domenica 2 ottobre 2011

Referendum anti-porcellum Bersani ha firmato oppure no? - di Luca Telese







I vertici del Partito Democratico non hanno dichiarato se hanno dato il 
proprio contributo per cambiare l'attuale legge elettorale. Il segretario 
del Pd a luglio aveva detto che il partito "non fa referendum, ma lavora 
per un legge in parlamento”. Poi ad agosto era arrivata la firma, 
pesantissima, di Romano Prodi.

E, alla fine, scoppiò “la guerra della firma fantasma” e l’ennesimo paradosso del ma-neanche bersaniano. Il segretario del Pd ha firmato o non ha firmato i quesiti contro la legge dei nominati?
Ieri, a piazza Navona, Fiorella Mannoia diceva che l’Italia è il paese del reverse, in cui tutto funziona al contrario, in cui gli inquisiti mettono sotto accusa gli onesti, e i colpevoli tartassano gli innocenti”. Ci deve essere qualcosa di vero, in questo paradosso, se ieri, per tutto il giorno, sulle agenzie si è combattuta una strana guerra di dichiarazioni, in cui un dirigente del Pd, Arturo Parisi, rimproverava al suo segretario di non aver firmato il referendum anti-porcellum, e l’interessato, Bersani, non rispondeva.

Ci deve essere qualcosa che va spiegato, a sinistra, se il responsabile organizzazione del Pd,Nico Stumpo, pochi giorni fa, aveva vantato come un successo le 200 mila firme raccolte ai banchetti nelle feste del suo partito, ma allo stesso tempo ricordava che il suo partito non intende far parte del comitato referendario. Insomma, si perpetua il paradosso dei referendum di giugno, a cui la base del Pd ha dato un contributo decisivo, ma in cui il gruppo dirigente fino alla settimana prima del voto non credeva. Certo, il primo fatto da raccontare è che le firme necessarie sono state raccolte, e che giustamente Parisi ieri, intervenendo dal palco di Sel, era orgoglioso di questo successo.

Ma resta il problema politico. La polemica, due giorni fa, era stata accesa proprio da una frase di Bersani: ‘”Ho avuto molti ringraziamenti prima dell’estate quando sono stati messi i banchetti – aveva detto il segretario – mi aspetterei che ora che abbiamo raccolto centinaia di migliaia di firme ci fossero uguali ringraziamenti. Sono stupefatto”. Bersani era stupito, perché nello stesso giorno, gli ulivisti del Pd, sparavano bordate contro di lui. Come quella di Mario Barbi, che a commento della dichiarazione a caldo di Bersani (“Non abbiamo messo il cappello, abbiamo messo i banchetti”) aveva risposto: “Sarebbe bello ed elegante se Bersani lasciasse il cappello sotto i banchetti anzichè metterlo sopra”. Poi erano arrivati gli strali dei “rottamatori” di Prossima Italia, che avevano aperto una pagina Facebook dal titolo “Ma Bersani ha firmato?”. E il segretario si era arrabbiato: “Non vedo ragione di polemiche”, aveva replicato in serata, dal seminario organizzato da Rosy Bindi: “Non avevamo promosso neanche gli altri 4 referendum – diceva – ma avevamo contribuito a raccogliere le firme, sostenuto la battaglia e l’avevamo portata alla vittoria“.

Vendola ieri da piazza Navona diceva unitario: “C’erano posizioni diverse, ma abbiamo fatto un miracolo: ora restituiamo il parlamento agli elettori”. E Di Pietro con affettuoso sarcasmo: “Io mi sono fatto l’estate sui banchetti… Ma sono contento che Bersani ci sia”. Però il portavoce di Parisi,Andrea Armaro, prendeva cappello cesellando notarella caustica sulle posizioni del segretario e sul giallo della sua firma: “Se la distanza dal referendum era un errore comprensibile e perfino rispettabile, come gli abbiamo detto, riconoscendo la sua fatica nel portare a sintesi e anche nascondere il profondo conflitto interno del Pd – spiegava ieri Armaro – non lo è la vicinanza di oggi. Se la freddezza di ieri era un errore comprensibile, l’eccessivo calore di oggi è una falsità inaccettabile”. E poi c’era quella stilettata che lo stesso Parisi aveva consegnato ad una intervista di Fabio Martini su La Stampa: “Perché Carlo Vizzini del Pdl ha firmato e Bersani e D’Alema no? La verità è che il vertice del Pd non è stato nè alla testa nè alla coda di questo movimento. All’inizio Bersani aveva elaborato una teoria per bloccare il referendum”. Armaro ci metteva il carico: “Bersani sostiene di aver firmato ed è un falso. Vi pare che nessuno se ne sia accorto? Come mai non un fotografo lo abbia immortalato?”.

