mercoledì 4 maggio 2011

Nove Premi Nobel contro il nucleare. - di Giovanna D'Arbitrio



In occasione del 25° anniversario del disastro di Chernobyl, e ricordando la catastrofe di Fukushima, nove Premi Nobel hanno inviato una lettera aperta a 31 capi di stato invitandoli a riflettere sui pericoli del nucleare e sollecitandoli a investire su fonti energetiche alternative, più sicure e rinnovabili.

Essi hanno affermato di essere “fermamente convinti che se si cominciasse adesso a dismettere il nucleare in tutto il mondo, le generazioni future, soprattutto quelle giapponesi che hanno sofferto fin troppo, vivrebbero in un mondo più sicuro e pacifico”.

Ecco i loro nomi: Betty William (Irlanda), Mairead Macguire (Irlanda), Rigoberta Menchu Tum (Guatemala), Jody Williams (USA), Dhirin Ebadi (Iran), Wangari Maathai (Kenya), Desmond Tutu (South Africa), Adolfo Perez Esquivel (Argentina), Jose Ramos Horta (East Timor).

Anche l’italiano Carlo Rubbia, Premio Nobel per la fisica 1984, in una recente intervista su “Repubblica” si è schierato contro la costruzione di nuove centrali nucleari che nel nostro paese in particolare richiederebbe tempi troppo lunghi per dare risultati apprezzabili e privi di rischi.

In Italia intanto slitta la firma del decreto interministeriale sulle energie rinnovabili. Pare ci siano opinioni diverse in merito e che si voglia tener conto delle richieste delle regioni.
Dopo la rinuncia all’utilizzo del nucleare, rinuncia che bloccherà anche il prossimo referendum sullo stesso, fu annunciato un grande piano energetico nazionale, ma pare sia necessario ora trovare punti d’incontro tra pareri contrastanti.

Intanto, per lo slittamento del decreto, molti posti di lavoro sono a rischio: l’impasse nel settore impedisce la pianificazione degli investimenti.

Pare che le centrali nucleari sul nostro pianeta siano complessivamente 442, concentrate soprattutto negli USA (104), in Europa (148), Russia, Giappone, senza contare quelle in fase di costruzione (soprattutto in Cina).

Ancora troppi i reattori più vecchi e pericolosi, costruiti in un periodo in cui non si teneva conto dei territori a rischio sismico.
Ci auguriamo pertanto che non ne vengano costruite altre o che almeno si riducano i pericoli di quelle già esistenti, per il bene dei nostri figli.




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Chi è Nadia Urbinate.



E' un'accademica, politologa e giornalista italiana naturalizzata statunitense.

Titolare della cattedra di Scienze Politiche alla Columbia University di New York[1], come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranitá e della rappresentanza politica.

Come autrice ha pubblicato saggi sul liberalismo, su John Stuart Mill, su individualismo, sui fondamenti della democrazia rappresentativa,su Carlo Rosselli.

Collabora con il quotidiano La Repubblica e con Il sole 24 ore, negli USA è stata condirettrice della rivista Constellations.

Il 26 febbraio 2008, su iniziativa del Presidente della Repubblica italiana, è stata insignita del titolo di "Commendatore al merito della repubblica Italiana" perchè «Attraverso la sua attività accademica e le sue pubblicazioni ha dato un significativo contributo all'approfondimento del pensiero democratico e alla promozione di scritti di tradizione liberale e democratica italiana all'estero»

(wikipedia)


Gaffe di La Russa: «Chi è Lukashenko?» - Ballarò 03/05/2011



Preparatissimo!
E questo sarebbe un nostro ministro?


La Urbinati vs La Russa: "Ministro, ha bisogno di qualche lezione?" -




Che figure barbine che ci fanno fare questi insulsi ministri...


Le rivolte arabe erano anche contro di lui. - di Lucia Annunziata.



L’uccisione di Osama Bin Laden e le rivolte delle strade arabe riscrivono il futuro del Medio Oriente. Due avvenimenti senza alcun legame, lontanissimi fra loro, almeno in apparenza. In realtà intrecciati dalla ferrea logica dello stato delle cose reali. Dieci anni fa esatti Al Qaeda con i suoi attacchi ai nemici americani, agli Infedeli, all’Occidente, attraverso le due Torri, lanciava in realtà una campagna politica di dominio del mondo arabo.

