lunedì 8 agosto 2011

Berlusconi “marionetta”. Draghi? “Pinocchio”. La stampa tedesca contro l’Italia. - di Mauro Meggiolaro


“L’Italia gioca al teatrino della politica sull’orlo del precipizio”, titolava mercoledì scorso la Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz), il più autorevole quotidiano tedesco, riferendosi alle scaramucce tra Berlusconi e Tremonti. Due attori che non avrebbero pensato agli “effetti delle loro performance sugli altri paesi dell’area Euro e soprattutto sui mercati finanziari”, contribuendo ad “alimentare le speculazioni sull’Italia”. Più che attori i politici italiani sarebbero però ormai delle “marionette” manovrate da Francia e Germania. Lo sostiene oggi il quotidiano liberale austriaco Der Standard: “il governo di Silvio Berlusconi non è più capace di agire”, scrive Thesy Kness-Bastaroli in un editoriale sulla crisi. “Venerdì, nel giro di poche ore, il primo ministro italiano e Giulio Tremonti hanno sostenuto esattamente il contrario di quello che avevano predicato nei giorni precedenti”. All’improvviso tutto è cambiato. La crisi, che fino a venerdì pomeriggio era “colpa dei mercati”, verso sera diventa una minaccia che “potrebbe portare al crollo dell’Italia”.

“Non è chiaro se le contromisure proposte dal governo basteranno a salvare il paese”, continua Kness-Bastaroli. “L’unica cosa certa è che ora l’Unione Europea, la BCE e anche la Germania reggono ormai le fila (della politica economica italiana, ndr). Berlusconi è diventato una marionetta nelle mani di decisori stranieri”. Per L’Italia, sempre per Der Standard, si tratta di un “declassamento politico”, perché “in futuro le decisioni sulla crisi italiana saranno prese sempre più spesso a Bruxelles o a Berlino piuttosto che a Roma”.

Sotto attacco finisce oggi anche il governatore della Banca d’Italia e futuro presidente della BCE Mario Draghi. Il quotidiano economico tedesco Handelsblatt gli dedica la rubrica “Pinocchio del giorno”, riservata alle dichiarazioni mendaci di politici ed esponenti del mondo economico. Draghi, solitamente coccolato dal giornale di Francoforte, viene preso di mira per aver detto, il 15 febbraio scorso (in un’intervista alla Faz) che “l’Italia non è un paese a rischio finanziario”. “Il nostro paese non rischia gli effetti disastrosi della crisi economica globale e vi sono diversi motivi alla base di questo ragionamento”, aveva dichiarato Draghi. “L’indebitamento delle famiglie e delle imprese italiane è tra i più bassi del vecchio continente: un fattore che dovrebbe incoraggiare ad essere più ottimisti”.

Oggi l’ottimismo si è esaurito. Di fronte all’attacco dei mercati, l’unica via d’uscita sembra essere la rapida approvazione di misure drastiche per ridurre il debito e rilanciare la crescita economica. “E’ vero che non ci si potevano aspettare da Draghi dichiarazioni negative sull’Italia che avrebbero potuto generare allarme nei mercati”, scrive Handelsblatt, nella sua rubrica. “Ma il governatore della Banca d’Italia avrebbe fatto bene a tacere. Perché sono i mercati che decidono se un paese è o meno a rischio, non i governatori delle banche centrali”.

Ai commenti dei giornali iniziano ad aggiungersi oggi anche le dichiarazioni dei politici tedeschi. Il primo ad uscire allo scoperto è Rainer Brüderle, capogruppo dell’FDP (Partito Liberale Tedesco, alleato di governo della Merkel), con un’intervista al quotidiano scandalistico tedesco Bild Zeitung, il giornale più venduto in Europa. “Ora dobbiamo salvare anche l’Italia signor Brüderle?”, gli chiede la Bild. “No. L’Italia non è la Grecia. La struttura economica del paese è chiaramente più stabile e competitiva di quella greca”, risponde Brüderle. “L’Italia ce la può fare con le proprie forze”. Tradotto dal politichese, come si affrettano a fare la Süddeutsche Zeitung e Reuters, questo significa una sola cosa: Brüderle, almeno a parole, è contrario agli aiuti europei all’Italia. E i liberali tedeschi potrebbero decidere di ostacolare il lancio del salvagente finanziario da parte del governo Merkel.