In realtà, se si vuole capire il senso politico della disputa occorre un passo indietro. In principio, prima dell’estate, esistevano due quesiti. Uno proposto dal senatore Stefano Passigli sostenuto dall’ala dalemiana del Pd, Rifondazione (e, si diceva, dalla Cgil di Susanna Camusso) proponeva l’abrogazione del porcellum suggerendo la restaurazione del sistema proporzionale di coalizione. L’altro, quello di Parisi. Il primo sembra avere più appoggi politici e più chances, ma a Parisi riesce un piccolo capolavoro: convincere Antonio Di Pietro e Vendola che si deve puntare al cosiddetto Mattarellum (con collegi uninomiali e recupero proporzionale e vincolo di coalizione). Con questa mossa il referendum prende quota (Sel e Idv garantiscono da sole 300 mila firme in piena estate), ma il Pd si spacca. Scriveva ieri Chiara Geloni, direttrice di Youdem bersaniana doc: “Sono orgoliosa di non aver firmato”. Il motivo è anche politico: i dalemiani temono che il referendum Parisi produca un sistema troppo bipolare, allontanando l’Udc. La grana arriva nella Direzione del Pd del 19 luglio. Il partito si esprime unanimemente contro il referendum e Bersani dice con nettezza: “Il Pd non fa referendum lavora per un legge in parlamento”. E’ il gelo. Persino Veltroni“congela” la sua firma. Parisi parte lo stesso, e tenta una impresa impossibile. A fino agosto arriva la firma pesantissima di Romano Prodi. Veltroni torna in campo. Mezzo Pd si mobilita, i militanti affollano i banchetti. Bersani sente il vento e cambia marcia. Ma forse, in questo cortocircuito fra il ma-anche e il ma-neanche il Pd fatica sempre a scegliere perchè non trova mai una quadra fra le sue mille anime.


Condannato per mafia, libero dopo 2 giorni Il giudice dimentica i tempi della carcerazione. di Davide Milosa







Il 27 settembre Carmine Valle, presunto boss della 'ndrangheta 


lombarda, viene condannato a nove anni. Due giorni dopo il Riesame lo 


rimette fuori. Motivo: il processo è andato oltre i sei mesi fissati per la 


custodia cautelare in carcere.


Condannato per mafia. E scarcerato due giorni dopo perché i termini della custodia cautelare sono scaduti ormai da tempo. Succede a Milano, dove il 27 settembre scorso il gup Andrea Salemme ha condannato a nove anni Carmine Valle, figlio di don Ciccio, influente padrino di quella ‘ndrangheta che da tempo ormai sta colonizzando la Lombardia.

Il cortocircuito è dovuto a un problema tecnico. Eccolo spiegato: a differenza di molti componenti del presunto clan, il giovane Valle, nel gennaio scorso, sceglie di venir processato attraverso il rito abbreviato. Il punto è decisivo. In questo caso, infatti, i termini della custodia cautelare in carcere scadono dopo sei mesi dalla richiesta dell’imputato del rito processuale. La tempistica per la scarcerazione nel procedimento ordinario supera, invece, l’anno.

Il processo, condotto dal giudice Salemme, però, sfora il tetto e si conclude in oltre otto mesi. L’errore è marchiano. Gli avvocati di Valle lo sanno bene. E così a luglio fanno richiesta di scarcerazione. La legge è dalla loro parte. Salemme però respinge la richiesta. In realtà, il giudice, approdato al Tribunale di Milano circa due anni fa, sa bene che è solo questione di tempo. Così sarà. Il 29 settembre il Riesame accoglie la richiesta dei legali e rimette in libertà Carmine Valle, ma anche Bruno Saraceno, definito “factotum della cosca” e che lo stesso Salemme ha condannato a dieci anni.

