Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
mercoledì 16 febbraio 2011
B. nel bunker chiama la piazza. - di Adriano Botta.
E così via, in un tripudio di richieste di mobilitazione. Che poi tracimano, inevitabilmente, sul "Giornale" di famiglia, secondo il quale «Berlusconi ha di nuovo accarezzato l'idea di una grande manifestazione di piazza contro la magistratura politicizzata». Perché, continua la testata del premier, «il Cavaliere ieri pomeriggio era tonico e reattivo (...) e continua a non aver alcun tentennamento né alcuna intenzione di fare passi indietro». Una certezza che si traduce nel titolone di prima pagina: «Berlusconi non cade». Sulla stessa linea il giornale gemello, "Libero": «Il passo indietro non ci sarà mai».
Insomma, smentite preventive, perché martedì sera anche tra i deputati del Pdl si era diffusa la voce (ufficiosissima, anzi rigorosamente anonima) che sarebbe stato pronto un passaggio di mano ad Alfano o a Letta. Invece, avanti tutta: arroccandosi e appellandosi alla piazza, fino alla fine.
Tutte le dichiarazione degli esponenti del Pdl sono identiche e chi non manda almeno due righe all'Ansa gridando al golpe è un traditore: «Il 6 aprile non va a processo il premier o il suo governo, ma la nostra democrazia» (Meloni);«Berlusconi è vittima di un sistema malato che tenta di criminalizzare chiunque si pone a capo dei moderati» (Giovanardi); «Non accettiamo che un confronto politico venga affrontato con mezzi impropri dalla sinistra politico-giudiziaria» (Gasparri); «Come in passato, Berlusconi sarà assolto, ma solo dopo aver sprecato milioni di euro in indagini inutili e infangato l'immagine dell'Italia» (Valducci); «Non cantino vittoria i signori della sinistra che, incapaci di battere Berlusconi nelle urne, sperano sempre e soltanto nel solito aiutino dei pm rossi» (Izzo); «Guerra persecutoria, aggressione giudiziaria, voglia di piazzale Loreto» (Giuliano Ferrara)». Fino al mitico «Berlusconi never surrender», in inglese, di Giorgio Stracquadanio. Lo stesso concetto (non manca mai la frase «giustizia a orologeria»)viene insomma declinato centinaia di volte per mostrare al Capo che non è rimasto solo nel bunker.
E in un certo senso i colonnelli e i peones del Pdl hanno ragione, perché mentre attorno al Cavaliere si erode lentamente ma continuativamente il consenso degli elettori (tutti i sondaggi ormai lo dimostrano), si rinforza invece la maggioranza parlamentare, con nuove acquisizioni dovute anche al caos dentro Futuro e Libertà.
Questa, dicono al Pdl, è adesso la priorità assoluta di Berlusconi, che anche martedì pomeriggio - appena tornato a Roma da Catania- ha alternato gli incontri con gli avvocati (Ghedini in testa) a quelli con i parlamentari che stanno lavorando per «allargare il centrodestra». L'obiettivo dichiarato è quota 330 deputati, finora la maggioranza è ferma a 315. Difficile da raggiungere, ma al premier basterebbero cinque o sei voti in più per poter sollevare il «conflitto di attribuzione» e quindi usare la Camera come arma per fermare i giudici di Milano. Anche Bossi, nonostante tutto, ha garantito il suo appoggio a questa strategia: l'allargamento della maggioranza a lui verrebbe utile perché gli consentirebbe di far avanzare le norme sul federalismo che dovrebbero essere approvate nei prossimi mesi e che al momento si sono inceppate.
Insomma, scontro a tutto campo. Perché intanto i processi vanno avanti. I processi, al plurale: il 28 febbraio riparte quello Mediaset (B. imputato di frode fiscale); il 5 marzo Mediatrade (B. indagato per appropriazione indebita); l'11 marzo Mills (B. imputato di corruzione). Un crescendo in vista del 6 aprile, quando Berlusconi sarà chiamato a rispondere di prostituzione minorile e concussione.
Fu in quel momento, rivelano Colaprico e D'Avanzo su "Repubblica", che Berlusconi si inventò la storia della «nipote di Mubarak», per poter giustificare i soldi di cui la minorenne avrebbe disposto. Ma dopo aver saputo la vera età di Ruby, il premier l'ha "rivista" in molte altre occasioni, nella piena coscienza pertanto di avere un rapporto con una minorenne. Di qui le telefonate in questura per farla liberare, il 28 maggio, nel timore che la sua relazione con una diciassettenne venisse rese pubblica. Una toppa peggio del buco, perché nel fare pressioni ai poliziotti utilizzando la storiella di Mubarak, è scattata anche la concussione.
