di tutta la Procura di Palermo che si fermò nel 2000 quando alla guida della stessa arrivò Piero Grasso, lo stesso che non si curò della lettera di Provenzano a Berlusconi, dimenticandola in archivio e non ponendo, o facendo mai porre, mai alcuna domanda a Massimo Ciancimino.
Ma la questione principale è un'altra: per quale motivo Cosa Nostra aveva la certezza che una lettera della mafia sarebbe arrivata all'attenzione dell'allora imprenditore Berlusconi? Secondo il figlio di don Vito la catena di comunicazione fra Provenzano e Berlusconi seguiva questo iter: il capo di Cosa Nostra – Vito Ciancimino – Marcello Dell'Utri – l'attuale Presidente del Consiglio.
Oltre al papello, alla lettera e ai ricordi, non vanno dimenticate le carte custodite da Massimo Ciancimino nelle cassaforti delle banche estere. Secondo Peter Gomez e Marco Lillo esisterebbe una sorta di manoscritto di don Vito Ciancimino. I due giornalisti sostengono che "ci sarebbero elementi documentali sul ruolo che svolse negli anni Settanta e Ottanta Ciancimino per portare capitali mafiosi dentro queste società di Milano o di Milano 2, Banca Rasini, famiglie Buscemi, Bonura, Teresi, Bontate". La Banca Rasini, nella quale ha lavorato per anni Luigi Berlusconi, padre del premier, come procuratore con potere di firma, è stata indicata da Michele Sindona come una delle banche preferite dalla mafia per riciclare i proventi. Tra i clienti più "illustri" vale la pena di citare Totò Riina, Bernardo Provenzano e Pippo Calò, il cassiere di Cosa Nostra.
Che le carte di Ciancimino possano soddisfare la domanda alla quale Berlusconi ha rifiutato di rispondere nel 2002? Interrogato dai magistrati di Palermo sulle origini misteriose dei capitali sui quali ha fondato il suo impero, l'attuale Presidente del Consiglio rispose: "Mi avvalgo della facoltà di non rispondere".
Tra il 1975 e il 1983 una cifra pari a circa 300 milioni di euro di provenienza innota transitò su 22 delle 38 holding finanziarie che Berlusconi controllava. Holding, in cui il nome del premier non appariva mai, che saranno la base sulla quale il Presidente del Consiglio darà vita alla Fininvest, la holding principale che è oggi il contenitore che detiene le proprietà del premier, da Mediaset a Mondadori...
Ma, in definitiva, le dichiarazioni di Ciancimino sono da considerarsi attendibili? Lo sono secondo la Seconda Sezione del Tribunale di Palermo che nel gennaio di quest'anno ha condannato per associazione mafiosa l'ex deputato regionale di Forza Italia Giovanni Mercadante. "Ritiene il Tribunale di poter esprimere un giudizio di alta credibilità su quanto dichiarato da Massimo Ciancimino... racconto fluido e coerente, senza contraddizioni di sorta: ogni circostanza riferita ha trovato... ulteriori precisazioni e argomentazioni a riscontro...Quel che è certo e può indiscutibilmente affermarsi nel presente processo è che egli ebbe realmente modo di assistere a incontri tra il padre e Provenzano...che parlavano di affari, appalti, mafia e politica..."
Non è d'accordo invece la Corte d'Appello di Palermo che ha rigettato per due volte la richiesta dell'accusa di ammettere la testimonianza di Massimo Ciancimino nel processo a carico di Marcello Dell'Utri. La Corte, senza ascoltare il figlio di Don Vito, ha considerato le sue parole "generiche e contraddittorie". Giova ricordare che la Corte è la stessa che ha respinto un'altra richiesta. Lo ha ricordato recentemente Marco Travaglio nella rubrica Signornò che il giornalista cura su L'Espresso: "... (La Corte)ha respinto le carte di un'inchiesta a Reggio Calabria da cui risulta che prima delle elezioni 2008 Dell'Utri telefonava al bancarottiere Aldo Miccichè, legato alla 'ndrangheta e rifiugiato in Venezuela, e lo ringraziava per avergli mandato in ufficio a Milano "due bravi picciotti": Antonio Piromalli, reggente del clan omonimo, e suo cugino Gioacchino, avvocato radiato dall'Ordine per una condanna di mafia. Possibile che i rapporti fra Dell'Utri e uomini della 'ndrangheta non interessino alla Corte che lo sta giudicando per mafia? Proprio così: un conto è la mafia, un altro la 'ndrangheta. Richiesta respinta...".