sabato 20 agosto 2011

Metà dei Parlamentari ha il doppio incarico e diserta l'Aula. - di M. Antonietta Calabrò


Più che una norma ben scritta e prima ancora pensata, l'articolo 13 del decreto legge sulla manovra aggiuntiva entrato in vigore il 13 agosto, sembra una grida manzoniana, «una grida fresca» che «son quelle che fanno più paura», come commentava Azzeccagarbugli nel terzo capitolo dei Promessi Sposi . Ma che poi alla fine hanno poco effetto.

Il decreto prevede che, per deputati e senatori che svolgano attività che fruttino loro un reddito pari o superiore al 15 per cento dell'indennità della carica parlamentare, essa venga dimezzata. Alla Camera attualmente corrisponde a 5.486,58 euro netti (cui vanno aggiunti i rimborsi forfettari per le spese telefoniche, di viaggio e per i collaboratori, che costituiscono gran parte dello «stipendio», che arriva a 14 mila euro netti per un qualsiasi peone, ma è molto di più per un presidente di commissione o un segretario d'aula o chiunque abbia un altro incarico interno).

Un «biglietto da visita»
In altre parole un deputato o un senatore che abbia un'attività professionale dovrà rinunciare solo a 2.700 euro netti al mese. A fronte di fatturati di molte decine o centinaia di migliaia, se non di milioni di euro. Sacrificando meno di 35 mila euro l'anno (2.700 per 12 mesi), insomma, un avvocato potrà utilizzare il brand «CD» (Camera dei Deputati) o «S» (Senato) con tutti i risvolti positivi che ciò comporta, a cominciare dal fatto che il marchio - cosa ben nota - funziona da moltiplicatore di parcelle. Adesso è semplicemente un biglietto da visita che costerà un po' di più. Ma che paradossalmente mette il deputato (speriamo non definitivamente) al riparo dal dover rispondere di piccoli e grandi conflitti di interesse tra la sua attività professionale e la sua attività legislativa. Come poi possa apparire l'articolo 13 una grida manzoniana è presto detto. Al di la del «quanto», è la logica che non torna, perché diciamo così, inverte «l'onore» della prestazione lavorativa. Un esempio opposto viene dal mondo accademico (che pure da sempre ha attirato critiche per la scarsa efficienza): i dottori di ricerca non possono svolgere una seconda attività che superi della metà l'importo della loro borsa. E non il contrario. Cioè si pretende che si svolga innanzitutto il lavoro per cui si è «stipendiati» e poi, se avanza del tempo, si permette una quota residuale di lavoro «autonomo».

Che la situazione non stia in piedi, se ne deve essere reso conto anche l'estensore materiale del prescritto dimezzamento dell'indennità, perché l'articolo 13 afferma che si prende questo provvedimento «in attesa della revisione costituzionale concernente la riduzione del numero dei parlamentari e della rideterminazione del trattamento economico omnicomprensivo attualmente corrisposto...». Una premessa che la dice lunga su come vanno le cose.

Metà del Parlamento ha un doppio lavoro
Il fatto è che i «doppiolavoristi» sono quasi la metà dei parlamentari. Una truppa considerevole: 446 in tutto (di cui 270 deputati e 176 senatori), su 945 eletti. Oltre a vantare le più alte dichiarazioni dei redditi, stando a uno studio che ha fatto scalpore del sito La voce.info, i «doppiolavoristi» hanno il record anche della percentuale più alta (37%) di assenteismo. Un dato che più che creare scandalo dovrebbe essere considerato banale, visto che non potrebbe essere altrimenti, perché nessuno di loro ha il dono dell'ubiquità, fornendo argomenti a quanti chiedono il coraggio di arrivare al dimezzamento del numero dei parlamentari. Come ha fatto Sergio Romano nell'editoriale di ieri del Corriere.

Ai magistrati «onorevoli» - che sono 17 - (come il neo Guardasigilli Nitto Francesco Palma che nei giorni scorsi si è dimesso dall'ordine giudiziario) è imposta per legge l'aspettativa dal lavoro. Agli avvocati no. Sapete quanti esponenti del libero Foro occupano un seggio? 134: la somma di 87 deputati e 47 senatori. Con il 14% del totale detengono il record assoluto delle professioni. Negli Stati Uniti fare l'avvocato è incompatibile con il seggio parlamentare e con ogni altra attività. Al secondo posto ci sono quelli che si qualificano genericamente «dirigenti»: 133. Al terzo gli imprenditori: 114, contro soli 4 operai. I docenti universitari sono 77, i giornalisti 89 (con i casi dei «doppiolavoristi» Guzzanti e Farina, arrivati in modo eclatante all'onore delle cronache giudiziarie e delle fiducie parlamentari) e 53 i medici.

