sabato 3 dicembre 2011

Formigoni, che disse sì alla bambola in lista. - di Pino Corrias




Pino Corrias


In una preziosa intervista a RepubblicaRoberto Formigoni, presidente di quel che è ancora rimasto a piede libero della Regione Lombardia, rivela di avere chiesto informazioni su Nicole Minetti don Verzé, il presidente aviatore del San Raffaele. Deve essere stata una scena di prim’ordine. Roba buona per Monicelli.

Proviamo a immaginarci i due don spaparanzati al trentacinquesimo piano del Pirellone. Si stanno rigirando tra le mani le foto a colori di quella povera ragazza gonfiata dagli ingegneri del botulino, armata di tacco, spacco, cerniera, rossetto e wonderbra gotico che il vecchio Buscaglione avrebbe chiamato “mammifero modello centotre”. La bambola va nella lista bloccata, lo ha ordinato il Cavaliere. Le liste sono piene di firme false. I bilanci del San Raffaele pure. Nessun problema: si obbedisce. Per don Formigoni il mezzo giustifica sempre il fine. Per don Verzé il fine giustifica qualunque mezzo e “Berlusconi è un dono di Dio”. Quali saranno le qualità di questa tizia, la dialettica, l’etica, l’impepata? Tu la conosci? Come no. Racconta l’illibato: “Quando domandai mi fu risposto che era una ragazza laureata”. Risate, pacche sulle spalle, un rutto. Scusami. Ma ti pare.



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Il disastro della soap siciliana Agrodolce.



La fiction di Raitre, voluta da Minoli, Saccà e dalla Regione siciliana, doveva ricreare a Termini Imerese una nuova Cinecittà: 230 puntate girate, al costo di 100mila euro ciascuna. Ora ci sono in cassaintegrazione 134 persone. Nel 2007 la società Einstein vince l'appalto, ma i costi di realizzazione lievitano. Il produttore Luca Josi denuncia: "Per la fiction usati amici e parenti in odore di mafia".



Gli studi di lusso della fiction Agrodolce
Il disastro da 70 milioni di euro si chiama, o meglio si chiamava, Agrodolce. E doveva essere la risposta siciliana a un Posto al sole, la soap girata a Napoli che da 15 anni tiene banco sui Raitre e che in Campania ha finito per dare lavoro, grazie all’indotto, a più di 1500 persone. A partire dal 2005 a volerla fortemente erano stati in tre: il direttore di Rai Educational Giovanni Minoli, quello di Rai Fiction, Agostino Saccà, e la Regione siciliana. Tanto che Palazzo D’Orleans, abbagliato dal sogno di riuscire a riconvertire dall’auto alla tv una Termini Imerese abbandonata dalla Fiat, era arrivato a finanziare la prima serie con 12, 7 milioni di fondi Fas (quelli per le aree sottosviluppate erogati dall’Unione Europea) e 12,3 Rai. Altri 46 per la seconda e la terza.

Agrodolce però è morta. Le 134 maestranze sono in cassa integrazione. Il tesoro dei fondi Fas verrà con tutta probabilità tolto all’isola dal Cipe. E Termini Imerese perderà un investimento totale di 46 milioni se, entro il 30 dicembre, la televisione di Stato e la giunta di Raffaele Lombardo, non troveranno una soluzione. Così oggi sul tavolo restano solo degli studi vuoti, le speranze deluse dei siciliani, lo spreco di soldi pubblici e un mare di singolari intercettazioni ambientali. Sì, avete capito bene: intercettazioni ambientali. Sono i file audio, registrati artigianalmente a partire dal 2007, da uno degli altri protagonisti di questo pasticcio milionario che da mesi toglie il sonno ai piani alti di viale Mazzini: Luca Josi, l’ex delfino di Bettino Craxi negli anni difficili di Mani Pulite e della latitanza ad Hammamet, poi diventato nel ‘ 94 un produttore di successo e oggi in grandi difficoltà finanziarie. Josi, che tramite la sua Einstein, ha prodotto Agrodolce, ha infatti presentato un lungo esposto-querela chiedendo “se Minoli e il suo staff hanno utilizzato per secondi fini il ruolo ricoperto nell’ambito dell’organizzazione Rai”.

