domenica 5 settembre 2010

Sono riusciti a cambiarci, ci son riusciti, lo sai. - Alessandro Gilioli.



Ho visto in giro un podi video su quello che è successo a Torino.

Chi passa ogni tanto di di qui lo sa, io da sempre sono convinto che le idee sbagliate si combattano con le idee giuste, non con il rumore delle vuvuzele. Almeno, nel mondo in cui vorrei vivere.

Ma aldilà della già discussa questione di base (dove finisce la libertà di espressione di un Dell’Utri e di uno Schifani, e dove inizia la libertà di contestazione di chi desidera contestarli?) a me sembra che quello che sta succedendo adesso (appunto, l’altro giorno Dell’Utri, oggi Schifani e domani chissà) meriti un po’ di memoria su quello che è successo in questo benedetto paese negli ultimi anni.

Sì, perché i festival dell’Unità – oggi del Pd – sono come si sa il cascame di un’epoca in cui, più o meno, i partiti contrapposti si riconoscevano in un’unica Carta costituzionale e in una democrazia parlamentare rappresentativa. Quelli che non facevano parte del cosiddetto ‘arco costituzionale’ erano pochissimi: i missini da una parte e la sinistra extraparlamentare dall’altra. Infatti né i missini né quelli di Lotta Continua venivano invitati ai dibattiti nelle feste dell’Unità.

Non so se mi spiego: c’era, dal Pli al Pci, passando per tutti i partiti che stavano in mezzo, l’idea che la guerra civile fosse alle spalle da venti o trent’anni e che quindi ci si potesse confrontare riconoscendosi in regole democratiche condivise.

A un certo punto tutto questo è saltato.

Perché il potere politico e la gran parte di quello mediatico sono stati ingoiati da un avido gruppo di interessi a cui della Costituzione non fregava proprio nulla. Anzi, cercava (cerca) di liberarsene, se ne fa beffe e produce leggi dello Stato sapendo benissimo che sono incostituzionali, ma intanto salvano la ghirba al capo. Un gruppo di interessi che se ha un avversario non lo invita alle sue feste: lo consegna ai dossieratori di Feltri, lo fa pedinare dalle telecamere delle sue tivù, lo fa seguire dalle sue barbe finte a pagamento. Un gruppo di interessi che se perde le elezioni non riconosce la vittoria dell’avversario. Un gruppo di interessi che perfino i suoi ex alleati definiscono «rancido, servile e popolato di scagnozzi» al soldo del capo.

In questo contesto, sono saltate le regole di civiltà e di confronto: era inevitabile, e le hanno fatte saltare loro.

Mi piace questo? No, mi fa schifo. Al contrario di Beppe Grillo, io non gioisco affatto per quello che è accaduto a Milano. Perché con Grillo stasera stanno festeggiando anche Feltri, Schifani, Previti, Dell’Utri e sicuramente lo stesso Boss che li stipendia.

E perché – di nuovo – voglio vivere in una democrazia dove ci sono due o più schieramenti civili che sanno darsela di santa ragione con le idee, non con i dossier della maggioranza a cui si contrappongono le vuvuzele dell’opposizione.

Ma pare che questo oggi in Italia non sia più possibile.

A questo ci hanno ridotto quindici anni di berlusconismo. E sarà il caso di ricordarcelo e di ricordarlo, quando stasera le tivù – tutte – e domani i giornali – quasi tutti – ci offriranno un tripudio di “condanne”, “sdegni” ed “esecrazioni” per quello che è successo a Torino, senza provare nemmeno un secondo a raccontarci come sono riusciti – loro – ad arrivare a questo.

http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/09/04/sono-riusciti-a-cambiarci-ci-son-riusciti-lo-sai/


L’accoglienza calabrese per Gasparri prima il comizio poi a pranzo dal boss - di Vito Laudadio


A Vibo Valentia era tutto pronto per accogliere l'allora deputato di An. Per un imprevisto il programma saltò ma l'antimafia di Catanzaro l'ha ricostruito.