Connesso al problema del doppio lavoro c'è quello della «buonuscita» a fine mandato che è una «liquidazione» completamente esentasse, perché tecnicamente si tratta di introito «non imponibile». Quello dell'onorevole infatti non è un Tfr (retribuzione differita): si tratta di una tantum o, più precisamente, di «assegno per il reinserimento nella vita lavorativa». Questo «assegno di fine mandato» dovrebbe infatti servire ad aiutare gli onorevoli a «reinserirsi» nel mondo professionale. È un grosso esborso di denaro (dopo cinque anni sullo scranno, 46.814 euro a parlamentare, dopo 15 anni oltre 140 mila euro) che non solo non ha paragoni negli altri Paesi (dove o non c'è o è estremamente contenuto), ma che è del tutto ingiustificato per quanti (avvocati, commercialisti, medici e professionisti di ogni colore politico) non hanno mai chiuso lo studio e restano in attività quando entrano in Parlamento. In proposito il decreto legge però non dice nulla.

Le incompatibilità elettive
Si contano infine sulle dita di una mano i parlamentari per cui scatta l'incompatibilità prevista dal terzo comma del medesimo articolo 13 che recita: «La carica di parlamentare è incompatibile con qualsiasi altra carica pubblica elettiva. Tale incompatibilità si applica a decorrere dalla prima legislatura successiva alla data di entrata in vigore del presente decreto». Per i parlamentari l'incompatibilità insomma non scatta (come direbbero i giuristi) né ex tunc (dal 1 gennaio 2011) e neppure ex nunc (dalla data di entrata in vigore del decreto). Quindi sono «salvi» i 6 parlamentari che attualmente hanno un doppio incarico: Maria Teresa Armosino, presidente della Provincia di Asti e deputata del Pdl; Raffaele Stancanelli, sindaco di Catania e senatore del Pdl; il presidente della Provincia di Salerno, Edmondo Cirielli, deputato del Pdl; Luigi Cesaro, presidente della Provincia di Napoli e deputato del Pdl; Francesco Rutelli, senatore di Api e consigliere comunale a Roma e Antonio Pepe (deputato pdl) presidente della Provincia di Foggia. In base al decreto in futuro potrebbero fare gli assessori «esterni», come Bruno Tabacci, deputato di Api e al contempo assessore al Bilancio, Patrimonio e Tributi di Milano, che anche se sarà deputato nella prossima legislatura, potrà rimanere tranquillamente al suo posto di Montecitorio perché «chiamato» (dal sindaco Pisapia) e non «eletto» dai milanesi.



Da quello tombale a Mondadori. Tutti i condoni di Berlusconi


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Fiscali, edilizi, tombali, integrativi o a scudo, pendenti o potenziali: quella dei condoni è per il governo Berlusconi il record della vergogna ma a ben guardare anche il primato della fantasia (applicata alla vergogna). Insomma, come trovare i modo per sanare le ignobili imprese dell’abuso e dell’evasione con invenzioni anche lessicali degne di un cruciverba. Il governo Berlusconi-Tremonti- Bossi ha letteralmente massacrato la legislatura 2001-2006 con le sanatorie più varie, conosciute o meno. La parte del leone è quella dell’operazione fiscale del2002, un maxi documento con il quale si è «perdonato» di tutto in cambio di un risibile obolo. Già il nome che viene dato all’operazione la dice lunga: «condono tombale».

In pratica, pagando una piccola multa si sana ogni violazione fiscale negli ultimi cinque anni. Nella stessa manovra, c’è una sanatoria specifica per le piccole e media imprese e per i professionisti («condono per reddito imprese e autonomi »). Poi la sanatoria per «omessi o ritardati versamenti»(si paga senza interessi o sanzioni). E ancora quella per le«chiusure delle liti pendenti»:pagando una piccola quota ci si tutela senza interessi esanzioni. E quella per«liti potenziali »,quando con un modesto versamento si blocca l’accertamento (in corso) dell’Agenzia delle Entrate. Poi c’è l’integrazione:chi aumenta percentualmente l’imponibile (paga solo l’imposta, niente interessi e multe) non è perseguibile (norma servita a molte grandi aziende soprattutto per l’Iva).