La sua era una proposta inedita negli strumenti scelti (la ipermediatizzazione e il gigantismo terroristico) ma non negli scopi. Bin Laden rilanciava in effetti l’ideologia panarabista, si proponeva la conquista dell’intero mondo arabo, l’abbattimento dunque dei vari governi autoritari/pro occidentali. La conquista dell’egemonia su tutto il mondo islamico è una vecchia chimera alla cui seduzione hanno ceduto periodicamente negli anni, fin dalla fine dell’Impero Ottomano, cioè da dopo la Prima Guerra Mondiale, vari re ed emiri – e a cui ancora oggi lavorano attivamente quasi tutti gli Stati mediorientali. Di questa chimera fu vittima Saddam Hussein quando, dopo la fine dell’influenza sovietica, avviò nel 1990 l’invasione del Kuwait (e la prima Guerra del Golfo). Questa chimera insegue oggi l’Iran con le sue pedine religiose sparse nella regione, come Hamas ed Hezbollah. Sicuramente questa chimera agita da sempre le ambizioni dell’Arabia Saudita, di cui Osama bin Laden era, e non a caso, figlio. Il panarabismo terrorista di Al Qaeda era una soluzione a quella esplosione demografica che da venti anni a questa parte ha gonfiato le città arabe di giovani uomini (e donne) inquieti, disoccupati, e stanchi di un destino di passiva accettazione in un mondo pieno di tentazioni, denaro, corruzione, ed energia. Chi volesse oggi ricordare queste radici dovrebbe rileggersi i migliori libri mai usciti sulle ragioni sociali del terrorismo islamico, e sulla lotta interna all’Islam: Jihad. Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, e Fitna. Guerra nel cuore dell'Islam, di Gilles Kepel.

Il modello lanciato da Osama era la combinazione di un ritorno alla purezza religiosa del passato – rappresentato dall’arroccamento in una caverna, luogo mitologico della fuga del leader – e l’uso antagonistico della modernità offerta dalla cultura occidentale: internet come simbolo del tutto.

Per qualche anno è stata una combinazione letale, che ha fatto proseliti ovunque, incluso nel cuore della grandi città del nemico. Che ha diffuso nelle vene del pianeta il rancore e l’odio della guerra religiosa. Poi qualcosa è successo. Qualcosa di cui non sappiamo ancora molto, ma di cui abbiamo misurato gli effetti. Quella massa di popolazione giovane, insoddisfatta, acculturata, nutrita da un forte sentimento di esclusione, ha cominciato ad esprimere questa matassa di sentimenti e domande in maniera diversa: chiedendo cambi politici e sociali, e non dall’Occidente, ma dai propri governi; usando Internet ma non per diffondere ricette su come fabbricare bombe bensì per convocare manifestazioni pubbliche; domandando libertà e riconoscimento di identità ma non attraverso le armi bensì attraverso la politica. «The awakening», il risveglio, come lo chiama il suo principale cantore, la tv al-Jazeera, non è panarabo, anzi sventola le proprie bandiere nazionali; non è antimperialista, anzi incolpa i propri governanti; e nella modernità non vede l’incarnazione del vizio, ma un passaporto per un mondo più grande.

Curiosamente, il fine di questi movimenti è lo stesso di Osama, cioè abbattere i vari governi, ma dentro non vi agisce alcuna chimera imperiale e nemmeno religiosa. Il rapporto fra l’uccisione di Bin Laden e questa nuova realtà è proprio in questa somiglianza/differenza. Sarebbe mai stato raggiunto e ucciso il capo di al Qaeda se il mondo arabo non fosse cambiato? Se non fosse saltata intorno a lui la cintura difensiva di masse fanatiche e radicalizzate? La morte di Bin Laden è la prova provata che la sua ricetta di sangue ed odio per i giovani arabi non ha funzionato. E con questo fallimento una fase è finita. In altri tempi e in altri luoghi, nella nostra vecchia Europa, si sarebbe gridato: è morto il re, viva il re.