Prima un comizio nella piazza del paese, poi il pranzo a casa del boss che avrebbe garantito il suo appoggio elettorale. A Limbadi, piccolo centro della provincia di Vibo Valentia, sembra che tutto fosse pronto per accogliere il deputato. Ma qualcosa, quel giorno, non andò per il verso giusto e la cosca dovette rivedere tutti i suoi programmi. Pure l’onorevole, a quanto pare. Il boss èPanataleone Mancuso, uno dei più potenti uomini della ‘Ndrangheta. Il parlamentare, invece, èMaurizio Gasparri, oggi capogruppo del Partito di Berlusconi a Palazzo Madama e ras degli uomini di An in Calabria. Il racconto è agli atti dell’operazione Minosse 2, condotta tra il 2000 e il 2003 dai Carabinieri di Vibo Valentia e coordinata dalla Dda di Catanzaro. La prima udienza del processo c’è stata solo lo scorso 23 giugno, subito aggiornata a ottobre. Ma l’apertura del dibattimento ha reso disponibili tutti i documenti.

“Domani mattina devo andare a prendere a Gasparro a Vibo che deve fare il comizio alle 11:00, mi ha mandato zio Luni, e allo zio Luni non posso dirgli di no, chiaro!”.
Giuseppe Corsaro è un ‘picciotto’ della cosca, un fedelissimo di Pantaleone Mancuso, lo “zio Luni” di cui parla. Nella sua auto, una Renault Clio, i Carabinieri hanno piazzato da tempo una cimice che offrirà numerosi elementi utili alle indagini. E’ il 21 aprile 2001 quando racconta del suo impegno “elettorale” per il giorno dopo alla fidanzata: “Io lo devo andare a prendere alle 09:00 e portarlo a Limbadi, poi mangia a casa di zio Luni, e lo accompagna zio Luni poi… che zio Luni deve andare a Gioia, altrimenti sarebbe andato lui personalmente a prenderlo a Vibo…”. Secondo il racconto, Pantaleone Mancuso il giorno dopo avrebbe dovuto trattare l’acquisto di una partita di 100 chili di cocaina in arrivo nel porto di Gioia Tauro. Siamo nel pieno della campagna elettorale che riporteràSilvio Berlusconi a Palazzo Chigi: Maurizio Gasparri è capolista di An nella circoscrizione che abbraccia tutto il territorio regionale e risulterà l’unico eletto per il suo partito nel proporzionale. I colloqui intercettati nell’auto di Corsaro, un voluminoso materiale che i Carabinieri si spingono a definire “confessioni”, spiegano come in quei giorni la cosca si stesse adoperando per far votare l’attuale capogruppo al Senato del Pdl: “Già è tutto programmato, già stanno preparando i voti e tutto!..” dice Peppe, un amico del ‘picciotto’, che aggiunge “Vi parate… giusto quanto parli… finisce di parlare… adesso te ne puoi andare”. Una frase che secondo i militari dell’Arma “è diretta alla personalità politica e che il comizio è solo una copertura per gli eventuali voti che saranno destinati al candidato in discussione”. “Tanto lo sappiamo chi sale già” chiosa Giuseppe Corsaro, sempre al volante della sua Clio.

L’imprevisto. Il giorno dopo, il 22 aprile 2001, Pantaleone Mancuso effettivamente parte alla volta di Gioia Tauro. Sulle sue tracce ci sono i Carabinieri del Ros di Catanzaro, incaricati dalla Dda dopo le parole intercettate nell’auto di
Corsaro. “Dopo circa un centinaio di metri, i due, probabilmente vistisi seguiti, repentinamente effettuavano inversione di marcia facendo perdere le tracce” scrivono i Carabinieri. Che aggiungono: “Quel giorno, il porto di Gioia Tauro pullulava di FF.OO. a seguito di una visita istituzionale presso la Capitaneria di Porto”. L’affare non si concluse e, addirittura, la nave che trasportava l’ingente carico di droga cambiò repentinamente la rotta a largo di Tropea e si diresse verso il porto di Salerno. Gasparri, invece, quel giorno a Vibo c’era davvero, anche se le sue iniziative elettorali pubbliche previste erano a Crotone. Praticamente, a due ore e mezza di macchina. “ Gli accertamenti esperiti hanno consentito di accertare che: effettivamente l’onorevole Maurizio Gasparri il 22.04.2001 alloggiava presso l’Hotel 501 di questa città; aveva impegni elettorali a Crotone; Giuseppe Corsaro non si è portato in Vibo Valentia per l’intera giornata” si legge nelle relazioni dell’Arma. Quel giorno, a quanto pare, il comizio non ci fu e, probabilmente, neppure il pranzo a casa del boss. Pantaleone Mancuso, inoltre, interrogato sul presunto appoggio elettorale a Gasparri, ha detto di non essersi mai occupato di politica in vita sua. Ma nella stessa deposizione ha pure negato di essere un mafioso. Secondo la Dda di Catanzaro e di Salerno, invece, Pantaleone Mancuso è uno dei vertici della potente famiglia Mancuso, “il clan finanziariamente più potente d’Europa” per l’ex presidente della Commissione parlamentare antimafia, Giuseppe Lumia. Uno capace di “ condizionare le scelte amministrative di Comuni di loro interesse” di “avvicinare Giudici, al fine di ‘aggiustare’ processi, e rappresentanti della Forze dell’Ordine al fine di ottenere benefici di vario tipo” di stringere “rapporti con personaggi che apparterrebbero a ‘logge massoniche’ (di cui farebbe parte Mancuso Pantaleone, cl.’47)” si legge nelle carte dell’operazione “Dinasty 2-do ut des”.