Di seguito, la sanatoria per i «redditi all’estero non dichiarati» - niente multe né interessi - e quella per le «scritture contabili » (ripulisce il bilancio irregolare). Anche il bacino elettorale della Lega Nord reclama attenzione: scatta così l’operazione «quote latte». Il pagamento delle multe viene a lungo rinviato, ma quando stanno per scattare ipoteche e sequestri, ilgovernoBossi-Berlusconi- Tremonti toglie la competenza della riscossione a Equitalia. Insomma, tutto da rifare, con sentore di insabbiamento... Dello scudo per i capitali all’estero si sta parlando in questi giorni, ma ci si è forse dimenticati del condono edilizio 2003, o della norma Mondadori, attraverso la quale, due anni fa la maggioranza sana (tra l’altro) il contenzioso in Corte di Cassazione per il pagamento delle imposte che dura da anni: inveceche170milioni, se ne pagano solo 5. E via così.


Tasse, i “santissimi” privilegi del Vaticano. - di Caterina Perniconi


Alberghi, bus e turismo religioso: le attività della Santa Sede esentasse costano allo Stato fino a 3 miliardi l'anno. La denuncia dei Radicali: "Non vogliamo l'ici per le chiese, ma se vogliono fare gli imprenditori allora paghino le imposte come tutti.

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Alberghi di lusso con terrazze sulla Capitale, società che organizzano viaggi per i turisti della fede, scuole e ospedali. Tutto esentasse o quasi, grazie ai privilegi di cui gode il Vaticano. La denuncia del segretario dei Radicali italiani, Mario Staderini è chiara: con qualche ritocco alle esenzioni della Chiesa cattolica, lo Stato potrebbe risparmiare fino a 3 miliardi l’anno. Nel mirino del partito radicale, Ici, Ires e 8 x mille.

La legge istitutiva dell’Ici aveva previsto precise esenzioni per gli immobili destinati al culto e ad usi “meritevoli” (come le attività assistenziali, didattiche o ricreative). Nel 2004, la Cassazione ha dovuto precisare che tale dispensa poteva essere applicata solo fino a quando nell’immobile fosse esercitata in via esclusiva una delle attività “meritevoli”. Nel 2007 fu bocciato un emendamento socialista che proponeva di abbattere l’Ici per gli immobili della Chiesa adibiti a scopi commerciali e grazie a un provvedimento del governo di centrosinistra, adesso basta che non siano “esclusivamente dedicati” al commercio. Quindi sono ancora migliaia gli istituti religiosi in Italia che non pagano questa tassa, convertiti in veri e propri alberghi. E non solo. Basta un chiostro dedicato alla preghiera e qualsiasi immobile o attività può dirsi salvo dalla tassa. A pagare, secondo l’Associazione nazionale dei comuni italiani, sono meno del 10 per cento di chi dovrebbe farlo, con un danno erariale di circa 500 milioni l’anno. Il caso che ha fatto più volte parlare è ilconvento delle suore brigidine, nella storica cornice di piazza Farnese a Roma, diventato uno degli hotel tra i più gettonati dai turisti stranieri. “Per non parlare dell’incompiuto del Bernini a Trastevere – racconta Staderini – dato in concessione a una catena alberghiera che l’ha trasformato in una residenza 4 stelle, Villa Donna Camilla Savelli”.

Tra i privilegi a cui il Vaticano non rinuncia e che i radicali contestano c’è anche l’abbattimento dell’Ires del 50 per cento nei confronti degli enti di assistenza e beneficenza. Per arrivare al contributo dell’8 x mille del gettito Irpef dei cittadini, che supera i 900 milioni l’anno, e viene usato per il sostentamento dei sacerdoti, per interventi caritativi in Italia e nel terzo mondo, per le iniziative nelle diocesi e la nuova edilizia di culto.

“Noi non pretendiamo di rimettere l’Ici sulle chiese – spiega ancora Staderini – ma almeno sulle attività commerciali. Lo Stato, in un momento di crisi come questo potrebbe risparmiare fino a 3 miliardi l’anno e il Vaticano pagare con i profitti ricavati dalle attività come tutti gli altri imprenditori”.

