domenica 28 agosto 2011

Rodotà: «Doppio incarico, serve subito legge»





Basterebbe vedere la dichiarazione dei redditi degli avvocati prima di diventare parlamentari e confrontarla con quella di quando sono onorevoli per capire bene quanto il tema del conflitto di interesse e della necessità di una legge sulle incompatibilità parlamentari sia di assoluta attualità». Secondo Stefano Rodotà, giurista, bisognerebbe ripartire da qui: dalla «moralità pubblica» per restituire credibilità alla Politica, con la P maiuscola.

LEGGI IL TESTO DELL'APPELLO

OLTRE 10MILA FIRME: ADERISCI ANCHE TU

Rodotà, lei definisce quello delle incompatibilità un tema centrale in Italia.
«Lo è per molte ragioni, compreso il costo della politica, ma per un risvolto diverso rispetto a quello di solito considerato. Mi riferisco ai costi pubblici perché la politica possa funzionare, a partire dal Parlamento, dalle retribuzioni dei parlamentari, ma anche al costo per entrare e stare in politica. È cresciuto negli ultimi anni in modo esponenziale anche qui in Italia, come in America. Per avere i soldi necessari per entrare e stare in politica si creano relazioni che garbatamente definisco “improprie” che poi finiscono con condizionare la stessa politica».

Follini: «No a doppio stipendio: la proposta Pd» di M. Ze. Quagliarello: «Giusto principio» di F. Cu.
Onida: «No ai doppi stipendi» di M. Ze.

Lei sta parlando di un altro tipo di conflitto di interessi?
«Esattamente. Questo è un tema capitale che i parlamentari quando entrò in campo Berlusconi non compresero da subito, malgrado fosse stato segnalato. Già allora era chiaro che c’era un problema di ineleggibilità perché era concessionario delle reti televisive. Non si è voluto affrontare davvero il problema e oggi il conflitto di interessi è divenuto l’emblema di un modo di stare in politica. È così vero che una legge sul tema da alcuni viene addirittura definita una legge “contra personam”».

Si fa il parlamentare e basta di P. Spataro
Tramonta una stagione di M. Saccomanno (Pdl)

Lo sarebbe anche quella sulle “onorevoli” incompatibilità?
«Lo dico non da ora che una incompatibilità ormai evidente è quella della professione di avvocato e il ruolo di parlamentare. Ci sono avvocati che sono difensori del presidente del Consiglio e di altri inquisiti o rinviati a giudizio, e contemporaneamente fanno le leggi».

Secondo alcuni la materia è complessa. Ad esempio, in caso di incompatibilità un avvocato con un piccolo studio avrebbe ripercussioni dovendo abbandonare la professione per tutto il periodo del mandato parlamentare.
«Trovo questo argomento assolutamente improprio. Se noi vivessimo in un Paese dove la moralità pubblica mantenesse un livello adeguato non avrei difficoltà a seguire la strada che non impone divieti. Ma non è così. Intanto cominciamo con il ricordare che esiste ancora un istituto che si chiama “indennità di reinserimento”: quando si finisce il mandato parlamentare si riceve una somma per rientrare nella vita “ordinaria” perché si ritiene che l’onorevole negli anni in cui è stato parlamentare non abbia potuto svolgere altre attività».

Invece?
«Invece continuano a svolgere tranquillamente la loro attività, per la quale percepiscono reddito, prendono l’indennità parlamentare e alla fine anche quella di reinserimento, le sembra normale?».

Non molto. In sostanza lei ritiene che oggi, soprattutto gli avvocati parlamentari, traggono un doppio vantaggio personale che poco a che fare con la funzione pubblica che sono chiamati a svolgere?
«Per intenderci: quando sono entrato in parlamento nel 1979 non avevo mai voluto svolgere la professione di avvocato e fino ad allora avevo dato non più di tre o quattro pareri professionali. Diventato parlamentare sono stato sommerso dalla richiesta di pareri, tutti importanti, tutti pagati benissimo. Cosa era successo? Si erano accorti all’improvviso che ero un giurista capace? Non credo. Penso, invece, che sul mercato aveva un suo peso il fatto che ero un parlamentare. Aggiungo: una fondazione molto importante, qualche anno fa fece una ricerca sui redditi dei parlamentari sottolineando la progressiva crescita degli introiti da professione privata durante il mandato. Il presidente Valerio Onida, per fare un altro esempio, più volte si è espresso dicendo che chi lascia la Corte Costituzionale per un certo periodo non dovrebbe svolgere attività professionali e purtroppo non sempre è stato così. Penso sia davvero il momento di ricostruire la moralità pubblica».