Nel documento ha raccontato storie di presunto nepotismo; ha ricostruito, registrazioni alla mano, vicende che profumano di mafia in cui un dipendente di viale Mazzini avverte la Einstein delle richieste di “un personaggio locale di dubbia provenienza”; ha prodotto documenti da cui sembra emergere il tentativo della Rai di farsi rimborsare dalla Regione, per oltre due milioni di euro, la ristrutturazione di studi televisivi mai effettuata. Poi ha depositato davanti al tribunale civile un ricorso d’urgenza contro viale Mazzini, per farsi pagare molti milioni di euro di fatture già emesse. Carte imbarazzanti, insomma. Tutti documenti che il Fatto ha potuto esaminare, assieme a una lunga ricostruzione audio-video dell’accaduto messa on line a puntate sul nostro sito a partire da oggi.

Capitolo 1


Una storia socialista – La strana storia di Agrodolce, racconta l’esposto di Josi, comincia a prendere corpo nel 2002 quando con Minoli partono i ragionamenti su una fiction made in Sicilia. Dopo la predisposizione del progetto siglata già nel 2005, la Rai aggiudica ufficialmente a Einstein l’appalto per produrre la prima serie nel gennaio del 2007. A quell’epoca i rapporti tra Minoli e Josi sono ancora ottimi. I due hanno alle spalle la comune amicizia con Craxi e il fatto che alla testa di Rai Fiction ci sia un altro ex socialista doc, come Agostino Saccà, facilita evidentemente le relazioni. Tutto all’inizio fila liscio. In ballo, del resto, ci sono un sacco di soldi. Ventuno milioni (12 dei quali provenienti dai fondi Fas) per le prime 230 puntate a cui se ne dovrebbero poi aggiungere altri 42 (al 50 per cento con la regione) per la seconda e terza serie. Inoltre, visto che nelle soap la prospettiva è quella di lavorare per anni, è facile comprendere come la produzione, rischi di muovere centinaia di milioni. Insomma chi si aggiudica il piatto può legittimamente aspirare a camparci sopra per generazioni. Nell’isola non ci sono però dei veri teatri di posa. Così Josi parte con un faraonico progetto firmato dall’archistar Massimiliano Fuksas. L’idea è quella di farsi finanziare da Sviluppo Italia e ricreare a Termini Imerese una nuova Cinecittà. Ma il progetto s’incaglia, tanto che poi Josi finirà per ripiegare più modestamente sui duemila metri quadrati di una scuola della provincia ristrutturata a sue spese.