Il turismo religioso viene valutato dai radicali un giro d’affari da 4,5 miliardi euro l’anno solo in Italia (e considerando esclusivamente i servizi di carattere ricettivo e di trasporto). Sono 35 i milioni di turisti che ogni anno partecipano ad attività di turismo di carattere religioso nel nostro paese, il 30 per cento dei quali viene dall’estero, impegnando 120.000 camere, pari al 15 per cento della capacità ricettiva nazionale. In Italia ci sono oltre 200 mila i posti letto gestiti da enti religiosi, per un totale di 3.300 indirizzi, con circa 55 milioni di presenze ogni anno.

Ma gli alberghi non sono l’unica fonte d’introito da turismo per la Chiesa cattolica. L’Opera romana pellegrinaggi, “un’attività del Vicariato di Roma, organo della Santa Sede, alle dirette dipendenze del Cardinale Vicario del Papa”, come si legge nel sito di presentazione, organizza da 75 anni tour per i pellegrini da e per tutto il mondo. Quasi esentasse, nonostante una sede in pieno centro a Roma, in via dei Cestari, e i 7 pullman gialli a due piani che imperversano nelle vie della Capitale, alla cifra di 18 euro a passeggero, noti alle cronache per la denuncia da parte dei lavoratori che venivano pagati in nero.

Il meccanismo, raccontato da Valeria Pireddu, una hostess dei bus di “Roma cristiana” al programma Le Iene, era semplice: lei prendeva un euro su ogni biglietto venduto, quindi non era assunta dal gruppo ma in pratica una libera volontaria. In teoria, invece, avrebbe dovuto emettere fattura anche per i 30-40 euro al giorno guadagnati. Che le avrebbero permesso trasparenza, contributi, ferie, maternità. Naturalmente non compresi nel lavoro che le era stato affidato.

“L’appiglio di Opr alla deroga derivante dai Patti Lateranensi relativa al servizio di trasporto è palesemente non corretto – conclude Staderini – in primo luogo perche le garanzie previste dalla citata legge fanno riferimento ai soggetti che si recano nella Città del Vaticano per finalità religiose, mentre non comprendono le attività di carattere commerciale quale il servizio di trasporto di linea turistica Roma Cristiana. Poi perché il servizio opera sul territorio della città di Roma e solo incidentalmente lambisce il Vaticano, al pari delle altre linee di bus a due piani, di cui ripercorre i percorsi e le fermate”.


http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/08/18/santissimo-privilegio/152104

venerdì 19 agosto 2011

Contenziosi, leggine e altre astuzie Così B. non paga 500 milioni di tasse. - di Marco Lillo.


Mondadori potrebbe versare i 300 milioni chiesti da vent'anni dalle Agenzie delle Entrate. Da Mediolanum, che paga in Irlanda un tax rate pari al 18 per cento, potrebbero arrivare circa 200 milioni di euro tra tasse, sovrattasse e sanzioni.

Mezzo miliardo di tasse. È quello che Silvio Berlusconi potrebbe, anzi dovrebbe, pagare per contribuire a risanare le casse devastate dell’Erario. Il Cavaliere e il suo ex fiscalista, ora ministro, Giulio Tremonti si dannano da giorni per trovare il modo di risanare le finanze senza pesare troppo sui cittadini. Invece di guardare alle buste paga dei lavoratori che pagano già un’aliquota marginale del 43 per cento, dovrebbero riprendere in mano le carte delle cause del gruppo Berlusconi. Scoprirebbero così l’uovo di Colombo: basterebbe che i legali, capeggiati dallo studio fondato dal ministro Tremonti, smettessero di impedire al Cavaliere, (con le loro consulenze e i loro cavilli) di fare fino in fondo il suo dovere di contribuente, per ridurre il contributo di solidarietà in un colpo solo dal 5 al 2,5 per cento nel 2011.