Ricordiamo, allora, i fatti. Il giovane rampollo del casato mafioso, imparentato con influenti uomini della cosca De Stefano, come Paolo Martino, finisce in carcere il primo luglio 2010. L’operazione, coordinata dal procuratore antimafia Ilda Boccassini, fa scattare le manette per 15 persone. Dall’elenco spuntano nomi noti alle cronache mafiose, ma anche personaggi dell’imprenditoria lombarda. Tutti sono protagonisti di un disegno criminale che oltre all’usura, punta alla politica, ai grandi appalti e alla golosa torta del gioco d’azzardo. Il cocktail è esplosivo, la vicenda interessante. Il blitz della squadra Mobile di Milano va in scena in diverse località dell’hinterland. C’è la villa bunker di Bareggio in cui abita da anni l’anziano Ciccio Valle. Ma anche la Masseria di Cisliano, ristorante dagli arredi hollywoodiani. Nelle oltre trecento pagine il gip Giuseppe Gennaricontabilizza un giro d’affari milionario.

I Valle sono ricchissimi. Possiedono società immobiliari, bar, palazzi, terreni. Un patrimonio occultato dietro a un rosario di prestanomi. Tra i locali della cosca c’è il bar Giada. Tre vetrine d’angolo in via Capecelatro a due passi dallo stadio di San Siro. Il titolare è la famiglia Fazzolari. Solo facciata. Perché la proprietà è di Carmine Valle. Il presunto boss, classe ’79, nato a Reggio Calabria, ma cresciuto sulla sponda sud del Naviglio, al bar Giada si comporta da padrone. Si mette in tasca gli incassi di brioche e caffé. Ma anche i soldi delle slot machine. Un bel tesoretto che il ragazzo regolarmente porta in dote al padre-padrino.

Per il gip il particolare risulta decisivo. E così, oltre a chiederne l’arresto per associazione mafiosa (Carmine Valle risulta partecipa dell’organizzazione), il giudice definisce in questo modo il suo ruolo: “Contribuisce al rafforzamento economico del sodalizio criminoso gestendo, attraverso i prestanome, La Giada srl affinché gli altri componenti dell’associazione possano eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale”. Di più: due imprenditori vicini alla cosca hanno dichiarato come “la Giada s.r.l.” fosse “totalmente riferibile ai Valle e materialmente gestita da Carmine Valle, fratello di Angela e Fortunato”. Tanto che gli stessi cellulari intestati alla famiglia Fazzolari venivano utilizzati dal figlio del boss.

Carmine Valle, durante il processo, ha preso le distanze dalla famiglia. Particolare che porterà il pm Paolo Storari a chiedere una condanna di 7 anni e 4 mesi. Il giudice, invece, l’ha aumentata di due anni. Oggi però il presunto affiliato alla ‘ndrangheta lombarda è ufficialmente un uomo libero. Su di lui non pesa alcuna restrizione. Ne pesarà, a meno che lo richieda il pm con una nuova ordinanza. Il rampollo del padrino, dunque, pur condannato per mafia, potrà tranquillamente girare indisturbato tra Vigevano, Bareggio e Milano.


Dove la disoccupazione cresce la politica guadagna di più. di Chiara Paolin




L'economista Andrea Gennaro ha pubblicato un dossier sul sito lavoce.info. Risultato: gli stipendi degli amministratori sono salati mentre i risultati degli investimenti deludono. Maglia nera la Sardegna con oltre 14mila euro al mese per il governatore
“Quest’estate ero al mare in Sicilia, e leggevo sui giornali gran polemiche sugli stipendi dei consiglieri regionali. Gli onorevoli siciliani, come li chiamano laggiù. Allora ho pensato di andare a vedere quanto guadagnano davvero governatori e consiglieri comparando le indennità con i dati relativi al benessere economico della popolazione, cioè Pil e tasso di disoccupazione. Il risultato è sconfortante”. Andrea Garnero parla dal suo ufficio di Bruxelles, è un giovane economista che ha lasciato Cuneo per girare le università europee. Ma il suo cuore è rimasto impigliato nei guai tricolori.

Su lavoce.info ha pubblicato un report sui costi della politica regionale ed emette un verdetto chiaro: gli stipendi degli amministratori sono salati mentre i risultati dell’investimento deludono. Soprattutto nel Sud. A contendersi la maglia nera le solite note: Sardegna, Sicilia, Campania, Calabria, Puglia, Molise. Terre preziose per chi riesce a salire sullo scranno, visto che i governatori meritano compensi tra i 10 e i 14 mila euro al mese (record assoluto la Sardegna con 14.644 euro, subito dietro Puglia e Sicilia) e i consiglieri viaggiano amabilmente tra i 9 e gli 11 mila euro.