Italia, rivoluzione in arrivo? - di Massimo Cacciari



Quando un establishment non riesce a dare un motivo di fiducia alle nuove generazioni, scoppia tutto. E da noi la rivolta sarà dei giovani professionisti, del ceto medio impoverito, di tutti quelli che stanno fuori dalle caste.

Primavera italiana?L'espressione potrebbe davvero ricordare le drammatiche esperienze che si stanno vivendo in molti Paesi dell'altra sponda dell'antico mare nostrum? Le somiglianze non sono di ordine politico o istituzionale. Per quanto l'immagine della nostra politica sia giunta a livelli di indecenza impensabili fino a qualche anno fa, non siamo nelle mani né dei Mubarak né dei Ben Ali e ancor meno degli Assad. Alla peggio siamo stati fedeli alleati dei Gheddafi. Il parallelo può risultare istruttivo sotto altri profili. Occorre però partire da un'analisi non molto diffusa degli avvenimenti che stanno sconvolgendo gli equilibri sociali e politici dei Paesi islamici. Gli stereotipi della rivolta "islamica", così come quelli su occulti complotti ai vertici del potere, risultano del tutto inadeguati a giudicare la novità del fenomeno.

Sostanzialmente, la rivolta si diffonde del tutto al di fuori delle correnti religiose, ideologiche e politiche tradizionali. E con mezzi che non hanno più nulla a che vedere con quelli dell'appello carismatico e della direzione organizzativa "dall'alto". Chi sono i protagonisti? Giovani, operai e studenti, un ceto medio spesso anche altamente qualificato e comunque molto più qualificato della generazione precedente, con forti aspirazioni di mobilità sociale, colpiti da una crisi che si rovescia essenzialmente sulla loro condizione e sulle loro speranze.

Medici, ingegneri, architetti, giovani professionisti, generazione Erasmus bene o male anche questa, che si credevano fondatamente nuova classe dirigente nei loro Paesi e che si trovano sotto-occupati, peggio che precari quando va bene, disoccupati in massa, aspiranti solo a un posto sui barconi in fuga dall'assoluta miseria non solo economica ma umana. I regimi di quei Paesi hanno fallito per mille motivi ma il motivo scatenante della rivolta a me pare questo: nessuna classe dirigente può sopravvivere se non riesce a dare motivo di fiducia alle nuove generazioni. Anzi, direi paradossalmente, agli stessi non-nati, se non riesce a farle partecipare alla costruzione del loro destino.

Non c'entrano fondamentalismi, non c'entrano ideologie. La domanda di democrazia è concreta, materiale. Giustamente questi giovani concepiscono il valore della democrazia nella sua essenza, non per le chiacchiere che ne sommergono l'immagine. E questa è: garanzia di mobilità sociale, abbattimento delle barriere dei privilegi corporativi, intollerabilità di una fisiologica corruzione, partecipazione effettiva, e non "discutidora", alle decisioni che contano per la vita collettiva. Quando tutti questi meccanismi si inceppano, la pressione sale fino allo scoppio. E non se ne accorge soltanto chi vede la pignatta dall'esterno e non avverte il vulcano dentro.

Perché questa rivolta è risultata tanto imprevedibile ai potentati di Occidente? Come mai "esperti", quali il focoso Strauss-Kahn, allora direttore del Fondo monetario internazionale, potevano additare ad esempio di buona gestione dell'economia e delle politiche sociali il governo tunisino qualche giorno prima che lo stesso venisse cacciato? O il nostro povero Berlusconi poteva ritenere Gheddafi un invincibile alla vigilia della guerra civile? Semplicemente perché anche da noi, mutatis mutandis, la politica, nel senso più generale e proprio del termine, ha cessato di considerare ciò che si svolge e matura nel cuore di quelle energie che daranno vita comunque al Paese di domani. Ha cessato di guardare al non-ancora, a ciò che ancora non è organizzazione stabile, corporazione consolidata, lavoro garantito, e che comunque mai lo sarà nelle vecchie forme, come al problema decisivo dell'agenda politica.