“La cugina del sindaco” - Minoli ha fretta di cominciare e soprattutto pensa in grande. Nelle interviste spiega di voler fare di Termini Imerese “una piccola Hollywood”, e immagina non di girare una soap, come prevede il contratto della prima serie (una puntata di Agrodolce costa quasi 100. 000 euro, il doppio di Un posto al sole), ma una sorta di film con molti esterni, una fotografia ricercata, il ricorso al dolby, ai carrelli, ai piani sequenza. Tutte cose che una soap non può permettersi per ragioni di prezzo. Quelli della Einstein la prendono male. Anche se il budget è ampio, i soldi rischiano di non bastare. Partono, per usare un eufemismo, le incomprensioni. Alla Einstein non va giù che Minoli, secondo la denuncia, abbia imposto sin dal primo giorno l’assunzione come dirigente a circa 80. 000 euro l’anno di Reneè Cammarata, la bella e nobile pronipote di Vincenzo Florio, descritta dalla stampa come “cugina del sindaco Pdl di Palermo, Diego Cammarata (ma non è vero ndr), amica di Totò Cuffaro e del ministro, Stefania Prestigiacomo”. Josi sostiene che Reneè, già redattrice di Rai Educational, manchi totalmente di esperienza. E l’accusa di essere la causa dello scivolone numero uno della produzione. La scelta, come prima location dove impiantare gli studios, di un immobile di proprietà di un suo amico: il Castello di Trabia del principe Vanni Calvello. Apriti cielo! L’allora presidente della commissione antimafia, Giuseppe Lumia, chiede a Josi due incontri e gli spiega quello che in Sicilia è noto anche alle pietre. Calvello era stato legato a Cosa Nostra e il Castello era stato un abituale punto di ritrovo di importanti uomini d’onore. Insomma, se davvero Agrodolce doveva servire per rilanciare l’immagine della Sicilia, quella era una partenza più che sbagliata. Josi, prendendo a pretesto dei lavori iniziati vicino al maniero, rescinde il contratto, ma versa a Calvello 100. 000 euro. A chiedere di farlo “per non lasciare strascichi con la proprietà” è, secondo Josi, proprio Minoli che a suo dire “appariva contrariato” dal dovere abbandonare la location. A questo infortunio ne segue poi un secondo. Tra i set spunta un’azienda vinicola poi sequestrata al boss Salvatore Lo Piccolo.

Amici e parenti – Gli inizi di Agrodolce sono insomma difficili. La produzione è in ritardo di poche settimane, il clima si arroventa. Senza preavviso, il 18 settembre 2007, Minoli e Saccà inviano un ultimatum. Le riprese devono iniziare subito “pena, la risoluzione del contratto”. Segue una cena pacificatrice a Roma, alla presenza di un testimone. A tavola Minoli, secondo Josi, lascia intendere che tutti i problemi si sarebbero potuti risolvere se nella Einstein, fosse entrato un nuovo socio. Che cosa c’è dietro? Josi lancia nel suo esposto un’accusa al veleno. Scrive che Matilde Bernabei, la moglie di Minoli, per due volte nei mesi precedenti gli aveva chiesto di offrire al marito, vicino alla pensione, la presidenza della Einstein. Un sospetto pesante che Josi suffraga solo con i suoi ricordi anche se, per tutelarsi, proprio a partire da quel lontano giorno, del 2007 registrerà tutti i suoi incontri. In uno di questi, quello del 4 ottobre 2007, sono presenti: Josi, Saccà e Minoli. Il direttore di Rai Educational usa toni apparentemente morbidi. Domanda ancora l’ingresso di un nuovo socio poi usa qualche frase più dura: “Se il problema è formale, siete morti” e ancora “sono io che vi ho portato i soldi e l’affare”. Alla fine si arriva a un compromesso. Nella produzione entrano uomini della Rai. I giornali scrivono che Josi è stato commissariato. E il nome del commissario è quello di Ruggero Miti che ha prodotto le prime cinque serie di Un posto al sole e ha seguito lo start-up de La Squadra. Miti, insomma, sa come far funzionare una soap. Ma, secondo Josi, sa anche come mantenere una famiglia. La sua. La figlia Carlotta lavora adAgrodolce come attrice protagonista, presente anche l’altro figlio Matteo, come regista.