Il guaio è che proprio in quelle aree il prodotto interno lordo pro capite è scarso e la disoccupazione galoppa. Come dire, costano tanto e rendono poco? “Esatto – risponde Garnero –. In controtendenza totale rispetto alle altre regioni europee, in Italia se la macchina amministrativa è più cara i risultati sul territorio sono più scarsi. Vorrei chiarire che i compensi da me indicati sono precisi con un’approssimazione cui ho dovuto cedere per l’impossibilità materiale di avere tutte le voci necessarie a stabilire il costo reale, ma la sostanza è certa: l’efficienza amministrativa è ancora un miraggio per noi”.

Perché anche dove i dati socioeconomici sono meno opachi, il prezzo da pagare resta alto. Il leghista Roberto Cota guadagna 13 mila euro al mese e deve combattere una disoccupazione del 7,6 per cento nel suo Piemonte che a Pil (28.800 euro pro capite) sta messo maluccio rispetto ai superlaboriosi di montagna come la Valle d’Aosta (30.600 euro) o la provincia autonoma di Trento (31.000 euro). Idem la collega laziale Renata Polverini, che nonostante una bella ricchezza territoriale (31.100 euro a testa, da bilanciare sempre con la saggia regola del pollo diviso in due anche quando uno resta a bocca asciutta) si prende 12 mila euro al mese, ma vede i disoccupati salire oltre il 9 per cento della popolazione attiva. La Lombardia, che batte tutti in Pil (33.900 euro) offre uno stipendio da supermanager ai suoi fedeli amministratori: 11.739 euro aRoberto Formigoni e addirittura di più, 12.523 euro, ai consiglieri regionali (vedi Nicole Minetti).

“Almeno lì le cose funzionano un po’ – sospira Garnero –, e non è un’idea sbagliata calcolare che quando uno regge bene un servizio pubblico vada pagato come se gestisse un’azienda privata. Ma ci sono anche Regioni dove gli amministratori lavorano con buoni risultati e sono foraggiati molto meno: vuol dire che si può fare”.

I meno peggio della classe sono le piccole autonomie di montagna, da Bolzano alla Valle d’Aosta, ma anche l’Emilia Romagna, la Toscana, le Marche, il Friuli. Saranno loro il modello da imitare nel federalismo che verrà? “Discorso complesso – chiude Garnero –. E soprattutto mi chiedo: se fossimo già in uno Stato federale e capitasse il default della Sardegna o della Sicilia, che succederebbe all’Italia?”. All’Italia non si sa, ma la Padania dovrebbe per forza tagliare i compensi ai suoi amministratori.




L'articolo di Andrea Garnero:
http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002573.html

da Il Fatto Quotidiano del primo ottobre 2011

sabato 1 ottobre 2011

“Malpensa è un disastro ambientale” Adesso l’Europa mette sotto inchiesta l’Italia. - di Thomas Mackinson




L'Unione europea apre un'istruttoria sulle conseguenze ecologiche 
prodotte dall’aeroporto sul Parco naturale della Valle del Ticino. Il 
report della Commissione mette sotto la lente d'ingrandimento l'intero 
sviluppo dell'hub lombardo.

Si addensano nuove nubi su Malpensa. L’Europa ha un’istruttoria in corso sul “disastro ecologico” prodotto dall’aeroporto sul Parco naturale della Valle del Ticino che Il Fatto Quotidiano ha denunciato in una recente inchiesta (leggi e consulta i documenti). “File status: file open”, si legge nell’archivio telematico della Commissione europea che ha acceso un faro sulle conseguenze che l’espansione di Malpensa ha avuto negli anni sull’area protetta dalle stesse direttive comunitarie (leggi il documento Pilot uno e due). Per ora è una spia rossa perché l’Italia è chiamata a fornire spiegazioni e illustrare se e quali misure di tutela del sito di interesse comunitario Brughiera del Dosso e Boschi del Ticino ha intrapreso per limitare il danno. Ma se le risposte non saranno ritenute sufficienti, Bruxelles avvierà una procedura di infrazione con la messa in mora dell’Italia obbligandola a far fronte al “devasto ambientale” (guarda il video).

E un’altra incognita grava quindi sul futuro dello scalo varesino, già alle prese con diversi problemi: continua infatti la fuga dei grandi vettori, gli altri aeroporti del Nord si girano dall’altra parte e fanno network ovunque ma non a Varese, i comuni di sedime (nell’area occupata dall’aeroporto, ndr) sono in causa col gestore per danni ambientali e rivendicano il pagamento della tassa di imbarco dribblato dalla Sea. Ciliegina sulla torta, le previsioni di traffico sono in calo e vanno nella direzione contraria rispetto al piano industriale da 1,6 milioni di euro e al progetto di potenziamento della Terza Pista appena approvato (sulla carta, ora la palla passa a Tremonti).