Resta da capire perché
Giuseppe Corsaro, che nella stessa intercettazione indica agli investigatori, con dovizia di particolari, l’arrivo di un grosso carico di droga, si sarebbe dovuto inventare di sana pianta l’incontro con Gasparri. Quel che è certo, è che Alleanza Nazionale nella provincia di Vibo incassò due punti percentuali in più di quanto raccolto nelle altre province della Calabria. Ed è certo pure il fatto che Corsaro per i Carabinieri “ è credibile”. “Non si dimentichi – scrivono i militari – che le ‘confessioni’ del Corsaro si innestano in un contesto ben più ampio, grazie alle quali sono stati sequestrati, nell’ambito dell’operazione Minosse consistenti partite di droga. La sua attendibilità è stata provata”



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sabato 4 settembre 2010

Schifani contestato alla festa del Pd. Fassino lo difende: ''Squadristi''






Spunta una seconda lista Anemone e c’è il cognome Berlusconi - di Antonio Massari



C’è una seconda lista “Anemone”, sulla quale stanno indagando i pm di Perugia, e tra i cognomi noti ce n’è uno più noto degli altri: Berlusconi. Sulla lista manca il nome, però, e gli investigatori vogliono capire se si tratti del presidente del Consiglio oppure di suo fratello Paolo. La lista “due”, ancora una volta, riguarda i lavori effettuati dalle imprese di Anemone ed è più stringata della precedente, scoperta a maggio, che contava circa 400 nomi. Estrapolata dal computer del commercialista di Diego Anemone, Stefano Gazzani, l’elenco comprende un centinaio di persone, tra le quali ricompaiono l’ex ministro Claudio Scajola e la dicitura “via del Fagutale”, dove l’ex ministro aveva preso la casa con vista Colosseo – quella pagata in parte dall’architetto Angelo Zampolini per conto di Anemone. C’è anche il generale della Guardia di Finanza, ai vertici dell’Aisi fino a pochi mesi fa, Francesco Pittorru.

Paolo o Silvio? Una lista più criptica della precedente poiché, accanto ai nomi, mancano i riferimenti agli importi e alle date dei lavori effettuati. E sulla quale, gli inquirenti, lavorano ormai da mesi. È presto per dire se, e quanto, possano essere coinvolti Silvio o Paolo Berlusconi nell’inchiesta sulla “cricca” che gestiva i “grandi eventi” disposti dalla Protezione Civile. Di certo c’è soltanto che, tra i beneficiari dei lavori del principale indagato, Diego Anemone, ora si scopre anche un Berlusconi. Sul punto, i pm Sergio Sottani e Alessia Tavarnesi, intendono fare chiarezza al più presto. E non soltanto su questo: la procura di Perugia, che ha ormai ripreso il suo lavoro a pieno ritmo, ha affidato alla Guardia di Finanza il compito di fare luce su almeno altre due operazioni sospette.