Costi della politica: tutti i tagli che si possono fare subito.


Riduzione dei parlamentari: l'intesa è solo a parole

Vogliono la fiducia dei cittadini in questo momento nero? Se la guadagnino. Il governo, la maggioranza e la stessa opposizione non possono chiedere un centesimo agli italiani senza parallelamente (anzi: prima) tagliare qualcosa di loro. Conosciamo l'obiezione: non sarà un taglio di 1000 euro dallo stipendio reale (l'indennità è solo una parte) di deputati e senatori a risolvere il problema. Perfino se tutti fossero condannati a lavorare gratis risolveremmo un settemillesimo della manovra. Vero. Ma stavolta non hanno scelta: è in gioco la loro credibilità.
Per partire devono aver chiaro un punto: il perfetto è nemico del bene. In attesa di una ridefinizione generale dello Stato (campa cavallo) certe cose si possono fare subito. Alcune simboliche, altre di sostanza.


Sono stati presentati nove progetti di legge, dall'inizio della legislatura, per ridurre o addirittura dimezzare il numero dei parlamentari. Da destra, da sinistra... Dove sono finiti? Boh... Sono tutti d'accordo, a parole? Lo facciano, quel taglio. Senza allegarci niente. Sennò finisce come sempre finisce: la sinistra ci aggancia una cosa inaccettabile dalla destra, la destra ci aggancia una cosa inaccettabile dalla sinistra. E tutto resta come prima. Esattamente il giochino della riforma bocciata al referendum del 2006, che vedeva sì una modesta riduzione da 630 a 518 deputati, da 315 a 252 senatori (non il dimezzamento sbandierato: quella è una frottola) ma anche uno svuotamento dei poteri del Quirinale e un aumento dei poteri del premier. Dettagli che garantivano la bocciatura: la sinistra non l'avrebbe votato mai. Vogliono ridurre davvero? Trovino un accordo e lo votino tutti insieme: non servirà neanche il referendum confermativo. Sennò i cittadini sono autorizzati a pensare che sia solo propaganda. Come propaganda appare per ora la mega-maxi-super-riforma votata dal Consiglio dei ministri il 22 luglio. Se era così urgente perché non risulta ancora depositata e non se ne trova traccia neanche nel sito di Palazzo Chigi? Era sufficiente l'annuncio stampa? Forse erano più urgenti le vacanze.


Non si possono abolire subito le province senza ripartire parallelamente le competenze e i dipendenti? Comincino a toglierle dal tabù della Costituzione e a sopprimere quelle che hanno come capoluogo la capitale regionale destinata a diventare area metropolitana o non arrivano a un numero minimo di abitanti.


Vogliono inserire il pareggio di bilancio nella Costituzione? Inizino col riconoscere, concretamente, che la cosa oggi più lontana dal pareggio sono le pensioni dei parlamentari: alla Regione Lazio i contributi versati sono un decimo di quanto esce per i vitalizi. Alla Camera e al Senato un undicesimo. Al netto dei reciproci versamenti addirittura un tredicesimo. Immaginiamo la rivolta: non si toccano i diritti acquisiti! Sarà, ma quelli dei cittadini sono già stati toccati più volte.
Deve partire una stagione di liberalizzazione? Partano introducendo una regoletta esistente nei Paesi più seri: un deputato pagato per fare il deputato può far solo il deputato. Un caso come quello di Antonio Gaglione, il parlamentare pugliese espulso dal Pd per avere bucato il 93% delle sedute e così assenteista («preferisco fare il medico»), da bigiare addirittura il passaggio chiave del 14 dicembre scorso che vide Berlusconi salvarsi per pochissimi voti dalla mozione di sfiducia, in America è impensabile. E così quelli dei tanti avvocati (uno su sette alla Camera, uno su sette al Senato) e professionisti di ogni genere che pretendono di fare l'una e l'altra cosa. Dice uno studio de «lavoce.info» che un professionista che continua a fare il suo lavoro anche dopo l'elezione «bigia» in media il 37% in più degli altri parlamentari. Basta.