E ora a Berlusconi non resta più alcuna verosimile arma di difesa, se non quei 320 parlamentari arroccati a difenderlo contro ogni evidenza.
Il Quirinale da solo non basta. - di Lorenza Carlassare.
Un governo “provvisorio” per affrontare questioni improrogabili (la legge elettorale innanzitutto) è solo in astratto la soluzione per uscire da una situazione disastrosa.
I normali rimedi previsti nelle democrazie costituzionali non riescono infatti a funzionare nella realtà politicamente e moralmente degradata che stiamo vivendo.
I rimedi per uscire dalle crisi prevedono due passaggi, il primo nelle mani delle Camere, il secondo del presidente della Repubblica: se il governo non è in grado di funzionare, un voto di sfiducia lo costringe alle dimissioni aprendo la strada alla formazione di un governo nuovo da parte del presidente.
Questo cammino è oggi impedito da una squallida farsa: una maggioranza inesistente, ‘acquistando’ una manciata di voti di parlamentari ‘responsabili’, impedisce l’approvazione della sfiducia, bloccando una situazione insostenibile. Non ci sono i numeri per sfiduciare il governo, né per consentirgli un’azione politica efficace. I meccanismi costituzionali risultano inservibili perché il gioco è condotto con dadi truccati. Se il primo passaggio si rivela impossibile, ogni uscita è inesorabilmente preclusa?
QUI S’INSERISCE l’altro lato della vicenda, forse il più fosco, che ne rende insostenibile il perdurare. Non è soltanto in causa una maggioranza sfaldata e insufficiente: l’insufficienza è anche morale, vorrei dire ‘civile’, e rende incompatibile la persona di Berlusconi con la carica istituzionale ricoperta. Ma il presidente del Consiglio rifiuta di dimettersi; anche quest’uscita, scontata in qualsiasi democrazia normale, di fatto è preclusa. È guardando ad entrambi i fatti e alla loro ‘peculiarità’ che va valutato, in concreto, il ricorso all’estrema soluzione: lo scioglimento anticipato delle Camere. È la via indicata da Eugenio Scalfari nell’editoriale di domenica scorsa; ma, gli si obietta,il decreto di scioglimento deve essere controfirmato dal presidente del Consiglio. Come se ne esce?
Nessuna difficoltà, sembrerebbe. La norma però va letta nel quadro del sistema parlamentare e del generale principio dell’art. 89 “Nessun atto del presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la responsabilità”. La controfirma ha un valore puramente formale, o il governo può rifiutarla? La risposta non è del tutto sicura. La controfirma assume “un diverso valore a seconda del tipo di atto” ammette anche
Negli atti ‘presidenziali’, dunque, la decisione finale è assunta dal capo dello Stato, la controfirma è dovuta. Lo scioglimento delle Camere è fra questi? Alcuni costituzionalisti, soprattutto in passato, ritenevano di sì; per altri invece rientrerebbe in un terzo tipo (‘atto complesso’) che richiede l’accordo di entrambi.
Mi è sempre parsa preferibile questa posizione:inammissibile affidare al solo presidente, organo politicamente irresponsabile, una decisione intensamente politica, legata a valutazioni contingenti, non giudicabile con parametri oggettivi. La mia convinzione si è rafforzata dopo la presidenza di Cossiga le cui decisioni, legate agli umori del momento, provocarono numerosi appelli di costituzionalisti preoccupati per l’equilibrio costituzionale.
