Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
lunedì 7 novembre 2011
Berlusconi sotto assedio: tutti traditori, mi vogliono fare arrestare.
Vertice a Palazzo Graziali con Alfano, Cicchitto e Gasparri
alla ricerca di una nuova strategia politica.
di Marco Conti
ROMA - «Traditori, tutti traditori! Mi vogliono far fuori, vogliono farmi arrestare, me o i miei figli. Stavolta non è il ’96». Alle sei del pomeriggio a palazzo Grazioli, al capezzale di un Berlusconi fuori di sé, arrivano prima Gianni Letta, poi i capigruppo Cicchitto e Gasparri e infine Angelino Alfano. Non c’è Verdini, ma ci sono i suoi conteggi e l’avvertenza che il coordinatore del Pdl ha lasciato al Cavaliere di prima mattina: «Se insisti a restare ce ne porteranno via altri». La profezia non tarda ad avverarsi e l’unico riguardo che la Carlucci usa al Cavaliere, e non solo a lui, è quello di non ufficializzare l’uscita dal Pdl a ridosso di qualche telegiornale.
La due giorni muscolare è finita. D’altra parte i bicipiti si erano sgonfiati già in mattinata quando il Cavaliere non era intervenuto a braccio alla convention di Moffa, ma ha preferito leggere un testo per non tradire il suo umore. A palazzo Grazioli i telefoni sono roventi sin dalla mattina. Il problema è che l’area grigia dei possibili «pugnalatori» si allarga di ora in ora invece di restringersi. Anche perché il Cavaliere, liquidando a Cannes il problema come una storia di poltrone, ha finito per irritare coloro che intendono dare altro significato al loro maldipancia, e al tempo stesso ha dato l’impressione di essere pronto a riaprire quel solito mercato delle poltrone, che ha solleticato nuovi appetiti. I tentativi del Cavaliere di rimettere insieme i pezzi della sua maggioranza vanno avanti sino alle sette di sera. Nei suoi giri telefonici sarebbe anche arrivato a chiedere a più di un sottosegretario, annoverabile tra i fedelissimi, di mollare la carica in modo da poterla assegnare ad altri.
Una mossa un po’ disperata che allarga lo sconcerto che serpeggia tra i deputati che continuano ad essere subissati da sms nei quali si raccomanda di essere «assolutamente» presenti alla seduta di domani.
All’ora di cena Berlusconi tira le fila del suo tentativo e si rimette ai suoi ospiti con un laconico «che facciamo?». Tocca a Letta riprendere, due giorni dopo, il filo dei ragionamenti iniziati nella notte di venerdì scorso. Il summit dei «pettegolezzi» e dei «chiacchiericci», come qualche tg aveva bollato i racconti del drammatico venerdì sera, si interrompe subito per ascoltare Maroni che, al programma di Fabio Fazio, chiude ogni possibile speranza dicendo che «i numeri non ci sono», che «è inutile accanirsi» e che sarebbe un errore far fare a Berlusconi la fine di Prodi. «Beh, allora, che si fa?», prova a sdrammatizzare il Cavaliere una volta spenta la tv.
Nessuno dei presenti pronuncia la parola dimissioni, ma torna d’attualità l’iter immaginato venerdì scorso: salita al Quirinale prima del voto sul Rendiconto. Voto in aula sul provvedimento e poi dimissioni sbarrando la strada ad ogni possibile governo tecnico per puntare poi ad elezioni a primavera. Berlusconi però sembra resistere ancora e prima di prendere decisioni definitive, intende consultarsi oggi a Milano con Confalonieri e con i figli, Marina in testa.
I ragionamenti che proseguono per buona parte della serata, investono il Pd, e la «voglia di urne di Bersani» e «l’Udc che alla fine farà accordi alle elezioni con il Pd».