Se la “bancassicurazione” Mediolanum, controllata da Silvio Berlusconi e da Ennio Doris, con quote di un terzo ciascuno, ottemperasse agli accertamenti fiscali delle Fiamme Gialle e dell’ Agenzia delle Entrate, immediatamente nelle casse dello Stato entrerebbe una somma che oscilla tra i 188 milioni di euro e i 282 milioni di euro. A quel punto il Governo potrebbe battere cassa anche nella provincia editoriale dell’impero di Berlusconi. Mondadori potrebbe finalmente versare i 300 milioni (173 di imposte più sanzioni e interessi) chiesti da venti anni dall’Agenzia delle Entrate di Milano per l’antica fusione con la Amef del 1991.

Il processo in Cassazione (dopo che la società aveva vinto i primi due gradi) è stato ucciso sul più bello – quando la Cassazione aveva cominciato a fare “la faccia feroce”, mediante una leggina ad aziendam. Mondadori ha già versato 8,6 milioni per chiudere il contenzioso pagando solo il 5 per cento delle imposte contestate. Ma non è mai troppo tardi. Se il Cavaliere e la figlia Marina volessero, potrebbero approfittare dell’ultimo treno: il ricorso della Corte italiana alla Corte di Giustizia europea. Se fosse accolto, la Cassazione rientrerebbe in gioco e il Cavaliere potrebbe finalmente contribuire al risanamento.

È stato lui, in fondo, leccando il gelato con i nipotini sul molo di Porto Rotondo, la location giusta per pronunciare un simile discorso alla nazione, a dichiarare sotto il solleone di ferragosto: “Il contributo di solidarietà è stato introdotto non perché dia un grande introito, visto che secondo i nostri calcoli darà un gettito di molto meno di un miliardo di euro, ma per un fattore di giustizia, per equilibrare i sacrifici”. Parlando con il cuore, ancora “grondante di sangue” perché aveva dovuto “mettere le mani nelle tasche degli italiani”, il nostro B. ha pronunciato due parole, che stanno alla sua bocca come la parola “scusa” su quella del vecchio Fonzie di Happy days: “giustizia” ed “equilibrio”.

Una soluzione ci sarebbe per non mettere più le mani nelle tasche degli italiani: provare a frugare meglio nelle proprie. Il presidente a dire il vero paga un grande ammontare di imposte e non manca mai di ricordarlo. Anche perché è l’uomo più ricco d’Italia. Ma se si va a verificare quanto pagano alcune sue società, come, e soprattutto a chi, si scoprono delle sorprese. L’uomo che prometteva l’aliquota doppia al 23-33 per cento (salvo pretendere il 48 dai contribuenti onesti) paga con la sua società Mediolanum il 18 per cento di aliquota reale, come si può leggere sui bilanci. Non basta: in questo caso il proverbiale pulpito da cui viene la predica si trova a Dublino. Grazie alla controllata irlandese Mediolanum International Funds che amministra oltre 17 miliardi di euro raccolti per lo più in Italia sotto forma di sottoscrizioni di fondi comuni d’investimento, il gruppo Mediolanum paga sui 257 milioni di profitti lordi made in Dublin, solo 32 milioni di tasse. Ma soprattutto quei soldi vanno a ripianare il debito irlandese, non quello italiano. Grazie alla zavorra dell’esoso erario nostrano, alla fine il tax rate si aggirava nel 2010 intorno al 18 per cento, mentre in Irlanda non arrivava al 13 per cento.

La situazione non è piaciuta all’Agenzia delle entrate e alla Guardia di Finanza. Peccato che quando gli uomini del colonnello Vincenzo Tomei sono entrati nella sede della società nel settembre 2010 hanno trovano una mail nella quale i dipendenti si chiedevano cosa fare perché qualcuno li aveva avvertiti. La relazione semestrale del 5 agosto di Mediolanum racconta il seguito: “Il 28 febbraio 2011 si è conclusa l’attività ispettiva del Nucleo di Polizia Tributaria con l’emissione di un verbale per le annualità dal 2006 al 2009, con il quale sono stati contestati maggiori imponibili per complessivi 121,4 milioni di euro, tutti aventi a riguardo i livelli di retrocessioni commissionali da parte della controllata irlandese MIFL. …il 29 ottobre 2010 la Guardia di Finanza”, prosegue la relazione, “aveva emesso un analogo verbale per l’anno 2005, contestando in quel caso maggiori imponibili ai fini dell’Ires e dell’Irap per 48,3 milioni di euro. … è stata inoltre contestata alla Banca la mancata regolarizzazione dell’IVA nelle fatture emesse dai promotori finanziari con previsione di sanzioni pari a 64 milioni di euro”.

