martedì 17 maggio 2011

Il terremoto di Milano arriva al governo Saltano i piani di B, dalla giustizia al rimpasto.


Il premier ha convocato i suoi ad Arcore in mattinata e poi a Palazzo Grazioli. Forte preoccupazione per il ballottaggio e per l'alleanza con la Lega. Tra gli appuntamenti cruciali della ripresa dei lavori in aula anche la verifica chiesta da Napolitano dopo l'allargamento dei sottosegretari. Verdini garantisce: "Nessuna conseguenza a livello nazionale"

Denis Verdini al vertice Pdl post elettorale

Il risultato del primo turno, con il terremoto di Milano, ha scosso profondamente la maggioranza aprendo una delicatissima fase negli equilibri del governo. Che adesso si ritrova a dover affrontare passaggi cruciali in aula. Uno su tutti: la verifica richiesta da Giorgio Napolitano dopo la tornata di nomine dei sottosegretari con cui Silvio Berlusconi ha “premiato” i responsabili. E proprio stamani la Conferenza dei capigruppo del Senato ha rinviato alla prossima riunione la scelta della data in cui tenere il dibattito in aula. Napolitano ha chiesto che il Parlamento sia informato dal presidente del Consiglio sull’ampliamento del governo dopo la recente nomina di nove sottosegretari considerando che l’attuale maggioranza è diversa rispetto a quella formatasi dopo le elezioni.

Ed è possibile che tutto venga rinviato a dopo il ballottaggio. Così come potrebbe essere rimandato il Consiglio dei ministri, previsto in settimana, per ampliare ulteriormente la compagine governativa. Battuta d’arresto anche per il pacchetto giustizia, tanto caro al premier. E c’è anche il nodo referendum, con la moratoria sul nucleare. L’esecutivo è bloccato. Senza una via d’uscita sicura. Si cerca la strategia. Intanto si mostra sicurezza. E così Denis Verdini appare in conferenza stampa per dire che “a parte Milano c’è stato un sostanziale pareggio”. Ma mostra nervosismo quando i giornalisti gli chiedono se pensa di dimettersi da coordinatore nazionale del partito. “Non ci penso nemmeno, non sono abituato a dimettermi”. Neanche in caso di sconfitta della Moratti, dice, “non ci sarà nessuna conseguenza sulla leadership del partito”. Ignazio La Russa riconosce che a Milano “c’è un problema”, il ballottaggio, dice “è una partita tutta nuova per noi”. E poi ringrazia il premier per “la sua generosità da capolista”. Frase che suona come l’annuncio di una minor partecipazione di Berlusconi alla campagna elettorale. Ma la strategia non è ancora stata definita.

Per tentare di individuarla il Cavaliere stamani ha riunito i suoi ad Arcore e ha incontrato Letizia Moratti, poi è volato a Roma e ha convocato un nuovo vertice per le 19 a Palazzo Grazioli con l’intero stato maggiore del partito. Oltre alla delusione di aver raccolto appena la metà delle 53mila preferenze avute nel 2006, la rabbia nei confronti della Lega che, secondo il premier, è colpevole di non aver partecipato attivamente alla campagna elettorale milanese, e la critica a Letizia Moratti di non essere stata capace a farsi apprezzare dai cittadini. Queste, secondo il premier, le principali cause del fallimento elettorale a Milano.

Il Cavaliere ha però deciso di non mostrarsi, deve comprendere a pieno le conseguenze del voto sui rapporti con la Lega. Ieri sera c’è una stata breve telefonata tra Berlusconi e Bossi. Oggi il carroccio è riunito in via Bellerio dalle 12.30. Bossi ha raccolto i suoi per discutere dell’esito delle comunali a Milano e delle strategie da attuare in vista dei ballottaggi. Presenti Roberto Maroni(rientrato appositamente da Roma), il capogruppo leghista alla Camera, Marco Reguzzoni, il segretario della Lega lombarda, Giancarlo Giorgetti, il figlio del senatur, Renzo Bossi, e il capogruppo in Consiglio comunale a Milano, Matteo Salvini.