Ricercatori, laureati, nuove professioni, free lance: milioni di giovani sono oggi da noi, e non solo in Italia, fuori da caste e palazzi. C'è da credere o temere che la loro pazienza sia ai limiti, come lo era quella dei loro colleghi maghrebini e egiziani. Non aspettiamoci che la "rivolta" avvenga, se avverrà, attraverso dichiarazioni di principio, pubblicazione di quei bei programmi in 5 mila pagine che elaborano i partiti prima delle elezioni. Come i loro colleghi d'oltre mare, si riconosceranno e si convocheranno attraverso le loro reti, le loro strade "immateriali". E quando finalmente si manifesterà la loro "potenza", oggi tutta ancora "potenziale", i vecchi, c'è da giurarlo, diranno: "Imprevedibile". Poiché "il vecchio" è caratterizzato appunto dall'ignorare il possibile.

Per l'organismo capace solo di sopravvivere o difendersi vale soltanto la forza delle corporazioni e degli ordini vigenti, i settori garantiti del lavoro, delle pensioni e magari della rendita. Esattamente come per quei regimi che la "primavera araba" promette di spazzare via. C'è ancora tempo da noi per una soluzione ragionata? Ogni intervento che si limiti a tamponare l'emergenza, senza prefigurare anche e soprattutto un nuovo patto tra generazioni (e generi e genti) non sarà che l'ennesima irresponsabile scelta di abbandonare agli eredi tutti i nostri misfatti.


Al solito “colpiti” i cittadini: salta il taglio di Province e Comuni. Aumenta l’iva!


Veramente credevate che la casta per una volta si tagliasse qualche loro piccola spesa? Rimarrete (al solito) delusi!

Ormai infatti sembra tramontata definitivamente la morsa che avrebbe portato al taglio di diverse Province e all’accorpamento di molti Comuni (anche se sul taglio delle Province poi non ci ho mai creduto un solo istante, se pensate che era uno dei punti principali del programma del Pdl, ma appena una mesata fa avevano votato contrario alla proposta Idv di tagliarle). L’alternativa, come già ventilato più volte, è quella di aumentare l’iva dal 20 al 21%, per recuperare quel bel gruzzoletto che è andato “perso” con la rinuncia al taglio di Comuni, Province e Regioni.

Ma per far capire meglio che, come si suol dire, “il cetriolo va sempre in c..o all’ortolano” (scusate il francesismo), vi riporto uno stralcio da questo post diMetilparaben che rende benissimo l’idea:

aumentare l'IVA di un punto percentuale sottrae cento euro l'anno a coloro che spendono diecimila euro l'anno per sopravvivere, e ne sottrae diecimila l'anno a chi può permettersi di spenderne un milione.
Non credo ci sia bisogno di spiegare per quale motivo dover dire addio a cento euro l'anno per chi campa con meno di mille euro al mese sia molto più gravoso che rinunciare a diecimila euro l'anno per chi può spendere cento volte tanto.
Ne consegue che aumentare l'IVA significa far pagare la crisi in modo più duro a chi se la passa peggio, in barba al principio di progressività, in base al quale chi guadagna di più dovrebbe essere chiamato a contribuire alle esigenze del paese in misura più che proporzionale rispetto agli altri.

Chiaro il concetto?

http://www.stopcensura.com/2011/08/al-solito-colpiti-i-cittadini-salta-il.html


Tagli ai vitalizi, sei parlamentari fanno ricorso: “I nostri diritti non si toccano”


Non passa giorno senza che qualche lupo del Palazzo non ci riservi la nostra dose di sdegno. Ci abbiamo fatto i calli è vero ma a tratti lo stupore prevale ancora sul disincanto. Oggi tocca a sei parlamentari, tutti siciliani, che hanno presentato ricorso alla Corte dei conti contro il taglio della doppia indennità, ossia la possibilità di sommare al già ricco stipendio di parlamentari nazionali, i vitalizi (tra i tremila e seimila euro) maturati nel corso della loro attività di deputati regionali. In altre parole, questo piccolo drappello bipartisan riscuote nello stesso tempo stipendio e pensione. Eppure, con un insolito scatto di lucidità, prima della pausa estiva, la presidenza dell’Ars (il parlamento siciliano) aveva imposto il divieto di cumulare le due indennità. Scelta saggia e in linea con il richiamo al rigore cui tutti i cittadini sono chiamati in questo momento. Ma i sei parlamentari non ci stanno, ritengono questa decisione “illegittima”: “I nostri diritti non si toccano” dichiarano indignati nel ricorso. Li chiamano proprio così: diritti. Mica privilegi. Ecco i nomi dei sei ricorrenti che vi invitiamo a diffondere a futura memoria elettorale:
Calogero Mannino (Gruppo Misto)
Alessandro Pagano (Pdl)


Sebastiano Burgaretta (Pdl)
Giuseppe Firrarello detto Pino (Pdl)
Salvo Fleres (prima Pdl ora Forza del Sud)
Vladimiro Crisafulli (Pd)

Un nuovo '92 è alle porte.