Assegni sostanziosi La prima riguarda Pasquale de Lise, oggi presidente aggiunto del Consiglio di Stato, alta carica istituzionale ottenuta proprio nel bel mezzo dell’inchiesta, nel giugno 2010, quando il suo nome (insieme con quello di suo genero Patrizio Leozappa) era già comparso, negli atti d’indagine, come particolarmente vicino a Balducci, l’ex presidente del Consiglio dei lavori pubblici, accusato di corruzione – sotto processo tra un mese – proprio per gli affari legati alla “cricca”. C’è un fatto nuovo, scoperto in queste settimane, che sta aprendo nuovi scenari nelle indagini di Perugia: un assegno da ben 250mila euro, versato a de Lise, nell’estate 2009, quindi in tempi piuttosto recenti che combaciano, soprattutto, con i mesi caldi dei lucrosi affari messi in moto da Anemone e Balducci sui Grandi eventi della Protezione Civile. A suscitare l’interesse degli inquirenti, oltre il sostanzioso importo, è anche il firmatario dell’assegno: una facoltosa persona della Capitale, il cui nome è ancora coperto dal segreto istruttorio. Sul genero del giudice, Leozappa, gravano altre quattro operazioni sospette. Il punto è che Leozappa sembra un ulteriore punto di “contatto” tra de Lise e la “cricca”. È lo stesso Gazzani che, interrogato da Sottani e Tavarnesi, risponde: “Ho avuto contatti con l’avvocato Leozappa, inizialmente mi aveva chiesto di costituire una società, per costruire su alcuni terreni, in prossimità della centrale del latte”. “Ha avuto contatti con Leozappa – domandano i pm – per ‘sistemare’ qualcosa per conto di Balducci?”. “Balducci – risponde Gazzani – mi chiese di effettuare verifiche all’interno delle società dove vi era stata una cointeressenza tra Balducci e Anemone (…). Leozappa agiva per conto di Balducci nel chiedermi questa cosa”.

“Il capo” è in casa? Ma anche de Lise è in contatto con Balducci, come dimostrano le indagini dei carabinieri del Ros di Firenze, nelle 20mila pagine d’informative e intercettazioni. Secondo il Ros, nell’epoca in cui era presidente del Tar Lazio, Pasquale de Lise era in contatti stretti anche con l’imprenditore Diego Anemone. Se non bastasse, il 4 settembre 2009, è proprio il giudice a chiamare Balducci. Vuole fargli vedere un documento. E prima di riattaccare accenna a un provvedimento del Tar Lazio. In quei mesi, proprio dinanzi al Tar, pendeva un ricorso – firmato dall’associazione Italia Nostra – sui lavori per i Mondiali di Nuoto e sul Salaria Village, entrambi oggetto d’indagine, proprio per le vicende della “cricca”.

Ed è proprio su segnalazione di suo genero, Patrizio Leozappa, che de Lise si sarebbe mosso per qualcosa: “Patrizio mi aveva parlato di quella cosa – dice – ma quella non stava né in cielo né in terra… quindi insomma… e appunto… io l’ho seguita un po’, quella storia là… ma non… eh… appunto… assolutamente”. Balducci ringrazia. E anche Leozappa, successivamente, riceve la sua fetta di complimenti – questa volta da Diego Anemone – commentando: “Eh, io il mio lo faccio”. Nelle informative del Ros, inoltre, Balducci chiama Leozappa chiedendogli se “il capo” fosse a casa. E il “capo”, secondo gli investigatori, potrebbe essere proprio de Lise. E quindi: posto che l’assegno da 250mila euro non arriva da un componente della “cricca”, i pm ora cercano di capire il motivo di questo ricco versamento, da ben 250mila euro, finito nelle casse del giudice. Grandi eventi spa Agli affari delle Grandi Opere, e della Protezione Civile, si sarebbe infine interessata anche la ministra del Turismo Michela Brambilla che, per qualche momento, avrebbe pensato di costituire un dipartimento apposito. L’ipotesi emerge da un’intercettazione: la telefonata, che parte dalla segreteria del ministero di Scajola, è indirizzata a Balducci. Dalla segreteria di Scajola giunge una notizia: c’è l’interesse della Brambilla per il settore Grandi Eventi. E la risposta di Balducci è netta: meglio lasciar perdere – questo il suo senso, in sintesi – perché potrebbero indispettire sia il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, sia il Capo della Protezione Civile,
Guido Bertolaso
, entrambi molto sensibili all’argomento.



venerdì 3 settembre 2010

Di Pietro superstar alla festa del Pd, Marini fischiato su Casini e Dell'Utri (01/09/2010)



Così, a occhio, pare che la base del Pd tra Franco Marini e Di Pietro non è che stia esattamente con l’esponente e senatore del suo partito.

(poi, sia chiaro, la politica non si fa con l’applausometro; ma la differenza di gradimento tra i due è impressionante).


http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/09/03/hanno-fatto-la-festa-al-senatore-del-pd/



L’affarone di Tremonti - di Redazione Il Fatto Quotidiano




Un palazzo di Milano ceduto da Zunino sull'orlo del fallimento. L'Immobiliare Crocefisso, di cui il ministro dell'Economia è azionista di maggioranza, paga 7,5 milioni di euro. Ma nel 2005 il bene valeva 10 milioni

Il palazzo, quattro piani in tutto nella centralissima via Clerici, a poche decine di metri dalla Scala e dal Duomo di Milano, era in vendita ormai da anni. Luigi Zunino, il furbone del mattone assediato dai debiti, cercava disperatamente un compratore, qualcuno pronto a mettere sul piatto una decina di milioni in cambio di quella casa d’epoca nel cuore della City milanese. Alla fine l’acquirente è arrivato. Ha tirato sul prezzo e si è aggiudicato l’immobile alla pur sempre rispettabile cifra di 7,4 milioni di euro.