«Dobbiamo convincere il Quirinale - sostiene il Cavaliere - che non sono possibili altre maggioranze e che se la situazione dovesse precipitare siamo disposti a guidare un governo che vari le misure chieste dall’Europa e che, se è possibile, riveda la legge elettorale». Anche se fino a ieri sera non ha mai pronunciato la parola «dimissioni», i ragionamenti del Cavaliere sembrano guardare molto al dopo manifestando, almeno fino a ieri sera, tutta la sua intenzione di restare a palazzo Chigi anche in caso di elezioni.
Berlusconi sa che un voto a primavera rappresenta una sconfitta sicura per il centrodestra, ma è sicuro di poter giocare ancora una partita al Senato: «Anche se le astensioni saranno altissime, a palazzo Madama il centrosinistra non avrà la maggioranza», sostiene Berlusconi nei suoi ragionamenti ormai tutti proiettati verso una nuova campagna elettorale. Da candidato premier, ovviamente.
La due giorni muscolare è finita. D’altra parte i bicipiti si erano sgonfiati già in mattinata quando il Cavaliere non era intervenuto a braccio alla convention di Moffa, ma ha preferito leggere un testo per non tradire il suo umore. A palazzo Grazioli i telefoni sono roventi sin dalla mattina. Il problema è che l’area grigia dei possibili «pugnalatori» si allarga di ora in ora invece di restringersi. Anche perché il Cavaliere, liquidando a Cannes il problema come una storia di poltrone, ha finito per irritare coloro che intendono dare altro significato al loro maldipancia, e al tempo stesso ha dato l’impressione di essere pronto a riaprire quel solito mercato delle poltrone, che ha solleticato nuovi appetiti. I tentativi del Cavaliere di rimettere insieme i pezzi della sua maggioranza vanno avanti sino alle sette di sera. Nei suoi giri telefonici sarebbe anche arrivato a chiedere a più di un sottosegretario, annoverabile tra i fedelissimi, di mollare la carica in modo da poterla assegnare ad altri.
Una mossa un po’ disperata che allarga lo sconcerto che serpeggia tra i deputati che continuano ad essere subissati da sms nei quali si raccomanda di essere «assolutamente» presenti alla seduta di domani.
All’ora di cena Berlusconi tira le fila del suo tentativo e si rimette ai suoi ospiti con un laconico «che facciamo?». Tocca a Letta riprendere, due giorni dopo, il filo dei ragionamenti iniziati nella notte di venerdì scorso. Il summit dei «pettegolezzi» e dei «chiacchiericci», come qualche tg aveva bollato i racconti del drammatico venerdì sera, si interrompe subito per ascoltare Maroni che, al programma di Fabio Fazio, chiude ogni possibile speranza dicendo che «i numeri non ci sono», che «è inutile accanirsi» e che sarebbe un errore far fare a Berlusconi la fine di Prodi. «Beh, allora, che si fa?», prova a sdrammatizzare il Cavaliere una volta spenta la tv.
Nessuno dei presenti pronuncia la parola dimissioni, ma torna d’attualità l’iter immaginato venerdì scorso: salita al Quirinale prima del voto sul Rendiconto. Voto in aula sul provvedimento e poi dimissioni sbarrando la strada ad ogni possibile governo tecnico per puntare poi ad elezioni a primavera. Berlusconi però sembra resistere ancora e prima di prendere decisioni definitive, intende consultarsi oggi a Milano con Confalonieri e con i figli, Marina in testa.
I ragionamenti che proseguono per buona parte della serata, investono il Pd, e la «voglia di urne di Bersani» e «l’Udc che alla fine farà accordi alle elezioni con il Pd».
«Dobbiamo convincere il Quirinale - sostiene il Cavaliere - che non sono possibili altre maggioranze e che se la situazione dovesse precipitare siamo disposti a guidare un governo che vari le misure chieste dall’Europa e che, se è possibile, riveda la legge elettorale». Anche se fino a ieri sera non ha mai pronunciato la parola «dimissioni», i ragionamenti del Cavaliere sembrano guardare molto al dopo manifestando, almeno fino a ieri sera, tutta la sua intenzione di restare a palazzo Chigi anche in caso di elezioni.