Un nuovo '92 è alle porte. Rispetto ad allora la corruzione è aumentata e i giudici sono stati messi nelle condizioni di non nuocere.
E questo è forse un bene. Un cambiamento radicale in Italia non può avvenire attraverso la magistratura, ma solo con il risveglio dei cittadini come disse Monicelli.

Amato, vicesegretario generale del Psi dei ladri, si presentò allora in televisione in qualità di presidente del Consiglio (sic). Disse che se non cacciavamo 90.000 miliardi di lire, una cifra enorme per l'epoca, eravamo falliti.
Introdusse l'ICI sulle nostre abitazioni e mise letteralmente le mani nei nostri conti correnti con un prelievo forzoso.
Craxi si rifugiò in Tunisia per non finire in galera e l'Italia finì nelle mani dei suoi nani e delle sue ballerine. Tremorti, Brunettolo e Sacconi erano al suo servizio e ora sono ministri.
L'ex presidente del Consiglio, ora commissariato e senza alcun potere, si trovava nella stanza di Bottino Craxi all'hotel Raphael. Il futuro latitante scese a prendersi le monetine da 200 lire e il suo sodale si prese il Paese in nome e per conto del craxismo. Dal '92 viviamo sospesi, tra stragi irrisolte e nell'assenza di un progetto di futuro. Il Paese ha divorato sé stesso, le sue industrie, l'ambiente. Ha perduto la coesione sociale e il rispetto che aveva nel mondo. Il debito pubblico ci ha consentito di spostare sempre più in là la resa dei conti. Un pozzo di San Patrizio maligno a cui si è attinto per non guardare in faccia la realtà. La Nazione è ora indebitata in modo irreparabile e senza speranze di sviluppo nel medio termine. In sostanza è fallita.
Se nel '92 una cura da cavallo ci permise di rimanere in piedi, oggi non solo non è sufficiente una manovra da 90 miliardi di euro, ma forse neppure da 200 miliardi, e tagliare non serve senza un'idea di futuro. Il craxismo ha vinto. Craxi iniziò lo smantellamento del Paese all'inizio degli anni '80 e i suoi successori lo hanno portato a termine.
Nel '92 crollò il comunismo, nel 2012 la stessa sorte potrebbe toccare al capitalismo (o super capitalismo come è spesso chiamato). L'Italia è una barchetta di carta nelle tempeste internazionali che la aspettano. Non ci aiuteranno gli Stati Uniti, né tanto meno la UE.
Se non ne usciamo da soli rischiamo l'implosione, una jugoslavia dolce, un rompete le file, ognuno per sé e Dio per tutti. Il ribellismo al Sud e la secessione di alcune Regioni al Nord. Questa indegna classe politica non se ne vuole andare, eppure dovrebbe, fosse solo per un sussulto di dignità. Chi ha fallito e continua a vivere di privilegi non può restare un minuto di più al suo posto. Non può chiedere nulla al Paese.
Vale per il Governo, vale per le cosiddette opposizioni e vale ancor di più per le Istituzioni. Io, Grillo, cittadino italiano, nato a Genova, di mestiere comico, mi sono rotto i coglioni. Può essere un sintomo strettamente personale, ma credo invece che appartenga ormai alla maggior parte degli italiani. Con una nuova classe politica forse ce la possiamo fare, con questa siamo condannati. Loro non si arrenderanno mai (ma gli conviene?). Noi neppure.


sabato 27 agosto 2011

Arzignano, la grande fabbrica dell’evasione. - By ilsimplicissimus


I ricchi non possono dare una mano, già pagano troppe tasse dice la Marcegaglia. Ma chissà a quali ricchi si riferisce, non certo a quelli italiani dove c’è la più alta evasione del mondo, a parte la Grecia che infatti stiamo gloriosamente raggiungendo. E infatti le bugie – compitino del presidente di Confindustria, hanno le gambe cortissime: non bastano le vicende di fondi neri del suo gruppo a fare allungare il nasino, oggi c’è anche la notizia di una grande azienda del vicentino, beccata con 800 operai irregolari e 1,3 miliardi di evasione.