La banca ha presentato una memoria il 29 aprile nella quale afferma la “correttezza del comportamento”. Anche la parte assicurativa di Mediolanum è stata sottoposta ad accertamento da parte dell’Agenzia delle entrate. Per uscirne, scrivono gli amministratori nella relazione: “Il 18 febbraio 2011 Mediolanum Vita ha presentato istanza di “accertamento con adesione” a fronte della notifica di due avvisi relativi al periodo di imposta 2005,(rispettivamente ai fini IRES e IRAP) emessi dall’Agenzia delle Entrate, notificati in data 23 dicembre 2010 e con i quali sono state confermate le riprese a tassazione di maggiori imponibili per 47,9 milioni di euro”. Il fisco però non ha voluto conciliare e così ”in data 23 maggio 2011, Mediolanum ha opposto ricorso presso la Commissione Tributaria Provinciale di Milano”. Ora ci riproverà chiedendo la “conciliazione giudiziale”.

L’azione dell’Agenzia delle Entrate si somma a quella delle Fiamme gialle ed era già stata anticipata con un primo verbale per gli anni precedenti, 2006 e 2005, con contestazione di “maggiori imponibili ai fini IRES e IRAP per complessivi 86 milioni di euro (47,9 milioni di euro per il 2005 e 38,1 milioni di euro per il 2006)”. Cosa accadrà se il Fisco non farà nessuna conciliazione e se Mediolanum perderà i suoi ricorsi? Lo hanno chiesto gli azionisti agli amministratori. Ecco la risposta di Mediolanum, (che non teneva conto dell’ultimo verbale della Finanza di Milano) “i maggiori imponibili contestati ammontano complessivamente a 255 milioni … le maggiori imposte teoriche sono pari a 94 milioni di euro e sanzioni da 94 milioni a 188 milioni”. Sempre che non arrivi un condono, come è accaduto per Mediaset. Sempre che non arrivi una leggina ad aziendam, come per Mondadori, o una prescrizione, come per Mediatrade.


Bossi cacciato dalla sua Padania: non era mai successo.

E' finita. Umberto Bossi costretto a fuggire dalla sua "Padania". Così la chiamava, questa magnifica terra. Prima ha dovuto annullare un comizio per timore delle proteste, proprio qui, a Calalzo di Cadore, terra di estremo Nordest, dove il Senatur è di casa, e la Lega la fa da padrona. Poi sì è beccato una di quelle contestazioni che nemmeno nei suoi incubi peggiori. Poi è stato tutto il giorno rintanato in albergo. Poi è uscito 10 minuti per accogliere Tremonti, e si è immediatamente circondato di guardie del corpo, proprio lì, sul terrazzo, come a creare uno scudo tra lui e la gente del posto. Più poliziotti che fan, scene mai viste. Con le auto che sfrecciavano, e gli insulti che volavano. Poi all'ultimo minuto è stato cambiato il programma, e si è "festeggiato" il compleanno del Ministro dell'Economia nella baita ultrablindata del Ministro dell'Economia - con tanto di forze dell'ordine a presidiare il cancello d'ingresso. Infine Umberto Bossi ha deciso di lasciarel'hotel nella notte, di nascosto, assieme alle 6 guardie del corpo, sospirando "Brutto, brutto, brutto, andiamo via".

http://www.agoravox.it/Bossi-cacciato-dalla-sua-Padania.html

L’origine del debito pubblico italiano? Brunetta, Tremonti e Sacconi consulenti di Craxi


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3nding scrive: “a metà degli anni ‘80 il governo Craxi aveva tre consulenti economici di alto livello che aprirono la voragine del debito pubblico italiano passato dal 73% del Pil nel 1984 al 96% del 1988. I loro nomi? Maurizio Sacconi, Renato Brunetta, e soprattutto Giulio Tremonti.”

Il fatto che siano tutti e tre nell’attuale Governo in una crisi del genere è spaventoso. Questa infografica chiarisce poi meglio chi ha creato, attenuato ed aperto il debito pubblico italiano negli anni:

http://dariosalvelli.com/wp-content/uploads/2011/08/debito-pubblico-pil.jpg
clicca sull’immagine per ingrandire

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E di chi è il debito pubblico italiano, 1577 miliardi di euro? Il 15% delle banche italiane, il 14,6% dei gruppi assicurativi esteri e fondi comuni europei, il 14% di investimenti privati, il 12,3% di banche estere, l’11,4% di compagnie assicurative italiane, l’11,1% di altri investitori internazionali.