Berlusconi sa che un voto a primavera rappresenta una sconfitta sicura per il centrodestra, ma è sicuro di poter giocare ancora una partita al Senato: «Anche se le astensioni saranno altissime, a palazzo Madama il centrosinistra non avrà la maggioranza», sostiene Berlusconi nei suoi ragionamenti ormai tutti proiettati verso una nuova campagna elettorale. Da candidato premier, ovviamente.
E alla fine è sempre la gente comune che scende in campo e si...
...dà da fare ad aiutare gli altri...quella che si rimbocca le maniche e si mette a spalare il fango...che mette a disposizione tutto quello che ha, anche se poco...quella che non ha colore politico ma ha un cuore che forse qualcuno da tempo non ha...Grazie di cuore a chi che si è prodigato per aiutare attivamente coloro che si trovavano in difficoltà, in quell'inferno che ormai è diventata Via Fereggiano a Genova...
https://www.facebook.com/media/set/?set=a.298524686831997.79816.153035914714209&type=3
L'Italia che amo, l'italia della solidarietà.
Per Brunetta la parte peggiore, per l'Italia la parte migliore.
Volontari d'Italia a Genova.
https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10150374281344651&set=a.351023759650.149457.335585184650&type=1&theater
Lo spettro della democrazia spaventa i mercati.
All’indomani del crack finanziario del 2008 si levò un coro di voci "indignate" persino ai vertici delle più importanti istituzioni politiche mondiali (cito su tutti il presidente degli Usa) per reclamare interventi finalizzati a regolamentare e “moralizzare” i meccanismi della finanza globale, vista come “rea e perversa” e additata quale capro espiatorio.
Si invocarono varie misure tese ad arginare soprattutto il cinismo, la spregiudicatezza e la sfrenatezza dei mercati speculativi, introducendo imposte fiscali sulle rendite azionarie e sulle transazioni finanziarie. In altri termini, per impedire che le attività speculative continuassero ad attrarre plusvalore sottraendolo all’economia produttiva.
Sono passati tre anni, è in corso di svolgimento l’ennesimo summit mondiale (il G20 in Francia) e nessuna proposta politica degna di questo nome è stata mai adottata in tal senso. Né poteva essere altrimenti, considerando (appunto) le interferenze che le élite finanziarie sovranazionali sono in grado di esercitare, ricorrendo anche a mezzi spregiudicati e criminali, nei confronti delle autorità politiche ad ogni livello, limitando di fatto la sovranità e l’autonomia decisionale degli organismi eletti democraticamente.
Perciò, cianciare di “democrazia” quando questa forma di governo è destituita di ogni legittimità e ogni fondamento, non ha più molto senso. O, per meglio dire, ha senso solo se si intende rilanciare e rinvigorire il funzionamento della democrazia ripartendo dal basso, ossia promuovendo le forme e i canali della partecipazione diretta e popolare.
A tale proposito, le reazioni di panico e di feroce ostilità che le tecnocrazie europee e le oligarchie finanziarie hanno manifestato apertamente nei confronti della proposta, assolutamente legittima, avanzata dal premier George Papandreou di indire in Grecia un referendum popolare, attestano in modo inequivocabile, casomai servissero ulteriori conferme, che la democrazia è assolutamente incompatibile con il sistema capitalista.
Per rendersene conto basta leggere la dichiarazione dell’agenzia di rating Fitch:
“Il referendum greco mette a repentaglio la stabilità e la vitalità stessa dell’euro”.
Non occorre aggiungere altre parole per commentare una simile posizione.
Ma cos’è accaduto in Grecia? Forse Papandreou si è ricordato improvvisamente di essere di sinistra? O, come è più facile immaginare, l’ondata di scioperi e le rivolte sociali sempre più estese e partecipate, le tenaci proteste popolari che hanno infiammato le città greche, a cominciare dalla capitale Atene, hanno sortito un effetto persuasivo?
E’ inutile supporre quale potrebbe essere l’esito del voto referendario, a dir poco scontato: il popolo greco si pronuncerà molto probabilmente contro le misure draconiane imposte dall’alto, provocando di conseguenza l’uscita della Grecia dall’euro.