Roberto Formigoni, in mattinata, tenta a distendere gli animi annunciando che “l’alleanza tra Pdl e Lega mi sembra forte e sarà riconfermata ufficialmente da Berlusconi e Bossi nelle prossime ore”, dice intanto il presidente della Regione Lombardia ma da via Bellerio filtrano versioni differenti, che registrano un malumore crescente del Senatur nei confronti della strategia berlusconiana di fare del voto amministrativo un referendum pro o contro la persona del premier. Dubbi chiaramente espressi dal leader del Carroccio già prima del voto. Che oltre a inviare segnali chiari di malumore per le dichiarazioni del Cavaliere sulla magistratura, con continui allineamenti ai moniti del Colle, anche con dichiarazioni dirette. Come sull’attacco di Moratti a Giuliano Pisapia, Bossi disse “io non l’avrei fatto”. E in via Bellerio il risultato delle urne è stata una doccia fredda. Perché il Carroccio si aspettava di rubare voti moderati al Pdl e attestarsi al 15% sfiorato alle regionali di un anno fa. Niente da fare. La Lega paga i malumori della base, che da mesi invita il Senatur a lasciare Berlusconi da solo, a staccare la spina. Così oggi, al termine del vertice,Roberto Calderoli ha confermato che l’impegno rimane valido per il ballottaggio, poi si vedrà.

”La Lega, tutta la Lega, è impegnata per vincere i ballottaggi di fine mese e ce la metteremo tutta per vincerli”, ha garantito Calderoli. “La Lega è riunita in queste ore proprio per trovare la strada per vincere i ballottaggi, e Bossi per primo sta pensando a come vincere. E quando ci mettiamo ce la facciamo”.

Ieri, a urne chiuse, con il risultato pessimo registrato persino a Varese, dove il sindaco Attilio Fontana è costretto al ballottaggio, lo dice anche Giancarlo Gentilini, il vicesindaco battagliero di Treviso. “Umberto Bossi deve prendere coscienza che i tempi stanno cambiando. Ci sono molti leghisti, che trovo ovunque io vada a parlare – ha spiegato Gentilini – che mi dicono ‘io non voto più Lega’. Non do i voti agli altri ma non voterò più Legà, e questa è la più grande amarezza che un sindaco che ha portato la Lega in palma di mano dal 1994 può patire”. Per Gentilini, in sintesi, la colpa di Bossi è quella di aver abbandonato un percorso di pragmatismo per aderire a progetti politici irrealizzabili. “La gente non vuole voli pindarici, non è interessata ad opere come il Ponte sullo Stretto di Messina – ha proseguito – perché è una cosa che non sta né in cielo né in terra. Quindi anche tu, Bossi – ha concluso Gentilini – quando appoggi questi programmi da fantascienza, ricordati piuttosto di restare con i piedi per terra, perché gli alpini mettono un piede dopo l’altro”.




Appalti lombardi e ‘ndrangheta, la Pedemontana nel mirino delle cosche. - di Fabio Abati.


La fotografia delle ingerenze dei clan nell'opera pubblica sono contenute nell'inchiesta Tenacia del Ros di Milano. Al centro i subappalti del movimento terra finiti, in parte, a un'azienda definita "contigua alle cosche"

Che l’autostrada Pedemontana, un appalto da oltre 5 miliardi di euro per un lungo serpentone d’asfalto che correrà a nord della Lombardia, facesse gola alle cosche c’era da aspettarselo. Ma oggi si scopre che pochi mesi prima che i cantieri decollassero, la ‘ndrangheta si stava già spartendo i lavori di movimento terra in tutta la regione.

Nel febbraio del 2010 a Cassano Magnago, in provincia di Varese, viene inaugurato il primo lotto di lavori della mega autostrada: la tratta A. Qualche mese dopo tra Mozzate e Lomazzo, nel comasco, inizia il movimento terra per la realizzazione di una grande area di cantiere (120 mila metri quadri), che permetterà ai macchinari e agli operai di avere il proprio campo base. I 150 mila metri cubi di ghiaia e sabbia trasportati e sistemati in quel luogo sono stati di competenza, tra le altre ditte, della Stilitano Scavi di Cislago, in provincia di Varese. Quest’azienda non è indagata, anche se, stando alle carte delle operazioni “Tenacia” e “Caposaldo”condotte dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano, ha intrattenuto rapporti con diversi personaggi oggi in carcere, accusati di associazione mafiosa e a loro volta imprenditori del ramo delle costruzioni. Può essere che alla Stilitano non fossero a conoscenza della caratura criminale dei loro interlocutori. Il collaboratore di giustizia Marcello De Luca, interrogato dai carabinieri del Ros, definisce i titolari dell’azienda di Cislago “contigui a pregiudicati calabresi, operanti nelle province di Varese e Como, ma in stretto collegamento con il paese d’origine”.

