Questa volta, Berlusconi non potrà dire che i dispacci di Wikileaks vengono da «funzionari di terzo grado». Infatti è l’ambasciatore Ronald Spogli, spedito a Roma da Bush nel 2005, che nel febbraio del 2009 fa il bilancio dei suoi quattro anni a Roma, spedendo una lettera di consigli al nuovo ministro degli esteri, Hillary Clinton.
Ne ha viste parecchie, Spogli: è arrivato con Berlusconi premier, ha vissuto i due anni di Prodi e mentre sta per lasciare l’Italia c’è di nuovo il Cavaliere a Palazzo Chigi. Quindi alla Clinton spiega che cosa bisogna fare secondo lui per trarre il massimo vantaggio, dal punto di vista americano, dalle relazioni con Roma, anche se – inevitabilmente – poi scivola in analisi sulla politica nel nostro Paese.
Ne viene fuori un quadro impressionante. Non solo e non tanto per la scarsissima considerazione con cui gli Usa guardano a Berlusconi, quanto per il patto che ne esce: gli Stati Uniti sosterranno quello che per loro è un politico impresentabile solo perché è completamente prono ai loro interessi.
Secondo gli Usa, infatti, non siamo un Paese irrilevante: «L’Italia è la sede del più completo arsenale militare di cui noi disponiamo al di fuori del territorio degli Stati Uniti», scrive l’ambasciatore «e rappresenta una piattaforma geostrategica unica in Europa che consente di raggiungere facilmente zone a rischio in tutto il Medio Oriente, l’Africa e l’Europa».
Insomma, un po’ come negli Anni ‘50, per gli americani siamo una gigantesca portaerei in mezzo al Mediterraneo. E «considerati i compiti strategici che si profilano in futuro e le richieste che faremo a breve, su questioni che vanno dall’Aghanistan alla chiusura di Guantanamo, varrebbe la pena di fare un piccolo investimento iniziale per spianarci la strada».
L’investimento, come vedremo, è l’appoggio di Washington a Berlusconi, in cambio del quale l’amministrazione americana otterrà tutto quello che vuole.
Peccato che, agli occhi dell’ambasciatore, il nostro Paese stia andando in malora: «Il declino economico è lento ma sostanziale», mentre «la classe dirigente dimostra spesso di non avere una visione strategica» ed è evidente la «mancanza di volontà e l’incapacità dei leader italiani di affrontare i problemi strutturali» come «la decadenza delle infrastrutture, il debito pubblico che aumenta, la corruzione endemica», tutte cose che «danno l’impressione di un governo inefficiente e debole».
Poi arriva la mazzata: «Il primo ministro Silvio Berlusconi è involontariamente diventato il simbolo di questo processo. Le sue continue gaffe e la sua povertà di linguaggio hanno più di una volta offeso gran parte del popolo italiano e molti leader europei. La sua chiara volontà di anteporre i propri interessi personali a quelli dello Stato, il suo privilegiare le soluzioni a breve termine a discapito di investimenti lungimiranti, il suo frequente utilizzo delle istituzioni e delle risorse pubbliche per ottenere benefici elettorali sui suoi avversari politici hanno danneggiato l’immagine dell’Italia in Europa, creato una reputazione disgraziatamente comica alla reputazione dell’italia in molti settori del governo statunitense».
Ma non è ancora finita. Perché Spogli subito dopo deride la politica estera del Cavaliere, tutta apparenza e niente sostanza: «L’Italia ha cercato di compensare la mancata allocazione di risorse proponendosi come grande mediatore mondiale, un ruolo autoconferitosi che i politici (e in particolare Silvio Berlusconi) credono dia grande visibilità e virtualmente nessun costo. Senza alcun tipo di coordinamento esterno, i leader italiani hanno cercato di mediare nei rapporto dell’Occidente con la Russia, nell’impegno verso Hamas e Hizballah, nello stabilere nuovi canali di negoziazione con l’Iran ed espandendo l’agenda e il mandato del G8».
E va beh.
Ma di questo Paese, appunto, l’America ha bisogno. E l’ambasciatore lo dice chiaramente: «La combinazione tra declino economico e idiosincrasie politiche ha spinto molti leader europei a denigrare i contributi italiani e di Berlusconi. Noi non dobbiamo farlo. Dobbiamo riconoscere che un impegno di lunga durata con l’Italia e i suoi leader ci procurerà importanti dividendi strategici, ora e in futuro», ad esempio «per l’insediamento dei detenuti di Guantanamo e per un più ampio e approfondito impegno in Afghanistan».
Detta fuori dal linguaggio dei diplomatici: agli altri capi di Stato e di governo occidentali, Berlusconi sta talmente sulla balle («idiosincrasie») che non vogliono più averci niente a che fare. A noi invece è utile, quindi ci turiamo il naso.
Del resto era stato lo stesso Spogli, pochi mesi prima, a compiacersi per la «schiacciante vittoria elettorale di Berlusconi», la cui «forza e la popolarità stride brutalmente con i due anni di divisioni interne che hanno caratterizzato il governo Prodi».
E nel febbraio 2009 spiega perché agli Usa conviene sostenere il Cavaliere: «Benché Berlusconi non sia sintonizzato con i nostri ritmi politici quanto ritiene di essere, è genuinamente e profondamente devoto al rapporto con gli Usa. Il suo ritorno in politica la scorsa primavera ha portato un tangibile e pressoché immediato miglioramento nella nostra capacità di conseguire risultati da un punto di vista operativo».
Quindi: «Sono convinto che, nella misura in cui lei e i suoi più stretti collaboratori resterete in contatto e vi coordinerete con i leader italiani, avremo risultati soddisfacenti. Allo stesso modo, se troveremo il modo di includere l’Italia nel gruppo di nazioni con cui lavoriamo a più stretto contatto sui temi chiave – come il Medio Oriente, l’Iran e l’Afghanistan – lei e il presidente troverete moltissimi modi per incanalare il grande potenziale italiano in supporto agli obiettivi strategici statunitensi».
Ricapitolando: l’America ci considera un paese allo sbando e governato da un pagliaccio, ma il pagliaccio è devoto, molto più ubbidiente di chi l’ha preceduto. E siccome l’Italia sta in mezzo al Mediterraneo e ha carne fresca da mandare a combattere, agli americani sta bene così.