Negano di intascare i soldi destinati ai collaboratori non messi in regola e pagati in nero? La riforma è già pronta e depositata: il deputato o il senatore fornisce al Parlamento il nome del collaboratore di fiducia e questi viene pagato direttamente dal Parlamento. Ed ecco che l'«equivoco infamante» su certe furbizie sarebbe all'istante risolto.


Il vero cambiamento, però, quella rivoluzionario, sarebbe la decisione di spalancare finalmente le porte alla legittima curiosità dei cittadini. Massima trasparenza: quella sarebbe la svolta epocale. Se un americano vuole vedere se «quel» deputato che si batte per la ricerca farmaceutica ha avuto finanziamenti, commesse, incarichi professionali da un'azienda di prodotti farmaceutici va su Internet e trova tutto. Se un tedesco vuol sapere se «quel» deputato ha guadagnato dei soldi fuori dal Parlamento e in che modo, va su Internet e trova tutto. Se un inglese vuole conoscere i nomi di chi quel giorno ha viaggiato su quel volo blu dal 1997 ad oggi o quanto spendono a Buckingham Palace per le bottiglie di vino va su Internet e trova tutto.


Da noi per avere le sole dichiarazioni dei redditi dei parlamentari un cittadino di Vipiteno o di Capo Passero deve andare a Roma, presentarsi in un certo ufficio della Camera o del Senato, dimostrare di essere iscritto alle liste elettorali e poi accontentarsi di sfogliare un volume senza manco la possibilità di fare fotocopie. Per non dire del Quirinale dove ogni presidente, per quanto galantuomo sia, pur di non smentire la cautela del predecessore, mantiene riservato il bilancio del Colle limitandosi a dare delle linee generali. Che magari sono sempre meno oscure ma certo sono lontanissime dalla trasparenza britannica.

Cosa risparmieremmo? Moltissimo. Un solo esempio: sapere che il passaggio dato su un volo di Stato a una ballerina di flamenco finirebbe all'istante sui giornali, spingerebbe automaticamente a ridurre se non a eliminare del tutto certi «piacerini». Lo stesso vale per certi voli elettorali vietati, come ricorda una dura polemica sui giornali, anche in Turchia. Il governo, la maggioranza e l'opposizione (per quanto possa incidere) ritengono di avere, sui costi della politica, la coscienza a posto? Pensano di avere tagliato il massimo del massimo e che non si possa tagliare di più? Mettano tutto online. Con un linguaggio non inespugnabile. Ma soprattutto, vale per la destra e per la sinistra, la smettano una volta per tutte di gettare fumo fingendo di fare confusione (confusione voluta, ipocrita, pelosa) tra il qualunquismo, la demagogia e il diritto di sapere dei cittadini. Che sudditi non sono.

Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella



Il vernacoliere,

























Sfido io, il governo è "commissariato"!



Sarkozy pronto a introdurre nuove tasse ma solo a carico dei ricchi. - di Leonardo Martinelli


Un prelievo fiscale compreso tra l'1 e il due per cento ai redditi superiori al milione di euro. E' la manovra allo studio del governo francese che, rispetto all'Italia, già "tartassa" i redditi alti con la patrimoniale.

Se Berlusconi volesse farsi venire qualche idea su come concretizzare la promessa di un pareggio di bilancio entro il 2013, non ha che da sbirciare a quello che sta architettando il vicino di bancoNicolas Sarkozy, suo alter ego (ma solo da certi punti di vista) in terra di Francia. Questa non ha certo gli stessi problemi di un’Italietta qualunque. Parigi resta ancora nel club dei “virtuosi” che possono vantare la tripla A di Standard & Poor’s sul debito pubblico. Sarkozy, però, non vuol finire come il premier italiano. E una delle soluzioni allo studio è quella di imporre una nuova tassa ai ricchi. In un Paese che già applica, senza gridare allo scandalo e in maniera costante dal 1982, la patrimoniale.