Questa è una storia che evidenzia quanto sia pervasiva la “mafia imprenditrice” in Lombardia. Anche se Pedemonata ha investito parecchio nel prevenire l’infiltrazione delle cosche è difficile tenere tutta la galassia di padroncini e piccole aziende di edilizia e costruzioni, sotto controllo. Quel che continua a fare gola sono i lavori di movimento terra. Si tratta di sub appalti spesso assegnati a chiamata diretta e dei quali l’azienda concessionaria rischia addirittura di sapere ben poco. Piccoli lavori, comunque molto remunerativi. Un sistema spiegato in una frase di Vincenzo Mandalari, quello che prima di essere arrestato nel gennaio scorso dopo alcuni mesi di latitanza era il capobastone a Bollate e titolare di un’azienda di costruzioni. “Ti faccio l’esempio del ponte tra Reggio e Messina – dice – io non miro al ponte, magari se mi danno la pulizia del ponte mi interessa… Noi oggi si punta a queste cose! Non si punta al condominio di 500 piani!”

Rocco Stilitano (amche lui non indagato), figlio di Antonino titolare dell’impresa omonima, nell’inchiesta “Caposaldo”, è stato intercettato mentre parla di spartizione di lavori con Giuseppe Romeo, uomo legato alla cosca Morabito, titolare di un’azienda di movimento terra ad Agrate Brianza. “La collaborazione giusto, è normale…”, esordisce Romeo, e Stilitano: “Bravo, bravo… Un po’ di camion li mettiamo noi, un po’ li mette lui, un po’ voi…” E di nuovo Romeo: “Si deve collaborare per prendere col prezzo giusto… Altrimenti poi alla fine…“

Secondo gli inquirenti gli ordini sulla divisione dei lavori al nord arrivano da lontano. Nel novembre del 2008 nel carcere di Vibo Valentia viene intercettato e video filmato un colloquio. Dietro le sbarre c’è Pasquale Oppedisano nipote di Domenico, il “capo crimine” di ‘ndrangheta di Rosarno. Dall’altra parte c’è il fratello Michele. Sempre secondo i carabinieri del Ros, che hanno imbastito la “Tenacia”, quel colloquio era per informarsi “relativamente agli affari correnti in Lombardia” e sulla spartizione dei lavori. La chiacchierata si chiude con un gesto eloquente: “Ossia quello di chiudere il dito pollice sul dito indice ed imitando così una pistola”. Chi non stava ai giochi, quindi, rischiava grosso.

Nel frattempo un altro fratello di Pasquale, Pietro Oppedisano, si trova a Milano. Per i carabinieri “la principale motivazione che ha portato il predetto in Lombardia è legata agli interessi connessi alla distribuzione degli appalti relativi ai lavori dell’autostrada Pedemontana”. E così si arriva a una “mangiata”. Tre mesi dopo quel colloquio in carcere, due dei fratelli Oppedisano si incontrano, in un ristorante del centro di Milano, con Salvatore Strangio, la testa di ponte della ‘ndrangheta nella Perego, grande azienda brianzola di costruzioni. In quell’occasione si stabilisce come muoversi, in modo che ciascuno abbia del suo, anticipando eventuali mugugni e contrasti.

Salvatore Strangio, arrestato la scorsa estate, è, sempre secondo i Ros, in stretti “rapporti col vertice delle cosche di San Luca in Calabria”. Per “testimoniare la notorietà di Strangio nel suo ambiente” gli inquirenti riportano proprio una telefonata con Rocco Stilitano. Parte Strangio: “Vi volevo vedere per un lavoro che insomma…” Quell’altro risponde: “Ma so che lo avete preso voi”. Di nuovo Strangio: “No è stata fatta un’offerta, non è stato preso ancora… È stata fatta solo un’offerta. Niente, ci dobbiamo vedere un po’… va bene?” La risposta: “Volete venire all’ufficio da noi senza che telefonate… Noi siamo a disposizione!” Questo il tenore di certe telefonate, nella Lombardia che vede la spartizione dei lavori e dove la mafia non esiste.