Al di là delle ipotesi sul referendum in Grecia, la questione di fondo è costituita dal diritto all’autodeterminazione dei popoli, un principio inalienabile che ispira da sempre la cultura liberale e legittima il criterio della sovranità popolare che è alla base delle democrazie moderne. Un principio che oggi è gravemente insidiato e calpestato dalle tentazioni oligarchiche e tecnocratiche insite nella natura illiberale del capitalismo.
Se questa crisi ha un merito, consiste nell’aver messo a nudo le insanabili contraddizioni del sistema capitalista, rivelando la sua matrice autoritaria e antidemocratica, che è incompatibile con la sovranità popolare e con qualsiasi forma di governo democratico.
domenica 6 novembre 2011
Italia 2020, un Paese senza mestieri. A rischio 385 mila posti di lavoro.
Cgia di Mestre: allarme estinzione per sarti e falegnami. Mancato turn over di saperi e competenze.
Artigiani al lavoro al Teatro alla Scala di Milano (Ansa) |
MILANO – Trovare un falegname tra dieci anni? Per chi vive in città sarà come cercare un ago in un pagliaio. Andrà meglio con gli elettricisti? Macché. Soprattutto ristrutturare casa diventerà una corsa a ostacoli. Pochi piastrellisti e stuccatori. Rifare la facciata del palazzo? Bisognerà per forza di cose affidarsi alla manodopera immigrata che almeno mitiga questa fuga dai mestieri. Mancheranno i ponteggiatori. Manovali e carpentieri saranno merce rara. Ma almeno avremo a disposizione chi ci dà una mano con le faccende domestiche? Tutt'altro. Addetti alle pulizie con il contagocce, colf e badanti per i più anziani avranno maggiore potere contrattuale in un mercato in cui la domanda crescerà esponenzialmente (per via dell'invecchiamento della popolazione) e l'offerta comincerà a latitare, se non adeguatamente compensata da una massiccia immigrazione.
Il RAPPORTO – Scrive la Cgia di Mestre che nell'Italia del 2020 c'è il rischio di un mancato ricambio per oltre 385mila posti di lavoro. Una città di piccole-medie dimensioni a rischio estinzione. I saperi e le competenze manuali – tradizionalmente trasmesse per via ereditaria – dilapidate in poco più di una generazione. Dai baby-boomers ai Millennials, da una società che da agricola diventava industriale (e manifatturiera) a una post-terziaria il conto alla cassa sembra poter dare ragione ai detrattori della cosiddetta economia dei servizi. «Tornare alla terra!», il grido che da più parti comincia a sollevarsi per riappropriarsi di uno stile di vita, per così dire, più bucolico, sembra riverberarsi anche sulle dinamiche occupazionali. Mancheranno gli allevatori di bestiame nel settore zootecnico e anche i braccianti agricoli.
FUGA DALL'ARTIGIANATO – Ma sono soprattutto i mestieri manuali dell'artigianato a determinare questo «smottamento» di competenze. Nell'Italia che sul tessile e sul manifatturiero ha costruito la sua crescita economica il risultato è che si troverà sempre più con il lanternino sarti, pellettieri, valigiai, borsettieri. Con inevitabili ricadute sulla produttività e sull'export. Dice Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, che il problema è culturale: «Bisogna rivalutare il lavoro manuale e le attività imprenditoriali che offrono queste opportunità. Per molti genitori – prosegue – far intraprendere un mestiere al proprio figlio in un'azienda artigiana è l'ultimo dei pensieri. Si arriva a questa decisione solo se il giovane è reduce da un fallimento scolastico». In attesa di una rivoluzione culturale qualcosa si muove in termini legislativi. Il Testo Unico per l'apprendistato – diventato operativo alla fine di ottobre anche se in attesa di tutti i decreti attuativi – incentiva le aziende assumere giovani con questo particolare contratto di inserimento, consentendo particolari vantaggi fiscali e contributivi. Ancora poco, se mancano i giovani potenzialmente interessati
Fabio Savelli
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