L’obiettivo attuale è introdurre una nuova imposta dell’1 o del 2% per le 30mila famiglie con entrate superiori al milione di euro annui. Il progetto è allo studio di un gruppo di esperti, convocati dal ministro dell’Economia François Baroin e da quello del Bilancio Valérie Pécresse. Stanno lavorando assiduamente per arrivare a definire la misura a fine mese. Si dovrebbe prendere come base il “reddito fiscale di riferimento” (Rfr), come dire quello imponibile sommato alle plusvalenze mobiliari e immobiliari e ai redditi percepiti all’estero. Il provvedimento non risolverebbe tutti i problemi di bilancio della Francia (nel caso dell’1% si incasserebbero annualmente 150 milioni di euro, se si optasse per il 2% 300 milioni), ma è un segnale ulteriore che Sarkozy darebbe alla porzione più facoltosa della popolazione (bacino tradizionale dell’Ump, il suo partito): siete voi a dover fare più sacrifici. E dopo che nei mesi scorsi il Presidente ha varato una riforma fiscale che non ha portato, come molti (compresi i milionari finanziatori della campagne di Sarkozy) speravano, a eliminare la patrimoniale.

Questa domenica l’economista di S&P responsabile della Francia, Michel Six, ha smentito chi afferma che la Francia potrebbe essere una delle prossime prede degli speculatori. Ha confermato che Parigi resta nel ristretto clan della tripla A, appena abbandonato dagli Stati Uniti. E che “la prospettiva è stabile”: non esiste l’intenzione di modificare il rating a breve. Nei giorni scorsi, però, la Borsa di Parigi è crollata e lo spread fra i bond francesi a dieci anni (Oat) con i Bund tedeschi ha raggiunto gli 87 punti: ancora lontano dai livelli di quelli italiani e spagnoli, oltre i 400, ma pur sempre da record per Parigi.

Intanto la situazione del budget pubblico preoccupa. La quota del debito sul Pil resta accettabile (85,4% il primo trimestre, ma già 2,2 punti percentuali in più rispetto ai tre mesi precedenti), ma quella del deficit era schizzata al 7,1% l’anno scorso. Ora Parigi vuole ritornare al 5,7% a fine anno, al 4,6% nel 2012 e, finalmente, al 3%, massimo consentito dall’Europa, nel 2013. Il problema è che la crescita economica non segue: venerdi’ prossimo saranno pubblicati i dati sull’evoluzione del Pil (Prodotto interno lordo) nel secondo trimestre, che dovrebbe limitarsi al +0,2%. Se non peggio. Sarkozy sa già che a settembre dovrà procedere a una manovra correttiva, se vuole conservare il favore dei mercati. Per ora le stime, all’interno della sua maggioranza di centro-destra, variano dai tre agli undici miliardi. E a pagare, apparentemente, saranno soprattutto i più ricchi.

Sarkozy crociato anti-milionari è davvero una novità. Subito dopo la sua elezione, nel 2007, introdusse uno scudo fiscale che limitava l’aliquota al 50% per tutti, anche per i più abbienti: un criticato regalino ai propri amichetti, come i miliadari Bernard Arnault e Liliane Bettencourt. Promise anche di eliminare la patrimoniale (a parte in Francia, esiste in Europa solo in Norvegia, nel Lichtenstein e in alcuni cantoni svizzeri). Ma, vista la situazione, ha cambiato opinione strada facendo: mica vuole finire come Berlusconi. Nel maggio ha fatto fuori lo scudo fiscale. Al tempo stesso ha rivisto la patrimoniale (Isf, Impot de solidarité sur la fortune, che si applica su tutti gli asset, immobiliari compresi), elevando il livello minimo di applicazione (da 800mila euro a 1,3 milioni) e riducendo le aliquote. Ma per recuperare quanto perso (anzi, lo Stato francese alla fine dei conti ci guadagna 400 milioni di euro di entrate fiscali all’anno) ha aumentato le tasse su donazioni e successioni e soprattutto quelle sugli immobili posseduti da stranieri in terra francese. A Parigi, uno su quattro proviene dal Belpaese. Insomma, alla fine Sarkozy farà pagare nuove tasse a tutti i ricchi. Pure a quelli italiani.



domenica 7 agosto 2011

Cersasi supereroe. - di Francesco Guerrera.