Pressioni mafiose sul comune di Sgarbi Indagato l'ex deputato dc Giammarinaro.


I pm:«Legame politico e patrimoniale con Cuffaro e Romano». Maxisequestro da 35 milioni. Fu accusato anche da Oliviero Toscani, già assessore a Salemi.

Giuseppe Giammarinaro, a sinistra, Vittorio Sgarbi sulla destra

Giuseppe Giammarinaro, a sinistra, Vittorio Sgarbi sulla destra

TRAPANI - Avrebbe appoggiato la candidatura di Vittorio Sgarbi a sindaco di Salemi e successivamente tentato di condizionare la vita amministrativa del comune trapanese arrivando a partecipare, senza alcun titolo, alle riunioni della neonata giunta. L'ex deputato regionale democristiano Giuseppe Giammarinaro, per anni sottoposto alla sorveglianza speciale dopo un’indagine per mafia, avrebbe cercato di influenzare consiglieri e assessori, indirizzare direttive su capitoli di spesa e imporre nomine di funzionari. Il ruolo del politico nella gestione del Comune viene fuori nell’ambito dell’indagine della polizia e della finanza di Trapani che oggi ha portato al sequestro di beni per 35 milioni di euro riconducibili all’ex parlamentare siciliano.

ACCUSATO DA OLIVIERO TOSCANI - Nell’inchiesta sono confluite anche le dichiarazioni rese dal noto fotografo Oliviero Toscani, ex assessore della giunta di Salemi, alla Dda di Palermo che indagava sulle minacce anonime subite da Sgarbi. I magistrati parlano di «cogente condizionamento mafioso su una parte dell’attività amministrativa del comune salemitano» da parte di Giammarinaro. In particolare è emerso che l’ex deputato dava indicazioni per condizionare l’assegnazione di un terreno di sessanta ettari, confiscato al narcotrafficante Salvatore Miceli, a un suo amico piuttosto che all’associazione antimafia Libera.

SORVEGLIATO SPECIALE - La Polizia e la Guardia di Finanza di Trapani hanno sequestrato a Giammarinaro società, beni immobili, sedi di aziende, filiali, magazzini, appartamenti, veicoli, natanti, quote sociali, conti correnti e rapporti bancari, nell’ambito di un’operazione nel settore della sanità denominata «Salus iniqua». Con l'ex deputato Ars sono indaganti per riciclaggio e intestazione fittizia di beni altre sei persone. Il provvedimento di sequestro anticipato, eseguito dalla Divisione Anticrimine della Questura di Trapani e da finanzieri del Nucleo di Polizia Tributaria, è stato emesso dal tribunale sezione misure di prevenzione su proposta del questore. L’ex parlamentare regionale, in passato indiziato di mafia, già sottoposto alla misura della sorveglianza speciale, è stato tra il 1985 e il 1990 presidente dell’Asl di Mazara del Vallo. La sua carriera politica, culminata nell’elezione all’Ars, si interruppe quando si diede alla latitanza per sfuggire a due misure cautelari per mafia e associazione a delinquere per reati contro la pubblica amministrazione, emessi di gip di Marsala e Palermo. Costituitosi nel 1996, fu condannato per peculato e concussione e assolto dall’associazione mafiosa.

CONTROLLAVA SETTORI DELLA SANITA' - Nonostante fosse sottoposto alla misura di sorveglianza speciale, nel 2001 fu esponente provinciale di spicco del partito del «Biancofiore». Successivamente passò all’Udc sfiorando l’elezione, nel 2001, col simbolo scudocrociato. Dalle indagini è emerso che grazie a coperture istituzionali e nonostante la sottoposizione alla sorveglianza speciale Giammarinaro controllava attività economiche nel settore della Sanità ottenendo finanziamenti pubblici regionali. Attraverso la complicità con imprenditori, medici, operatori sanitari e dirigenti della Asl di Trapani l’ex deputato riusciva a gestire strutture di assistenza convenzionate con la azienda sanitaria, collegate tra loro da una rete di prestanomi, allo scopo di infiltrarsi nella sanità locale e nella pubblica amministrazione regionale, assicurarsi rimborsi e determinare le nomine di manager e dirigenti sanitari nei vari ospedali. Secondo gli inquirenti, inoltre, Giammarinaro, grazie alla complicità di dirigenti della sanità pubblica che stipulavano convenzioni per il rimborso di spese sanitarie per l’assistenza a pazienti ricoverati in strutture cliniche controllate dall’ex deputato, avrebbe intascato decine di milioni di euro.