Non si tratta di un capannone semiclandestino, magari riempito di cinesi, ma della Mastrotto group, uno dei più importanti al mondo nella lavorazione delle pelli, dimostrazione evidente di un cancro profondo e diffuso. Del resto Arzignano, vive di questa attività e vive anche di evasione, visto che un anno fa furono già scoperte altre magagne, un sistema generalizzato di occultamento che prende a scusa la globalizzazione per mantenere altissimi guadagni ai proprietari. Il tutto legato e collegato strettamente alla politica e in particolare al leghismo.

A pochi chilometri da Arzignano sorge Adro il paese famoso per aver sperperato soldi pubblici per riempire una scuola di simboli leghisti, ma anche per aver negato il pasto agli alunni i cui genitori non potevano pagare la retta. E questo la dice lunga sul cammino che parte dall’evasione come tollerata e generalizzata indifferenza ai propri doveri di cittadinanza, per divenire pretesa e reazione politica e infine cieco e rivoltante egoismo che se la prende persino con i bambini.

Un anno fa sugli evasori di Arzignano e sugli affamatori di Adro feci un video che ripropongo per la sua straordinaria attualità. E lo dedico ad Emma.


http://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2011/08/27/arzignano-la-grande-fabbrica-dellevasione/#comment-3358

Non è un Paese per pensionati.


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Quota 97 equivale a 62 anni di età e 35 di contributi per andare in pensione. Nessun ventenne, trentenne, quarantenne, e anche molti cinquantenni che hanno perso il lavoro in questi anni, ci arriverà mai. L'Everest di quota 92 è, come tutti sanno, temporaneo, sarà aggiornato nel tempo per evitare il default. Diventerà quota 100, poi 105. Sempre più in alto, mentre diminuiranno gli anni di possibile contribuzione per i precari, per gli assunti a progetto per pochi mesi, per gli attuali disoccupati. Si assesteranno, se va bene in 18/20 anni. Per arrivare a quota 100 bisognerà quindi avere 80 anni di età e 20 di contributi. Questa è una eccezionale presa per il culo.
I contributi all'INPS sono pagati OGGI da lavoratori che in pensione NON ci andranno mai. Servono a pagare le baby pensioni, le super pensioni, le doppie e triple pensioni, le pensioni dei parlamentari. La pensione di 32.000 euro al mese di Amato, dei consiglieri regionali, il "vitalizio" di 9014 euro di Veltroni, le pensioni di chi sta a casa da quando aveva 40 anni. Perché pagare le pensioni per gli altri senza andare in pensione? Non ha alcun senso. Un limite massimo di 3.000 euro al mese e un'età di 65 anni mi sembrano ragionevoli. Se il tetto venisse applicato lo Stato risparmierebbe 7 miliardi di euro all'anno e tutti potrebbero accedere alla pensione senza quote. Non vedo alcuna ragione per cui un ragazzo debba pagare i contributi all'INPS sapendo che la pensione non l'avrà mai. Il versamento obbligatorio all'INPS deve essere abolito, ognuno risparmia ciò che vuole per usarlo in vecchiaia. L'INPS è un baraccone che ha usato i soldi per le pensioni per farci di tutto, un'istituzione politica non di garanzia dei contribuenti. I soldi dell'INPS sono stati impiegati, tra le altre cose, per la cassa integrazione. Quando per decenni la Fiat perdeva, i suoi dipendenti li pagava l'INPS, cioè noi. Chissà se Minchionne ne è al corrente?
Sulle pensioni bisogna essere chiari. Deve esserci un minimo per gli indigenti (1.000 euro?) e un tetto massimo per tutti gli altri e nessun innalzamento dell'età pensionabile. Se così non sarà è meglio che l'INPS chiuda i battenti e le giovani e quasi giovani generazioni smettano di pagare contributi per una pensione che non riceveranno mai.
Ci sono 19 milioni di pensionati in Italia e circa altrettanti lavoratori che gli pagano la pensione attraverso i contributi mensili. Chi non è in pensione lavorerà (se avrà la fortuna di essere in salute e di avere un lavoro) fino alla morte. Questa situazione non può durare, lo capirebbe anche un bambino e chi paga i contributi INPS lo ha già capito. I contributi sono diventati una tassa per vecchi più fortunati. La riforma delle pensioni si deve fare per tutti o per nessuno. Per chi è già in pensione e per chi ha il diritto di andarci. Non possono esistere in questo momento diritti acquisiti.