A Wall Street, lo chiamano «il concorso di bruttezza» – la battaglia tra America ed Europa per stabilire chi stia peggio, tra economie in tracollo, deficit enormi e monete allo sbando. Venerdì sera la competizione è diventata ancora più brutta. Per la prima volta nella storia, gli Stati Uniti hanno perso l’importantissima «tripla A». L’agenzia di credit ratingStandard & Poor’s ha bocciato la politica economica Usa, togliendo al Paese il rating più alto – un imprimatur che, per 70 anni, ha rassicurato investitori e governi del fatto che lo zio Sam paga sempre i suoi debiti. La decisione bomba della S&P è stata subito contestata dall’amministrazione Obama che ha accusato l’agenzia di un errore di calcolo di 2 triliardi di dollari. S&P – una delle tre «big» nel mondo del rating che contribuì alla crisi finanziaria del 2008 - non è certo senza peccato. Ma il tempo delle recriminazioni è ormai passato. La mossa-choc di S&P è arrivata alla fine di settimane campali in cui i due pilastri dell’economia mondiale – l’America e l’Europa – hanno vacillato pericolosamente. Gli Stati Uniti sono partiti per primi, con un accordo sulla riduzione del loro debito enorme che non ha soddisfatto nessuno. Il governo Obama e la Federal Reserve ci hanno messo del loro, facendo poco e nulla per convincere i mercati – ed anche la gente comune – che hanno i mezzi economici e la volontà politica per evitare un «doppio tuffo» nella recessione. L’Unione Europea non è stata da meno, con una dimostrazione di inanità politica ed impotenza finanziaria che ha spaventato gli investitori. I mercati sono creature dalla psiche fragilissima e parole come quelle del presidente dell’UeJosé Manuel Barroso e di Silvio Berlusconi hanno rappresentato l’avverarsi di un incubo. Se non si hanno soluzioni concrete, ammettere, come ha fatto Barroso, che l’ultimo summit di meno di un mese fa non ha risolto niente e dichiarare che la crisi non è più confinata alla periferia di Portogallo, Grecia ed Irlanda ma ha contagiato l’Italia e la Spagna, è giocare col fuoco. E se si è il leader di un Paese nel mirino di investitori pieni di paura e scetticismo, dare la colpa a fattori esterni quando il debito pubblico è al 120 per cento del Pil e la crescita è pressoché zero, non è la maniera migliore per rassicurare i mercati. L’inadeguatezza delle istituzioni politiche ha costretto la banca centrale europea a rimangiarsi le sue parole di austerità, probabilmente proferite in tedesco, per dichiararsi pronta a comprare buoni del Tesoro spagnoli ed europei già da domani.