«I PM: LEGAME POLITICO E PATRIMONIALE CON ROMANO E CUFFARO» - Giammarinaro, inoltre, avrebbe fatto pressioni sul medico trapanese Pio Lo Giudice affinchè si candidasse al parlamento regionale siciliano garantendogli il suo appoggio elettorale. Dopo l’elezione, però, avrebbe tentato di condizionare le scelte politiche del professionista, salito sugli scranni dell’Ars nella lista dell’Udc e recentemente passato all’Api di Rutelli, finendo poi per chiedergli somme di denaro - in tutto 200mila euro - e benefici economici. Vere proprie vessazioni quelle che avrebbe attuato l’ex deputato dc Giuseppe Giammarinaro a cui oggi sono stati sequestrati beni per 35 milioni nell’ambito di un’indagine su illeciti nella sanità trapanese. Secondo gli inquirenti Giammarinaro avrebbe sottoposto Lo Giudice a pressioni psicologiche continue arrivando a sostenere che sarebbe durato in carica solo se si fosse allineato alle sue direttive. Ma i 200 mila euro intascati dal medico non sono le sole somme illecitamente percepite dall’ex deputato che, secondo gli investigatori, avrebbe avuto dall’ex segretario regionale dell’Udc Saverio Romano, ora ministro dell’Agricoltura ed esponente dei Responsabili, 40mila euro originariamente chiesti da Lo Giudice a titolo di rimborso per le spese elettorali. Sarebbe stato Romano, ad informare il medico che i 40mila euro erano già stati consegnati a Giammarinaro. Il politico avrebbe anche spiegato a Lo Giudice che la consegna della somma all’ex parlamentare non era nota a nessun altro. Dall’inchiesta è emersa l’influenza esercitata da Giammarinaro sulla sanità trapanese, influenza, scrivono gli investigatori, «correlata al legame politico e patrimoniale intrattenuto con l’allora presidente della giunta regionale Cuffaro e con l’ex esponente Udc Romano».

FALSI CERTIFICATI PER SFUGGIRE ALLA SORVEGLIANZA SPECIALE - Utilizzando falsi certificati redatti da medici compiacenti, poi, l'ex deputato avrebbe evitato i vincoli della sorveglianza speciale ottenendo il permesso di allontanarsi dal comune di Salemi e tenere incontri riservati con esponenti politici locali e imprenditori. Capillare il controllo esercitato dall’indagato sulla sanità locale: oltre a gestire occultamente residenze socio assistenziali a Mazara del Vallo e Salemi e un centro di emodialisi di cui era socio con un imprenditore mazarese ucciso, Giammarinaro aveva interessi, attraverso prestanomi e familiari, in diverse strutture sanitarie. Gli investigatori hanno passato al setaccio decine di società tra le quali la C.E.M., la Salus srl, la Life srl e Villa Letizia Soc. Coop. dimostrando che l’ex deputato ne aveva disposto l’intestazione fittizia a prestanomi mantenendone il controllo tanto da disporre variazioni di bilancio, nomine, assunzioni, sollecitare false fatturazioni per ricavare somme di denaro e realizzare un fondo in nero di circa 1.000.000.000 di vecchie lire.

http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/palermo/notizie/cronaca/2011/17-maggio-2011/pressioni-mafiose-comune-sgarbiindagato-ex-deputato-dc-giammarinaro-190666485500.shtml


Fede affranto: oltre 4 minuti per dare la notizia di Milano



L'edizione delle 18.55 del Tg4: il direttore impiega più di 240 secondi per leggere i risultati delle proiezioni che segnano il flop del centrodestra a Milano.





Nicola Cosentino, indagato per Camorra, nella Commissione Ecomafie?



, “ancora” sottosegretario all’Economia e coordinatore regionale del PDL per la Campania, è indagato per associazione camorristica e dalla Corte di Cassazione è stato giudicato “socialmente pericoloso”. E potrebbe mettere le mani sulla .

Uno dei suoi, , , potrebbe essere nominato vicepresidente dell’organo parlamentare di inchiesta sulle ecomafie. Coronella era insieme con Cosentino nei fascicoli di indagini su Consorzio Ce4, la più grande inchiesta sulle infiltrazioni dei Casalesi nella gestione dei rifiuti.