Così, a un passo dalla quotazione – si è parlato di fine ottobre come prima finestra utile – la Lombardia mette le ali alla sua Parmalat: Sea non produce latte, sposta persone, ma al pari della società di Collecchio sarà messa sul mercato borsistico stando ben attenti a non pubblicizzare i rischi per gli investitori e le perturbazioni che potranno scatenarsi a decollo del titolo ormai avvenuto. Con l’aggravante che a promuovere e gestire il collocamento del titolo non sono manager e finanziarie senza scrupoli ma un ente pubblico che sta in via Marino 1 e possiede l’84,6% delle quote, il Comune di Milano.

Una mossa suicida per la giunta di Giuliano Pisapia, se non fosse che il missile è stato piazzato sulla rampa di decollo dall’amministrazione di Letizia Moratti e che il carburante scarseggia ovunque. Dall’appuntamento con Piazza Affari, infatti, le casse vuote del capoluogo dovrebbero ricavare 160 milioni di euro. Su questo fronte l’orientamento dell’assessore al Bilancio Bruno Tabacci sembra quello di proseguire con la fase istruttoria ben oltre ottobre e fino al nuovo anno, con l’ipotesi concreta di spostare al ribasso l’asticella del collocamento, abbassando la quota dal 35 al 25% così da mantenere il controllo della società (51%). Se tutto questo è fonte di incertezza si può anche aggiungere l’ipotesi ventilata nell’ultima settimana di bandire una gara per diluire la partecipazione azionaria pubblica e far salire il valore delle azioni. Per ora all’orizzonte c’è solo un’ipotesi di scalata da parte di Vito Gamberale che nel settore aeroportuale controlla Capodichino e ha apertamente espresso il desiderio di mettere la targa del fondo F21 sui due gioielli della cassaforte del Comune, la Milano-Serravalle e, appunto, la Sea.

Tempo utile anche a sondare la possibilità di procedere a una Valutazione ambientale strategica (Vas) sul progetto di espansione con Terza Pista, come chiesto in un recente incontro dai comuni sorvolati (Cuv) al Comune. Perché l’unica verifica d’impatto attivata è una procedura di Via (il 29 settembre si chiude la raccolta delle osservazioni presso l’apposita commissione ministeriale che è anche chiamata a dare una risposta di merito) che non entrerà nel merito della reale compatibilità tra il territorio e il nuovo ampliamento disegnato dal Master Plan Sea. Ai sindaci è sembrato già un miracolo essere ricevuti a palazzo dopo i niet dell’era Moratti, ma le reali chance di poter condizionare la partita e gli interessi in gioco sono poche.

Così nel microcosmo della politica locale. Perché allargando lo sguardo oltre il perimetro di palazzo Marino non tira davvero buona aria. Gli amministratori di Milano, tutti, hanno dimenticato quella questione del danno ambientale che è costato alla Sea una condanna a risarcire 4 milioni di euro (sentenza n. 11169/08 del 22/9/2008) al signor Umberto Quintavalle, proprietario di un’area 220 ettari nel comune di Somma Lombardo, nel Varesotto. Il Tribunale, per arrivare a sentenza, ha fatto eseguire una perizia che certifica un progressivo degrado dell’area boschiva, protetta da due direttive europee (Habitat/Uccelli), e riconduce il “devasto” proprio all’attività di sorvolo degli aerei in decollo e atterraggio nel vicino aeroporto di Malpensa. Sea ha fatto ricorso in appello ma Quintavalle, assistito dall’avvocato Elisabetta Cicigoi che sta anche supportando legalmente diversi comuni di sedime, ha deciso, sempre con l’assistenza della Cicigoi, di fare reclamo a Bruxelles per la violazione delle Direttive Habitat e Uccelli, la cui osservanza avrebbe imposto l’adozione di misure di tutela per evitare il degrado delle aree naturali protette causato da “inquinamento acustico, luminoso e da idrocarburi dovuto anche al sorvolo degli aerei in bassa quota, al mancato rispetto delle quote e delle procedure antirumore”. E oggi proprio la strada che sembrava più lunga sarà quella giusta per imporre al gestore aeroportuale l’obbligo di fare i conti con l’ambiente.