HO SEMPRE ritenuto che anche la maggioranza, qualsiasi maggioranza, vada tutelata, e dunque il governo, che della maggioranza è espressione, debba aver voce in una decisione grave che può metterne in gioco la sorte, e che pertanto la controfirma al decreto di scioglimento abbia valore ‘sostanziale’. Le interpretazioni diverse dell’art. 88 portano a differenti esiti: se lo scioglimento è ‘atto presidenziale’ l’eventuale rifiuto di controfirma autorizzerebbe il presidente a ricorrere alla Corte costituzionale, la quale, purché sussistano ragioni valide, darebbe ragione al primo. Con la teoria dell’atto complesso, invece, il rifiuto governativo – accertata la validità delle ‘motivazioni’ del rifiuto – dovrebbe essere considerato legittimo. La situazione concreta ha comunque un ruolo decisivo, e certamente le tipologie della dottrina non vanno intese in un modo rigido , incompatibile con l’elasticità dei rapporti costituzionali che sono pur sempre rapporti politici. Anche chi accede all’idea del necessario accordo fra i due, sposta comunque l’accento sul potere del capo dello Stato (ad esempio Paladin). Ed è sicuro per tutti che se è il presidente ad opporsi, lo scioglimento non si può fare. Nelle attuali circostanze s’innestano peculiarità tali da spostare i termini del discorso? Non siamo in una situazione ‘normale’ dove la decisione di sciogliere si basa su considerazioni soltanto ‘politiche’ e perciò non può essere lasciata al solo capo dello Stato.
Urgenze diverse s’incrociano. A un blocco che non trova uscita nelle vie costituzionalmente previste si aggiunge l’esigenza di ridare alle istituzioni la dignità perduta e di porre fine a contrasti indecorosi al limite della crisi. Quella del capo dello Stato non sarebbe una valutazione soltanto ‘politica’.
Due gravi motivi, oggettivamente rilevabili, la sosterrebbero:
rimettere in moto le istituzioni inceppate è fra i suoi compiti istituzionali (il governo con la sua maggioranza risicata non ‘governa’ e i rimedi costituzionali sono inutilizzabili);
chiudere un’inedita situazione di degrado e lotta fra ‘poteri’ mai prima verificata.
I dubbi, di certo, non mancano: ma è necessario, almeno, rifletterci.
Copiato da:
http://ilgiornalieri.blogspot.com/2011/02/il-quirinale-da-solo-non-basta.html
Le carte dell’inchiesta, Ruby: B mi disse di dire che ero la nipote di Mubarak.
La testimonianza che inchioda il presidente del Consiglio è contenuta nel primo verbale interrogatorio della ragazza marocchina. La quale conferma: voleva avere rapporti sessuali con me, mi diede una busta con 50mila euro
Torniamo allora al 14 febbraio 2010, il giorno che fissa il primo ingresso di Ruby a villa San Martino. Racconta la marocchina, che all’epoca ha 17 anni (i 18 li compirà il primo novembre): “Berlusconi mi prese da parte e mi condusse in una stanza dove restammo soli. Mi disse che la mia vita sarebbe cambiata e, anche se non ha mai parlato esplicitamente di rapporti sessuali, non è stato difficile per me capire che mi proponeva di fare sesso con lui”. Cosa pensa quella ragazza che si porta dietro una vita difficile e una fuga dalla comunità di Letojanni in provincia di Messina? In quel San Valentino, prima di entrare ad Arcore, ha già conosciuto Emilio Fede. Il direttore del Tg4 ha promesso di aiutarla e le ha subito presentato Lele Mora. L’impresario dei vip non ha dubbi: quella ragazzina gli piace e la fa entrare nella sua scuderia.
Di nuovo la parola a Ruby: “Berlusconi mi portò in un ufficio e mi consegnò una busta con 50mila euro”. In quel momento, però, il premier non sa che Ruby ha 17 anni. “Lui – dice la ragazza – sa che ho 24 anni”. Per ora, dunque, vale la buona fede del presidente del Consiglio che paga per un presunto rapporto sessuale con una maggiorenne. Tutto nelle regole, dunque.
Proseguiamo. “La volta successiva – va avanti Ruby – , mi ricordo era in marzo, l’autista di Emilio Fede viene a prendermi in via Settala, dove abitavo allora. Torno ad Arcore e là, parlando con le altre ragazze invitate, vengo a sapere che chi stava con lui, con Silvio, poteva avere la casa gratis. Alcune ragazze mi dissero di avere avuto a Milano 2 un appartamento con cinque anni di affitto pagati”. Naturalmente si tratta della Residenza in via Olgettina 65. In quegli appartamenti vivono tutte le ragazze del premier. C’è Marysthell Polanco, la donna del narcotrafficante Ramirez, c’è la soubrette Barbara Guerra, le sorelle De Vivo, napoletane con una partecipazione all’Isola dei Famosi, c’è Iris Berardi, neodiciottenne, origini brasiliane, ma provenienza emiliana, lei è una delle più assidue frequentatrici di Arcore. E c’è anche Nicole Minetti che ora in via Olgettina non abita più, ma che qui, nonostante tutto, ci passa spesso. A lei, infatti, il compito di gestire l’amministrazione delle case per conto delle ragazze e su ordine del premier.