Ma ulteriore beffa è data dal fatto che, “attualmente”, Nicola Cosentino gestisce a Napoli per il PDL, l’iniziativa “liste pulite”.

Redazione YouFOCUS.TV

http://www.youfocus.tv/nicola-cosentino-indagato-per-camorra-nella-commissione-ecomafie



L'accusa, poi l'assoluzione Ecco cosa c'è in quelle carte.


L'iter processuale per Pisapia è iniziato nel 1980. Chiuso 8 anni dopo.

MILANO - In 25 secondi, studiatamente gli ultimi del faccia a faccia con Giuliano Pisapia su Sky, le parole di Letizia Moratti risultano contraddette due volte dalle sentenze: da quella d'Appello che il sindaco tace, e da quella stessa di primo grado che cita.
Moratti richiama un verdetto d'Assise del 1984 per affermare che solo un'amnistia aveva salvato il rivale da una condanna per furto, ma tace che Pisapia in Appello era poi stato assolto nel merito nel 1986 «per non aver commesso il fatto». E anche solo restando alla sentenza di primo grado del 1984, fa credere che alla base dell'applicazione dell'amnistia vi fosse da parte dei giudici un'affermazione di responsabilità di Pisapia per il furto del 1978, mentre invece nella motivazione la Corte d'Assise esplicitamente scriveva che, se non fosse intervenuta l'amnistia, avrebbe comunque «assolto per insufficienza di prove» Pisapia.

Tre pentiti e un furto: chi decise?
«Anche Pisapia». «No, non c'era».

La storia vera comincia la sera del 19 settembre 1978, quando a Milano i terroristi di «Prima Linea» Massimiliano Barbieri, Roberto Sandalo e Marco Donat Cattin rubano un furgone Fiat, e Barbieri viene arrestato. Due anni e mezzo dopo, Sandalo, "pentito" come anche gli altri due, spiega il furto come finalizzato a un progetto (poi mai attuato) di sequestro di William Sisti, capo del servizio d'ordine del «Movimento lavoratori per il socialismo» che aveva avuto violenti scontri con l'«Autonomia operaia» cittadina, e al quale il «Collettivo» studentesco della libreria di via Decembrio, nel quale all'epoca militavano attivamente Massimiliano Trolli (ex di Lotta Continua) e suo cugino Giuliano Pisapia, addebitava pestaggi di "compagni", come un disegnatore di murales ridotto in fin di vita. Barbieri, che secondo Sandalo e Donat Cattin voleva colpire Sisti «come carta di credito per entrare in Prima Linea», nell'estate 1978 li porta dunque in una casa di benestanti nel centro di Milano, dove vivevano Trolli e «il cugino», cioè Pisapia. Tutti e tre i pentiti collocano nella casa alcune riunioni di luglio 1978 nelle quali «venne avanzata la proposta di compiere un'azione punitiva contro Sisti» da sequestrare, picchiare e liberare con la colla nei capelli. Ma i tre pentiti divergono sul ruolo di Pisapia: per Sandalo era presente; lo stesso dice Barbieri, che però per la riunione operativa indica una data in cui Pisapia era a Santa Margherita Ligure bloccato da un'ulcera, attestata sul ricettario milanese del medico Carlo Agnoletto (zio di Pisapia); invece Donat Cattin esclude Pisapia fosse alla riunione.

Cade la banda armata. Per il furto
a giudizio per «concorso morale»

E' notorio che per questa vicenda Pisapia nel 1980 fu arrestato con due accuse: partecipazione alla banda armata «Prima Linea», e concorso morale (luglio 1878) nel furto del furgone poi commesso (settembre 1978) da Sandalo-Barbieri-Donat Cattin. Resta 4 mesi in carcere, ma per la banda armata neppure viene processato, direttamente prosciolto su richiesta del pm Armando Spataro. E' invece rinviato a giudizio in Corte d'Assise per il concorso morale nel furto del furgone, anche qui noto negli archivi (es. Ansa dell'11 giugno 1982).