Di questa vicenda per ora si sa che il settore Valutazioni del Danno Ambientale dell’Ispra (Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ha confezionato per lo Stato italiano un documento (ISPRA) utile alla definizione della questione ambientale. La relazione riconosce il danno e semmai ne amplia la portata ma esclude la possibilità che il Ministero per l’Ambiente proceda a una richiesta risarcitoria che sarebbe difficile quantificare. Piuttosto indica come valida altrenativa quella di imporre “oltre a misure difensive come le barriere acustiche, di ripristino come la ricostruzione delle zone boschive compromesse dall’inquinamento, misure inibitorie come la riduzione del numero dei sorvoli o modifiche alle zone di sorvolo degli aeromobili”. In pratica Malpensa andrebbe ridotta, non potenziata. Ma il Comune di Milano e Sea sembrano voler tirare dritto e ignorare tutto questo per andare nella direzione esattamente opposta alla sentenza del Tribunale, alle perizie del Corpo Forestale e ora dall’Ispra e da Bruxelles. Così Milano sfida l’Europa ed espone l’Italia all’ennesima infrazione.

Chi in Europa ci sta davvero, come le compagnie aeree internazionali, ha capito che qui tira brutta aria. Le previsioni del piano di espansione Sea si scontrano con i numeri: il piano di potenziamento si basa sulla previsione di 50 milioni di passeggeri l’anno entro il 2030 ma i movimenti nell’ultimo anno sono stati appena 18 milioni quando lo scalo, con le due piste attuali, ha una capacità pari a 30. Le compagnie lo sanno e sanno che su di loro graverà parte del costo di un allargamento dai ritorni incerti se non improbabili. E puntano i loro velivoli altrove. Dopo l’addio clamoroso di Lufhansa anche Air France prepara armi e bagagli e lascia Malpensa per Linate (trascinandosi dietro anche l’olandese Klm). Alitalia praticamente non c’è più da un pezzo, fa decollare 148 voli settimanali contro i 1.238 del 2007. Così, senza il francese, l’italiano e il tedesco sarà più difficile raccontare ai mercati e all’Europa la barzelletta del grande Hub del Nord.


In Sicilia si spala la neve anche d’estate. di Giuseppe Pipitone.

Giuseppe Pipitone

In Sicilia si spala la neve. Non solo d’inverno sull’Etna. Sarebbe troppo semplice. Si spala la neve anche a luglio e ad agosto in provincia di Palermo. Spalare neve d’estate deve essere davvero un lavoro duro. E lo spalatore, si capisce, va pagato a peso d’oro e in straordinario per tale incredibile sforzo estivo. Piccolo problema: dove diavolo si troverà tutta questa neve d’estate sull’isola, quando la temperatura si attesta oltre i trenta gradi? A Mondello? Sulle spiagge di Cefalù? Mistero.

Ha provato a chiederselo l’edizione palermitana di Repubblica, raccontando degli sforzi del signorSalvatore Di Grazia, dipendente della Protezione Civile, che ha di recente chiesto e ottenuto il pagamento di 42 ore e mezza di straordinario dalla Provincia di Palermo per “spalamento neve”. In realtà le ore di straordinario richieste dal Di Grazia erano molte di più, ben 415 con una media inversamente proporzionale alla temperatura dell’isola. Cinquantatre ore di spalamento a maggio, trentotto a giugno, quarantaquattro di lotta contro le slavine balneari a luglio e addirittura duecento nel torrido agosto siculo. Anche alla provincia palermitana però, da sempre in prima linea contro i cumuli di neve, quelle ore sono sembrate troppe. E al Di Grazia sono toccati appena cinque mila euro di straordinario.

Il presidente della Provincia di Palermo Giovanni Avanti è subito intervenuto per chiarire l’equivoco dello spalatore balneare Di Grazia che è a suo dire “L’unico esecutore tecnico di cui è dotata la Protezione civile provinciale ed è, di conseguenza, l’unico in grado di occuparsi di alcuni servizi essenziali, cosa che lo porta ad effettuare numerose ore di straordinario”.