Fin qui niente di strano. Quello concluso nel giugno dell’anno scorso nello studio del notaio
Ciro De Vincenzo sarebbe rimasto un affare come tanti, roba da commercialisti e addetti ai lavori, se non fosse che il fortunato compratore è un ministro della Repubblica. Già, perché l’azionista di maggioranza dell’Immobiliare Crocefisso, fresca proprietaria del palazzo di via Clerici, si chiamaGiulio Tremonti.
Pare difficile che il tributarista, professore universitario nonché mente economica del governo
Berlusconi, scelga di trasferirsi armi e bagagli in quelle stanze. Ma il palazzo che fu di Zunino potrebbe rivelarsi un ottimo investimento. Di quelli destinati a rivalutarsi negli anni e a fruttare parecchio in termini di affitti. Cinque anni fa, nel 2005, la casa era stata promessa in vendita aDanilo Coppola, un altro immobiliarista a quei tempi in grande ascesa. Ma il prezzo, allora, era stato fissato a 10 milioni di euro.

Niente da fare. L’operazione non andò in porto. Coppola di lì a poco è finito in prigione. Poi è arrivato Tremonti, che ha spuntato uno sconto del 25 per cento da un venditore con l’acqua alla gola. Insomma, un gran business per il ministro, che ha dimostrato uno straordinario fiuto per gli affari.
Per non parlare della scelta di tempo. Davvero eccezionale. Addirittura sospetta, maligna qualche operatore immobiliare a Milano e dintorni. Perché a luglio del 2009, giusto un mese dopo la cessione a Tremonti della casa di via Clerici, la procura di Milano è partita all’attacco di Zunino chiedendo il fallimento della Risanamento, la sua holding quotata in Borsa. E il crack di quest’ultima avrebbe travolto tutta la galassia societaria del palazzinaro ex rampante, famoso tra l’altro per il progetto (rimasto in gran parte sulla carta) del nuovo quartiere milanese di Santa Giulia.

Quindi, con il senno di poi, si può dire che l’affare di via Clerici ha rischiato seriamente di andare in fumo. Con Tremonti costretto a fare marcia indietro e l’immobiliarista in crisi alle prese con i cocci del suo impero fondato sui debiti. Per capire meglio vediamo qualche data. L’11 giugno 2009 viene siglato il rogito. Nel ruolo di venditore troviamo la Nuova Parva, una società personale di Zunino. A comprare invece è l’Immobiliare Crocefisso, di cui Tremonti – oltre che socio di maggioranza – risulta anche amministratore, un incarico da cui si è autosospeso da quando, a maggio del 2008, è tornato sulla poltrona di responsabile dell’Economia. Il 16 di luglio arriva il siluro della procura. I pm
Laura Pedio e Roberto Pellicano chiedono il fallimento di Risanamento.

In sostanza, indagando su alcune vicende in cui erano coinvolte società di Zunino (fondi neri sulle bonifiche ambientali, buchi di bilancio di Banca Italease), i magistrati arrivano alla conclusione che il gruppo immobiliare, con oltre 3 miliardi di debiti al passivo, non è più in grado di vivere di vita propria. Peggio: a tenerlo in piedi sarebbero grandi creditori come Intesa e Banco Popolare con l’obiettivo di evitare un crack dalle conseguenze potenzialmente disastrose, non solo per Zunino ma anche per i banchieri che per un decennio e più lo hanno generosamente finanziato.

Siamo a fineluglio del 2009: l’ultima parola sulla richiesta di fallimento spetta al tribunale di Milano. Se l’istanza dei pm venisse accolta, per il gran capo di Risanamento sarebbe un disastro, ma anche Tremonti nel suo piccolo non se la passerebbe bene. Crollata la holding quotata in Borsa, sarebbe presto andata a fondo anche la Nuova Parva, che ne controllava oltre il 30 per cento del capitale. Risultato: la vendita del palazzo di via Clerici sarebbe con ogni probabilità andata incontro a un’azione revocatoria.