Primo grado: l'amnistia prevale
sull'assoluzione dubitativa

Finisce con una amnistia. Nella motivazione di primo grado la Corte d'Assise tende a escludere «sovrapposizione di ricordi» nella versione di Sandalo, ritiene «poco verosimile che Barbieri abbia clamorosamente errato», appare dubbiosa rispetto a Donat Cattin che dice che Pisapia non c'era, e svaluta il certificato medico. Tuttavia la Corte prende atto che anche Sandalo e Barbieri «non hanno esplicitamente parlato di uno specifico apporto di Trolli e Pisapia all'episodio del furto». E conclude che, «nell'irrisolto contrasto» tra le dichiarazioni di Donat Cattin e quelle «non meno rilevanti deponenti in contrario di Barbieri e Sandalo, nei confronti di Pisapia potrebbe essere emessa solamente una pronuncia di assoluzione per insufficienza di prove». Poiché però nel 1978 era intervenuta una amnistia, «per giurisprudenza consolidata l'amnistia prevale» tranne nel caso di assoluzione piena: quindi il dispositivo della terza Corte d'Assise il 22 ottobre 1984 ritiene «amnistiato il reato ascritto» a Pisapia e dichiara «il non doversi procedere».

Secondo grado: «Neanche indizi»
Assolto, non ha commesso il fatto

Pisapia rinuncia all'amnistia e fa ricorso alla Corte d'Assise d'Appello, che lo assolve nel merito. I giudici scrivono che dalla «coabitazione di Pisapia con il cugino Trolli» e dall'«adesione di Pisapia all'ideologia di sinistra» possono «sorgere al più soggettivi sospetti» ma non certo «la prova di un coinvolgimento che connoti estremi di rilevanza penale». In più, i giudici di secondo grado, diversamente da quelli di primo, ritengono la presenza di Pisapia alla riunione di fine luglio 1978 «del tutto smentita» dal certificato medico che lo indicava fermo a Santa Margherita Ligure, per la stessa ulcera per la quale ulteriore «documentazione sanitaria» lo mostrava «ricoverato in ospedale a Santa Margherita dal 12 al 18 giugno e dal 24 giugno al 3 luglio». La conclusione della terza Corte d'Assise d'Appello l'8 marzo 1986 è dunque che «non vi è prova, nè vi sono apprezzabili indizi, di una partecipazione di Pisapia al furto, sia pure sotto il profilo di un concorso morale: va pertanto assolto per non aver commesso il fatto».

Giudice errato, Cassazione annulla
E l'Appello-bis riassolve nel merito

Finita? Non ancora. Neppure l'accusa impugna l'assoluzione di Pisapia, ma il 3 marzo 1987 la Cassazione rileva un errore nella formazione del collegio d'Appello, annulla la sentenza per tutti gli imputati e quindi fa ricelebrare il processo di secondo grado. E' solo un formalità: infatti sia la Procura generale sia le difese chiedono ai giudici del processo-bis d'Appello di confermare le statuizioni riguardanti ciascun imputato, e la nuova Corte lo fa per tutti gli imputati (compreso Pisapia) nelle ordinanze del 3 dicembre 1987, 25 febbraio, 28 marzo e 14 aprile 1988. A chiudere lo svuotato Appello-bis resta il «non doversi procedere non potendo essere proseguita l'azione penale» già definita dalle ordinanze sui vari imputati; e cioè, nel caso di Pisapia, dall'assoluzione passata in giudicato per non aver commesso il fatto. Un dato definitivo che relega in secondo piano la scelta del sindaco di connotare negativamente l'amnistia attribuita (erroneamente) al rivale nonostante di un'amnistia vera abbia usufruito, per fatti parimenti datati, il capolista della sua lista Pdl, Silvio Berlusconi, per il quale 21 anni fa la Corte d'Appello di Venezia dichiarò nel 1990 l'amnistia della «falsa testimonianza» imputatagli per aver negato l'iscrizione alla loggia P2 di Licio Gelli.