Una replica impeccabile quella del presidente della Provincia, che però lascia inevaso un piccolo rebus: in Sicilia ad agosto tutta questa neve dove sarà? Se lo chiedono i siciliani che hanno combattuto l’afa al mare ma anche i meno fortunati costretti a strisciare sull’asfalto rovente per mancanza di denaro da investire in ferie. E forse se lo chiede lo stesso spalatore Di Grazia.



http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/09/30/in-sicilia-si-spala-la-neve-anche-destate/160897/

MA L'OVETTO NO-Marco Travaglio-Il Fatto Q.-01/10/11




Sicilia. Bartolo è un giovane di 23 anni e fa il pescatore a Sant’Agata di Militello, provincia  di Messina. L’altro giorno è stato arrestato dai carabinieri perché “colto in flagrante”mentre prelevava sette pietre dal lungomare e le caricava su un furgone per fissare le sue reti da pesca sul fondale marino. Tradotto in caserma, vi ha trascorso la notte, in attesa del processo per direttissima. 
Il giorno prima la Camera negava l’autorizzazione all’arresto dell’on. Marco Milanese per rivelazione di segreti, corruzione e associazione per delinquere. 

Qualche giorno dopo, a Taranto, si apriva il processo a Donato, un ragazzo di 20 anni, imputato per il furto di un ovetto Kinder in un chiosco di dolciumi e per le ingiurie rivolte al venditore. Prelevato dai carabinieri e interrogato alle 2 di notte, Donato è finito sotto processo perché il venditore pretendeva 1.600 euro per chiudere la faccenda. Il giorno prima, la Camera respingeva la mozione di sfiducia contro l’on. Saverio Romano, imputato per mafia, che dunque rimane ministro. 

Domenica abbiamo raccontato la storia del giovane etiope rinviato a giudizio per aver colto qualche fiore di oleandro in un parco di Roma. Ieri, sul Corriere, Luigi Ferrarella ricordava altri tragicomici precedenti. Il processo a Milano contro un tizio imputato di truffa per aver scroccato una telefonata da 0,28 euro. 
E quello contro due malviventi sorpresi a fare da palo a una terribile banda dedita al furto di alcuni sacchi della spazzatura in una bocciofila. 


Ma anche i 169 ricorsi presentati in Cassazione da altrettanti utenti Enel (avanguardie di un esercito di 60 mila persone) che chiedono un risarcimento di 1 euro a testa. 


Basta raffrontare l’entità dei reati con i costi del processo (indagini della polizia giudiziaria e del pm,un giudice per la convalida del fermo, un gup per l’udienza preliminare, uno o tre giudici più un pm per il primo grado, tre giudici più un pg per l’appello, cinque giudici più un pg più un cancelliere per la Cassazione, con l’aggiunta di cancellieri ed eventuali periti) per rabbrividire. 


O per sbertucciare la magistratura, che obbedisce semplicemente a leggi sempre più folli o infami. 


Gli unici colpevoli sono i politici che hanno governato l’Italia in questi 17 anni: cioè tutti. Questa giustizia impazzita l’han costruita loro con le loro manine sporche e/o incapaci. Anziché dare risposte serie alla domanda di giustizia in continuo aumento, che non trova sbocco se non in tribunale,depenalizzando i reati minori e creando un sistema serio di sanzioni amministrative, hanno seguitato a inventarsi una caterva di reati inesistenti (come l’immigrazione clandestina) per solleticare la pancia degli elettori più beceri e decerebrati e per allattare un termitaio di avvocati (230 mila contro i 20 mila del Giappone che ha il doppio della popolazione italiana: ha più avvocati la città di Roma dell’intera Francia). 


E intanto depenalizzavano, di diritto o di fatto, i reati dei potenti, cancellandoli o rendendoli impossibili da scoprire e processare. Eppure, sui giornali e in tv, si continua a dipingere una giustizia che trascura “i veri criminali” per colpire i reati dei politici (ovviamente inventati). 
Ora Napolitano ricorda che “in passato un leader separatista fu arrestato”. Non sappiamo se si riferisca anche ai leghisti a suo tempo imputati a Verona per le camicie verdi (e armate) della “Guardia nazionale padana”. Il processo s’è estinto perché l’anno scorso – come denunciò il Fatto nel silenzio generale, anche del Quirinale – il ministro Calderoli depenalizzò il reato di “associazione militare a scopo politico” con un codicillo nascosto in un decreto omnibus. Da allora, per mandare in fumo un processo che all’inizio vedeva imputati anche i ministri Bossi, Maroni e naturalmente Calderoli, chi fonda bande paramilitari fuorilegge non commette reato. Chi invece ruba un fiore, o una pietra, o un ovetto per te, è un delinquente. 


Ma solo perché nessun ministro ha ancora rubato fiori, pietre e ovetti. Non resta che aspettare, fiduciosi.