Un’azione, quest’ultima, prevista dal codice civile per una serie di atti disposti dall’imprenditore insolvente (in questo caso Zunino) nell’arco dei dodici mesi precedenti alla dichiarazione di fallimento. Per Tremonti, costretto da un giudice a restituire il palazzo d’epoca appena acquistato, sarebbe stato un autogol clamoroso. Ma la suspence dura solo qualche mese. Zunino e le banche fanno fronte comune contro l’attacco dei pm. Affiancati da uno stuolo di avvocati e consulenti dalle parcelle milionarie, l’immobiliarista e i suoi creditori si oppongono alla richiesta di fallimento a suon di memorie difensive.

Il tribunale prende tempo. C’è un batti e ribatti con la procura. Alla fine però, il 10 novembre, arriva il verdetto: Risanamento non deve fallire. Il salvataggio verrà gestito dalle banche creditrici con un piano sottoposto all’approvazione dei giudici. Zunino esce di scena. Vincono i banchieri. E Tremonti può tenersi il suo palazzetto, congratulandosi con se stesso per l’ottima scelta di tempo.




Berlinguer, chi era costui? - Marco Travaglio



Signornò, da L'Espresso in edicola


Come se non ci fosse abbastanza confusione sotto i cieli della politica, giunge a proposito la polemica di mezza estate intorno a
Enrico Berlinguer. L’ha innescata quel diavolo di Tremonti, elogiando i suoi “scritti del 1977 sull’austerity”. Tarantolata come il vampiro dinanzi all’aglio, la sempre equilibrata sottosegretaria Stefania Craxi ha versato litri di bile sul ministro dell’Economia del suo governo in una lettera al Corriere della sera: “Berlinguer non credeva una parola (sic, ndr) di quello che scriveva”, il suo “Pci ha sempre rappresentato il partito della spesa”, poi fu “messo ko da Craxi” e allora “inventò l’austerità e il moralismo per nascondere l’isolamento in cui la sua fobia verso i socialisti aveva condotto il Pci”.

L’indomani
Emanuele Macaluso le ha ricordato qualche data che, nella fretta, le era sfuggita: “Berlinguer pronunciò quel discorso il 16 gennaio 1977, quando Craxi era segretario del Psi da soli sei mesi” e nemmeno volendo avrebbe potuto metterlo ko. Intanto però un’altra autorevole vestale del socialismo, Fabrizio Cicchitto, aveva scritto alla Stampa per associarsi alla Craxi e dissociarsi da Tremonti. A suo dire, Berlinguer “cavalcò la questione morale, poi tradotta dai suoi eredi in giustizialismo, malgrado il Pci fosse finanziato irregolarmente dal Pcus e altre fonti eterodosse” e “negli anni '70 spingeva per forti aumenti di spesa pubblica”. Altro che austerity. Parola di un signore che, grazie alla tessera P2numero 2232, di finanziamenti eterodossi dovrebbe intendersi un bel po’.

Ma la leggenda nera di Berlinguer capo del “
partito della spesa”, antiquato e passatista, messo ko dal più “moderno” Craxi è molto diffusa anche a sinistra. Basti pensare alle corbellerie pro-Craxi e anti-Berlinguer pronunciate in questi anni da Fassino, D’Alema, Violante e Veltroni. La storia insegna l’opposto: negli anni '70, compresi i due del compromesso storico, il debito pubblico era sotto controllo: 50-60% del Pil. Fu negli anni '80, col Caf al governo e il Pci all’opposizione, che balzò al 120: il maggior incremento lo registrò proprio nei quattro anni del governo Craxi (dal 70 al 92%). Il ko di Craxi a Berlinguer, poi, è pura barzelletta. Se l’ex Pci sopravvisse alla Prima Repubblica, lo deve essenzialmente al ricordo di Berlinguer, unico leader della sinistra rimasto nel cuore degli italiani. Intanto il Psi veniva annientato dalle ruberie craxiane. E ora quel poco che ne resta è annesso al Pdl, dove la signora Craxi siede comodamente in poltrona, scambiando Storace per Turati e la Santanchè e la Mussolini per la Kuliscioff. Significativamente il dibattito su Berlinguer è circoscritto entro i confini del Pdl. Il Pd ha altro da fare: perso per strada Tony Blair, faro dei “riformisti” nostrani (dopo i trionfi irakeni ed elettorali, ha appena fondato una banca per super-ricchi), si accapiglia intorno a un rovello epocale: invitare o no alla sua festa il leghista Cota? Vivo entusiasmo nella base.