Eppure secondo l’Economist rispetto agli altri debiti pubblici non siamo messi poi così male.

http://solleviamoci.wordpress.com/2011/08/18/sorpresa-l%E2%80%99origine-del-debito-pubblico-italiano-brunetta-tremonti-e-sacconi-consulenti-di-craxi/

La casta non vuole lavorare, tanto vale eliminarne la metà.

La casta non vuole lavorare: tanto vale eliminarne metà
Niente,non c’è niente da fare. Non lo vogliono capire. Fuori dai loro palazzi privilegiati c’è un paese che non ne può più della Casta e questi che fanno? Bigiano la seduta del Senato, quella introduttiva alla manovra lacrime e sangue. Imbarazzante, per non dire penoso. Come le scuse che tirano fuori per giustificare quel vuoto di poltrone impressionante.

«Ma non era una seduta importante», hanno balbettato un po’ tutti. Come se un dipendente o un dirigente potesse andare a lavorare solo quando ci sono cose importanti da fare o da decidere! Nella vita lavorativa capitano giornate più o meno impegnative; talune lo possono essere fino a spaccare la schiena (ma non è mai il caso dei politici, tranquilli…) e altre non lo sono affatto. Però al lavoro si va lo stesso. In parlamento evidentemente no: ognuno fa quello che gli pare. Vanno e vengono, ci sono o non ci sono: dipende da come si svegliano la mattina. Ieri l’altro è stata l’apoteosi: solo undici senatori in aula. Altre assenze però ci sono state anche in passato; non poche volte il governo è persino andato sotto in aula per la mancanza dei deputati.

COSE EVIDENTI
A questo punto appaiono evidenti due cose. La prima è che un parlamento di circa mille politici mestieranti non serve a nulla, è un dispendio di soldi pubblici inutile. Perché se gli scranni sono vuoti, il Senato comunque gira a pieno con tutti i suoi costi di personale e di funzionamento vario. E chi lo paga il conto? Noi, cioè quegli stessi cittadini contribuenti che da anni chiediamo un dimagrimento della Cosa pubblica ma che ci ritroviamo solo l’ennesima batosta fiscale da pagare.

Anticipo l’obiezione: in questa manovra c’è una forte riduzione della politica. L’ho già scritto: non credo finché non vedo. È davvero difficile fidarsi di chi dall’oggi al domani perderebbe di colpo una serie di privilegi. E veniamo al secondo punto: le tasse noi dobbiamo versarle subito, i tagli alla politica invece necessitano sempre di una commissione che valuti, che rifletta, che non penalizzi eccetera eccetera. Che ci vuole a scrivere due righe secche: a partire dalla prossima legislatura i parlamentari saranno la metà di quelli attuali. Non dico di abolire il bicameralismo perfetto (ci avevano provato, va ammesso) in quattro e quattr’otto ma almeno dimezzare gli onorevoli, questo va fatto e pure alla svelta. Con progressiva normalizzazione pure del personale che gira attorno al parlamento.

MANCA LA VOLONTA'
Diciamo che non c’è la volontà. E la sfacciataggine con cui i parlamentari umiliano le istituzioni (quelle istituzioni che diventano sacre quando c’è da salvaguardare la poltrona) ne è la prova. Al lavoro si va quando si ha genio, il ristorante con prezzi da mensa dei poveri ma con menu da ristorante per ricchi. E poi i privilegi, pensioni e vitalizi, insomma tutte voci che ci hanno promesso mille volte di togliere e invece restano lì perché quando una mano li toglie l’altra li rimette. Si può andare avanti così? No.

Con che spirito, domando, la classe politica pensa di affrontare gli affanni dell’Italia quando coi fatti dimostra di essersi messa su un piedistallo? Forse non se ne sono resi conto ma nel Paese sta montando la rabbia. La politica dimostri di essere umile, si ricordi di essere al servizio del Paese e non al traino. E soprattutto si rassegni a dimagrire: la velocità con cui le Borse e gli andamenti economici mettono a soqquadro il pianeta si scontra con la lentezza della Casta.

di Gianluigi Paragone.