A marzo, quindi, il Cavaliere offre a Ruby un appartamento. Lei non crede alle sue orecchie. Prima il denaro ora la casa. C’è però un solo pensiero che l’assilla: la bugia sulla sua età. ”A Berlusconi – racconta – avevo detto falsamente di avere ventiquattro anni e di essere egiziana. Quando mi propone di intestarmi quella casa, dovevo dirgli come stavano le cose. Non potevo più mentire. Gli dissi la verità: ero minorenne ed ero senza documenti”. Eppure, stando alla testimonianza della ragazza, il premier non si scompone. Le suggerisce: “Dirai a tutti che sei la nipote di Mubarak così potrai giustificare le risorse che ti metterò a disposizione”.
Ecco, allora, la genesi della balla che fa esplodere il caso e che, secondo il gip di Milano, radica il processo a Milano. Berlusconi, infatti, la sera del 27 maggio, telefonando al capo di gabinetto Pietro Ostuni, non agì nel pieno delle sue funzioni. Di più: poco conta che il reato di prostituzione minorile si avvenuto ad Arcore per cui è competente il Tribunale di Monza, perché, in questo caso, il reato più grave (concussione) attira a sé come una calamita quello meno grave (prostituzione minorile).
lunedì 14 febbraio 2011
Mirabelli: «Per le elezioni non serve il sì del premier»
«Il potere di scioglimento delle Camere non è un potere duale, ma un potere eccezionale del Presidente della Repubblica, che lo esercita sentiti i presidenti delle Camere - spiega Mirabelli - Occorre la controfirma come per tutti gli atti del capo dello Stato, ma questo non implica una condivisione, cioè che incida la volontà del governo; insomma non occorre dal punto di vista sostanziale una doppia volontà. Per questo se ci sono i presupposti, la controfirma non può essere rifiutata.
E se questo avvenisse si profilerebbe un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato davanti alla Consulta» Un'ipotesi « da scongiurare», secondo Mirabelli, che è comunque convinto che Napolitano con la nota di ieri «abbia voluto esprimere un ammonimento, rivolgere un invito a un rapporto istituzionale più sereno, non annunciare un'intenzione». «Lo scioglimento delle Camere è un potere esclusivo del Presidente della Repubblica. E il presidente del Consiglio non può rifiutarsi di controfirmarlo, perchè la sua firma attesta la provenienza dell'atto dal capo dello Stato, non è un concorso alla decisione» conviene Baldassarre. E spiega: «la tesi secondo cui lo scioglimento anticipato comporti necessariamente il contributo positivo del Presidente del Consiglio andava bene prima del mutamento del nostro sistema parlamentare, intervenuto con le leggi elettorali del '93-'94. Ora il presidente del Consiglio è il capo di una coalizione potenzialmente maggioritaria; se vi fosse una co-decisione nello scioglimento delle Camere, significherebbe, dato l'attuale sistema, che questo potere è scivolato nelle sue mani. Si tratta comunque di una decisione estrema, che va presa in presenza di una grave difficoltà del sistema costituzionale».
Basterebbero tensioni gravi tra istituzioni? «sì, se sono tali da mettere in pericolo lo Stato di diritto. Condizioni che al momento forse non ci sono, ma molto dipenderà dalle decisioni future: se vi fossero deliberazioni parlamentari tali da mettere in pericolo l'equilibrio tra i poteri dello Stato, per esempio colpendo l'indipendenza della magistratura, ci sarebbero gli estremi per lo scioglimento».
«Ogni atto del capo dello Stato va controfirmato, ma la controfirma ha un valore diverso a seconda del potere che viene esercitato -premette Ainis- Nel caso del potere di scioglimento, tutto dipende dal motivo per cui viene disposto: se perchè il Parlamento non è in grado di esprimere una maggioranza, si tratta di un atto complesso, che dunque richiede la volontà concorde del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio; se invece perchè c'è una fiducia solo di facciata ma le Camere sono di fatto paralizzate oppure c'è una guerra tra istituzioni, siamo di fronte a un atto sostanzialmente presidenziale e la controfirma è solo notarile. In questo caso cioè il presidente del Consiglio non può giudicare il merito».
Per Ainis «non siamo ancora in nessuna di queste situazioni, ma c'è qualche sintomo: c'è un Parlamento che cammina poco e una rissa tra istituzioni che manca poco che diventi guerra».