Per la Bce, che da Novembre verrà guidata da Mario Draghi, si tratta di un’ammissione che la crisi sta attaccando il cuore pulsante dell’Europa, una constatazione che a mali estremi bisogna opporre rimedi costosi e rischiosi. I mercati, ovviamente, hanno reagito. Giovedì il Dow Jones – l’indice guida della borsa di New York e il punto di riferimento per investitori di tutto il mondo – è crollato del 4,3 per cento, il giorno peggiore dal 2009. I mercati europei hanno seguito lo stesso copione. «Questa settimana è stato un bagno di sangue», mi ha detto un investitore ieri sera, esausto dal continuo vendere di azioni, poco prima di farsi scappare una volgarità dopo aver visto la notizia del downgrade della S&P. L’aspetto più preoccupante di questa crisi è che il crollo dei mercati non è stato provocato da una ragione sola. Di solito, la caduta a precipizio delle Borse è causata da un elemento catalizzatore: dati economici deboli, problemi politici, guerre e così via. Questa volta, i mercati sono stati mossi dalla scomparsa della fiducia degli investitori nella capacità dei governi di controllare la crisi. Non si è trattato di un «big bang» – uno scoppio immediato della paura – ma piuttosto di un’erosione lenta ed inesorabile della fede del mondo della finanza nel mondo della politica. Wall Street e la City di Londra hanno votato lasfiducia alla Casa Bianca, Bruxelles e Palazzo Chigi. Il problema ora è che, un volta persa, la fiducia dei mercati è difficile da riconquistare. La differenza fondamentale tra il terremoto finanziario del 2007-2008 e quello attuale è che allora la crisi fu causata da banche e risparmiatori incauti ed avidi, non da politici incapaci e banchieri centrali indecisi. Quando le banche vanno in malora, ci sono sempre i governi a salvarle con i miliardi dei contribuenti – una soluzione inefficiente e dolorosa che pero’ riesce a prendere l’economia per i capelli prima che raggiunga il baratro. Nel 2008, le banche centrali coadiuvarono i governi, pompando miliardi di dollari nell’economia mondiale grazie a tassi bassissimi e programmi di liquidità per investitori e istituzioni finanziarie. Quella dose da cavallo di stimolo riuscì ad evitare un’altra Grande Depressione negli Usa e a proteggere i cittadini europei da una dura recessione. Ma oggi? Se i governi e i banchieri centrali non possono, o non vogliono, far nulla, chi si ergerà a super-eroe dell’economia mondiale? Le condizioni e le circostanze sono veramente infelici. In America, la congiuntura politica – con le elezioni presidenziali nel 2012 e un Congresso diviso tra Repubblicani e Democratici – non è favorevole ad un stimolo economico. Il dibattito pubblico negli Stati Uniti è tutto su come ridurre il deficit, con misure di austerità e tagli di spesa. Una posizione senz’altro lodevole nel lungo termine, vista la situazione fiscale del Paese, ma non certo utile quando l’economia è nei guai seri. I luogotenenti di Obama guardano alla Fed, ma la banca centrale può fare poco e nulla in un frangente economico in cui i tassi d’interesse sono già a zero. Il problema non è che non c’è denaro in circolazione ma che aziende, consumatori e banche non vogliono né spenderlo né investirlo. «E’ un problema di fiducia, non di soldi», mi ha detto uno sconsolato funzionario della Fed questa settimana Per l’Europa, la soluzione è più drammatica.

L’unica strada per uscire dalla crisi senza abbandonare l’euro passa per una maggiore integrazione fiscale tra i Paesi membri. Ovvero: Paesi i cui governi si sono dimostrati non all’altezza di gestire la propria economia dovranno delegare le loro politiche di tassazione e spesa ad un’entità europea. E’ un passo enorme, una cessione di sovranità che lascerebbe l’amaro in bocca a molti, soprattutto perché la Germania emergerebbe come leader della nuova Europa – un risultato problematico per ragioni sia storiche sia culturali. Ma l’alternativa – la decomposizione della zona-euro e la balcanizzazione delle economie nazionali – non è auspicabile. Nel concorso di bruttezza tra le due economie-guida del pianeta, non ci può essere una medaglia d’oro ed una d’argento. Per il bene dell’economia mondiale, l’America e l’Europa sono obbligate a tornare a splendere insieme. Speriamo solo che non ci siano due perdenti.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.

http://ilgiornalieri.blogspot.com/2011/08/cersasi-supereroe.html


Sospesi....






















Nun te scordà de me.





Nun te scordà de me - I primi tepori, verso la fine dell’inverno, fanno rifiorire questa pianticella … L’associazione d’idee fa nascere questi versi dedicati ad una donna che è un fior d’angelo primaverile. Facile è la composizione del sonetto, data dal nome del fiore “nontiscordardimé”, con le divagazioni in esso inserite.






Ho riccorto ’sto fiore cor penziero
de dallo a te, co tutta la speranza
che drento er Paradiso, da stragnero,
t’incontrerò pe quarche circostanza.

Te dico questo, e qui io so’ sincero:
èpperché da ’sta vita d’ignoranza,
che nun me fa venì l’inzogno vero
d’abbraccicatte e vive una romanza,

m’aspetto tanto d’èsse conzolato
si l’anima respira a l’artro monno
quanno che er còrpo lei avrà lassato.

Si accosì fusse, devi da sapé,
te cercherò puranche a lo sprofonno.
Nun te scordà, nun te scordà de me.

Roma, anno 2000

Elio Malloni, detto: Manico d’ombrello