"Sono bastate tre cimici per dare un duro colpo alla 'ndrangheta". di Giuseppe Baldassarro


Il giudice Gratteri racconta una delle più importanti inchieste degli ultimi anni. "Chi dice che le intercettazioni costano, non sa quanto risparmiamo in impiego di uomini sul territorio. E chi dice che la nuova legge non colpisce la mafia dimentica che..."

REGGIO CALABRIA - "Se mettono mano alle intercettazioni ci privano dello strumento fondamentale della lotta alle cosche. Se oggi conosciamo la struttura della 'ndrangheta lo dobbiamo a tre cimici". Nicola Gratteri ha passato notti intere ad ascoltare boss e picciotti. A volte ha mandato e rimandato i file audio cento volte per riconoscere una voce, cogliere una sfumatura, un accento, un riferimento. Il Procuratore aggiunto di Reggio Calabria lo ha sempre detto: "Ho la sensazione che chi vuole cambiare le regole non capisca il rischio che si corre, limitare la legge può diventare devastante".

Per il magistrato una scelta è quella di punire chi divulga intercettazioni coperte da segreto istruttorio, altro è tentare di disinnescare uno strumento investigativo "raccontando fandonie, come quella che la legge non riguarda i reati di mafia o quelli più gravi".

Il magistrato la racconta così: "Le grandi inchieste contro la 'ndrangheta non partono quasi mai come indagini della Dda. Si inizia quasi sempre da piccoli reati a volte da un danneggiamento, da un incendio, da una minaccia telefonica. I nostri investigatori poi pian piano ricostruiscono la storia, i contesti, il quadro generale è allora che si capisce se si tratta o meno di 'ndrangheta".

LO SPECIALE: LA LEGGE SULLE INTERCETTAZIONI 1



In altri termini, se blocchi la possibilità di intercettare alla base, l'inchiesta è destinata a chiudersi prima ancora di arrivare a risultati apprezzabili. Ci sono poi intercettazioni che hanno fatto la storia delle inchieste contro la 'ndrangheta, che sono delle vere e proprie miniere di informazioni.

Gratteri ricorda ad esempio la cimice a casa del boss Giuseppe Pelle, capo indiscusso di uno dei clan più potenti di San Luca. "In quella casa si parlava di 'ndrangheta dodici ore al giorno  -  spiega il magistrato  -  Si sentivano sicuri e quindi discutevano liberamente. In poco più di un mese abbiamo registrato centinaia di incontri. Mafiosi, politici, imprenditori, professionisti, commercianti, faccendieri d'ogni tipo. Da Pelle passavano tutti persino uomini in odore di servizi segreti. Si pianificavano strategie e si impartivano ordini".

Una cimice ben piazzata può essere devastante se poi si riesce a incrociare i dati con altre intercettazioni si disegnano scenari prima inimmaginabili. Il magistrato ricorda ad esempio che grazie a tre microspie (a casa Pelle, nella lavanderia Ape Green del boss Giuseppe Commisso e nel giardino del padrino don Mico Oppedisano) è stato possibile ricostruire dettagliatamente la nuova struttura della 'ndrangheta descritta con l'inchiesta "Il Crimine", che poco più di un anno fa portò all'arresto di centinaia di affiliati, sia in Calabria che nel nord del Paese, sia in Italia che all'estero.

File audio e video che ora sono agli atti di decine di processi e che hanno già portato a condanne pesantissime, non solo di mafiosi storici. E' in carcere ad esempio il consigliere regionale del Pdl Santi Zappalà, e sono in galera, in attesa dei processi, l'ex sindaco di Siderno Sandro Figliomeni e mezza giunta comunale di Marina di Gioiosa, compreso il sindaco Rocco Femia. Leader politici di due dei comuni più ricchi e popolati della Locride. Sempre grazie a quelle cimici sono stati sequestrati patrimoni per quasi 300 milioni di euro.

Il tutto, spiega il procuratore aggiunto rispondendo a quanti dicono che le intercettazioni costano troppo, "al costo di 10 euro più iva per ogni intercettazione". Per ottenere questo stesso risultato? "Senza le cimici avremmo dovuto utilizzare centinaia di uomini della polizia giudiziaria, fare appostamenti di mesi e chissà cos'altro. E comunque non sono neppure in grado di stabilire quanti milioni di euro sarebbe costato ai contribuenti". Invece "con la legge attuale e tre cimici abbiano scritto la storia recente della 'ndrangheta".



http://www.repubblica.it/politica/2011/09/30/news/tre_cimici-22491306/