Luigi Ferrarella

http://www.corriere.it/politica/speciali/2011/elezioni-amministrative/notizie/pisapia-carte-luigi-ferrarella_1b0a07ca-7c5a-11e0-85d3-733f3ac8a121.shtml





Moratti rilancia le accuse a Pisapia. Ma tra i due candidati a Milano è lei la condannata. - di di Thomas Mackinson



Nel 2010 la Corte dei Conti l'ha costretta, in Appello, a pagare 125mila euro per la vicenda degli incarichi d'oro. Sempre l'anno scorso è arrivata la sentenza della Corte dei Conti del Lazio per un contratto inutile siglato quando era ministro dell'Istruzione

Non si è scusata dopo le accuse di ieri all’avversario Giuliano Pisapia. Anzi, ha rilanciato gli attacchi al rivale: “La mia intenzione era ed è sottolineare che non può essere considerata come moderata la storia di una persona che in quegli anni era vicina ad ambienti terroristici”. Letizia Moratti non demorde nonostante il colpo basso nel faccia a faccia di ieri su Sky si sia dimostrato un passo falso: il sindaco ha citato una condanna amnistiata a Pisapia per aver concorso morale nel furto, negli anni ’70, di un furgone utile agli uomini di Prima Linea per compiere una spedizione punitiva, omettendo l’Appello che ha assolto pienamente il candidato di centrosinistra. Così donna Letizia ha finito per incassare una denuncia per diffamazione e perfino la disapprovazione dell’alleato numero uno Umberto Bossi (“Io non l’avrei fatto”). In realtà, l’unico dei tre principali candidati sindaco di Milano con delle condanne alle spalle è proprio lei, Letizia Moratti. Che ne ha collezionate ben due, entrambe confermate in Appello.

Sì, perché se la fedina di Giuliano Pisapia e di Manfredi Palmeri resta specchiata, è proprio quella della “moderata” Letizia ad avere due vistose macchie. Due condanne collezionate in epoche diverse per aver sprecato soldi pubblici attribuendo consulenze e incarichi ad amici e conoscenti violando le leggi che regolano la materia. Proprio a Milano la Corte dei Conti l’ha condannata due volte insieme ad alcuni membri della giunta di centrodestra per “danno erariale con colpa grave”. La vicenda è quella dei cosiddetti “incarichi d’oro” che risale al 2006. Prese le leve del comando a Palazzo Marino la Moratti fa assumere sei persone come dipendenti (e con gli stipendi dirigenziali) senza verificare le loro competenze né la presenza nell’ente pubblico di analoghe capacità. Uno spoil system che premia i manager esterni e allinea il Comune a un’azienda privata. Il danno dell’operazione, in primo grado, era stato calcolato in 887mila euro, poi ridotto nel processo di Appello che si conclude quattro anni dopo (9 gennaio 2010) con la conferma della condanna e la richiesta di 125mila euro di risarcimento. Una cifra certo simbolica per la moglie del magnate che spende sei milioni di euro e più per la campagna elettorale ma non meno importate sul fronte politico-giudiziario.

C’è poi una seconda inchiesta ha travolto la Moratti nei panni di primo cittadino. Si tratta dell’indagine su 80 contratti di consulenza e presunte azioni di mobbing per i quali il 29 novembre del 2007 erano stati indagati Letizia Moratti e quattro ex dirigenti dell’amministrazione comunale. A indagare sono ancora i magistrati contabili che infliggono una condanna a risarcire l’erario comunale per 261mila euro per il danno che avrebbero provocato all’erario nell’assegnare ben 80 consulenze in modo del tutto arbitrario e violando ancora una volta la normativa in materia. Finisce invece con una archiviazione la parte penale di questa vicenda. L’accusa per la Moratti era di abuso di ufficio. Ma le parole scritte nere su bianco due anni dopo (27 agosto 2010) dal GipMaria Grazia Domanico lasciano zone d’ombra sull’operato del primo cittadino che viene definito ancora una volta “grave e colposo”: «Si deve ritenere che le modalità di rimozione dei dirigenti, per quanto censurabili sotto diversi profili, non abbiano travalicato il limite dell’illecito penale».

Non è la prima volta che Letizia scambia un ente pubblico per un’azienda privata. Quando Letizia era Ministro dell’Istruzione aveva già incassato una condanna e una richiesta di indennizzo. Nel 2001 infatti aveva affidato alla società mondiale leader nei servizi di revisione-fiscalità-advisory uno studio da 180mila euro per l’accorpamento dei ministeri della pubblica amministrazione e ricerca. Un incarico che la Corte dei Conti del Lazio ha ritenuto del tutto inutile visto che uno studio sulla “fusione” era già stato condotto internamente. In pratica, un’altra consulenza esterna non necessaria. Risultato: il 20 aprile 2010 è stata condannata a risarcire l’importo del contratto da 50mila euro.