Un governo “provvisorio” per affrontare questioni improrogabili (la legge elettorale innanzitutto) è solo in astratto la soluzione per uscire da una situazione disastrosa.
I normali rimedi previsti nelle democrazie costituzionali non riescono infatti a funzionare nella realtà politicamente e moralmente degradata che stiamo vivendo.
I rimedi per uscire dalle crisi prevedono due passaggi, il primo nelle mani delle Camere, il secondo del presidente della Repubblica: se il governo non è in grado di funzionare, un voto di sfiducia lo costringe alle dimissioni aprendo la strada alla formazione di un governo nuovo da parte del presidente.
Questo cammino è oggi impedito da una squallida farsa: una maggioranza inesistente, ‘acquistando’ una manciata di voti di parlamentari ‘responsabili’, impedisce l’approvazione della sfiducia, bloccando una situazione insostenibile. Non ci sono i numeri per sfiduciare il governo, né per consentirgli un’azione politica efficace. I meccanismi costituzionali risultano inservibili perché il gioco è condotto con dadi truccati. Se il primo passaggio si rivela impossibile, ogni uscita è inesorabilmente preclusa?
QUI S’INSERISCE l’altro lato della vicenda, forse il più fosco, che ne rende insostenibile il perdurare. Non è soltanto in causa una maggioranza sfaldata e insufficiente: l’insufficienza è anche morale, vorrei dire ‘civile’, e rende incompatibile la persona di Berlusconi con la carica istituzionale ricoperta. Ma il presidente del Consiglio rifiuta di dimettersi; anche quest’uscita, scontata in qualsiasi democrazia normale, di fatto è preclusa. È guardando ad entrambi i fatti e alla loro ‘peculiarità’ che va valutato, in concreto, il ricorso all’estrema soluzione: lo scioglimento anticipato delle Camere. È la via indicata da Eugenio Scalfari nell’editoriale di domenica scorsa; ma, gli si obietta,il decreto di scioglimento deve essere controfirmato dal presidente del Consiglio. Come se ne esce?
Nessuna difficoltà, sembrerebbe. La norma però va letta nel quadro del sistema parlamentare e del generale principio dell’art. 89 “Nessun atto del presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la responsabilità”. La controfirma ha un valore puramente formale, o il governo può rifiutarla? La risposta non è del tutto sicura. La controfirma assume “un diverso valore a seconda del tipo di atto” ammette anche
Negli atti ‘presidenziali’, dunque, la decisione finale è assunta dal capo dello Stato, la controfirma è dovuta. Lo scioglimento delle Camere è fra questi? Alcuni costituzionalisti, soprattutto in passato, ritenevano di sì; per altri invece rientrerebbe in un terzo tipo (‘atto complesso’) che richiede l’accordo di entrambi.
Mi è sempre parsa preferibile questa posizione:inammissibile affidare al solo presidente, organo politicamente irresponsabile, una decisione intensamente politica, legata a valutazioni contingenti, non giudicabile con parametri oggettivi. La mia convinzione si è rafforzata dopo la presidenza di Cossiga le cui decisioni, legate agli umori del momento, provocarono numerosi appelli di costituzionalisti preoccupati per l’equilibrio costituzionale.
HO SEMPRE ritenuto che anche la maggioranza, qualsiasi maggioranza, vada tutelata, e dunque il governo, che della maggioranza è espressione, debba aver voce in una decisione grave che può metterne in gioco la sorte, e che pertanto la controfirma al decreto di scioglimento abbia valore ‘sostanziale’. Le interpretazioni diverse dell’art. 88 portano a differenti esiti: se lo scioglimento è ‘atto presidenziale’ l’eventuale rifiuto di controfirma autorizzerebbe il presidente a ricorrere alla Corte costituzionale, la quale, purché sussistano ragioni valide, darebbe ragione al primo. Con la teoria dell’atto complesso, invece, il rifiuto governativo – accertata la validità delle ‘motivazioni’ del rifiuto – dovrebbe essere considerato legittimo. La situazione concreta ha comunque un ruolo decisivo, e certamente le tipologie della dottrina non vanno intese in un modo rigido , incompatibile con l’elasticità dei rapporti costituzionali che sono pur sempre rapporti politici. Anche chi accede all’idea del necessario accordo fra i due, sposta comunque l’accento sul potere del capo dello Stato (ad esempio Paladin). Ed è sicuro per tutti che se è il presidente ad opporsi, lo scioglimento non si può fare. Nelle attuali circostanze s’innestano peculiarità tali da spostare i termini del discorso? Non siamo in una situazione ‘normale’ dove la decisione di sciogliere si basa su considerazioni soltanto ‘politiche’ e perciò non può essere lasciata al solo capo dello Stato.
Urgenze diverse s’incrociano. A un blocco che non trova uscita nelle vie costituzionalmente previste si aggiunge l’esigenza di ridare alle istituzioni la dignità perduta e di porre fine a contrasti indecorosi al limite della crisi. Quella del capo dello Stato non sarebbe una valutazione soltanto ‘politica’.
Due gravi motivi, oggettivamente rilevabili, la sosterrebbero:
rimettere in moto le istituzioni inceppate è fra i suoi compiti istituzionali (il governo con la sua maggioranza risicata non ‘governa’ e i rimedi costituzionali sono inutilizzabili);
chiudere un’inedita situazione di degrado e lotta fra ‘poteri’ mai prima verificata.
I dubbi, di certo, non mancano: ma è necessario, almeno, rifletterci.
Copiato da:
http://ilgiornalieri.blogspot.com/2011/02/il-quirinale-da-solo-non-basta.html