“Ti chiama un personaggio di dubbia provenenza”- Miti si occupa di tutto. Ma non dei cosiddetti problemi ambientali siciliani. Quelli non li denuncia, ma li lascia agli altri. Il 7 giugno 2007 lascia nella segreteria telefonica di Josi questo messaggio: “Caro Luca, volevo dirti che sono due o tre giorni che mi chiama un certo Castagna. Che è un personaggio locale di qui, di dubbia provenienza, che comunque pare non faccia molte, come dire … non faccia molte … problemi insomma. Si accontenta di molto poco e cioè, di veramente insomma … pare che sia tranquillizzante la cosa. Non lo è per le sue tradizioni e per le sue origini, però … non lo so … io comunque ti ho avvertito e devo dirti che gli ho detto che sono della Rai e che non mi occupo di queste cose e che quindi … di parlare con la produzione. Ho dato il numero della Einstein …”. Josi fa sapere a Minoli di avere conservato la registrazione. Per tutta risposta lui, stando all’esposto, lo invita a dimenticare. Intanto, dopo appena tre mesi di riprese, i costi esplodono. Josi accusa: “Minoli voleva fare Ben Hur con il budget di una soap”. Alla fine la prima serie arriverà a costare oltre 6 milioni di euro in più rispetto ai 21 circa previsti, tanto che dopo un arbitrato, la Rai decide di rifinanziare in corsa il progetto. Il clima tra gli ormai ex due amici socialisti è teso. Dal tu, si è passati al lei. E in una registrazione si sentirà Minoli dire a muso duro: “Non facciamo una soap, ok?… Io faccio quello che voglio ok? Non si preoccupi lei?”. Risultato, secondo la Einstein, le perdite della prima serie ammontano a 2. 740. 000 euro; mentre quelle per la seconda vengono stimate in 5, 6 milioni; il disavanzo di bilancio per la terza arriva, invece, a superare i 10 milioni. Un tracollo per la società dell’ex delfino di Craxi.

Capitolo 2


La verità di Saccà – Il 16 luglio 2010 Josi incontra Saccà. L’ex direttore di Rai Fiction è ormai in pensione e fa il produttore indipendente. È uscito dalla Rai dopo lo scandalo delle telefonate in cui l’ex premier Silvio Berlusconi gli chiedeva di trovare una parte per le sue protette. Ma con viale Mazzini ha in corso una causa di lavoro. Saccà allora racconta che, “in un paio di occasioni” Minoli gli ha suggerito di rilevare il progetto della Einstein per produrre Agrodolce e liquidare Josi con “due o tre milioni di euro”. Una miseria. Ascoltando l’audio, pare di capire che l’idea fosse quella di spingerlo a chiudere la sua causa con l’azienda, che rischiava di essere estremamente onerosa, dandogli in cambio la produzione. “Giovanni”, spiega Saccà, “mi ha detto: è una grande opportunità per te. L’azienda tra l’altro vuole chiudere la transazione con te, però ti rendi conto che ci sono molte resistenze evidentemente di produttori che sanno che gli vai a rompere le scatole, sei bravo sai fare le serie no, e le miniserie, c’è li quella roba lì che la Rai ti potrebbe dare senza colpo ferire”. L’ex dirigente però aggiunge di non voler entrare nella partita. E racconta di aver detto a Minoli: “Giovanni lascia stare. (…) io guerre peraltro con persone amiche, non le voglio fare…”.

Quei milioni non sono Rai – In molti ai piani alti di viale Mazzini sanno che cosa sta succedendo. Josi racconta la sua versione a Fabrizio Del Noce, al direttore generale Mauro Masi, al suo successore Lorenza Lei e a molti membri del consiglio di amministrazione. Per riprendere a girare la seconda serie occorrono due anni. E mentre si tentano di rinnovare i contratti (il manager Rai vorrebbe per un anno, quella della Einstein ne chiede due) partono anche lettere di fuoco. A Masi, Josi scrive una missiva in cui si parla di “un inquietante quadro di pressioni e di interessi, che sembrano costruirsi intorno a questo contratto purtroppo oggetto di attenzioni e di visioni “proprietarie”. Con la Lei mette nero su bianco una lettera in cui parla “vicende legate a non troppo chiari rapporti con la Regione Siciliana, rispetto ai quali il gruppo Einstein è totalmente estraneo ed è stato tenuto all’oscuro”. Il riferimento è tutto a una richiesta di documentazione relativa alle spese sostenute dalla Einstein per ristrutturare gli studios di Termini Imerese. La Rai, come risulta da una mail, li sta raccogliendo per farsi rimborsare dalla regione spese che invece non aveva mai affrontato. Che cosa era successo? Nel 2008 Minoli aveva firmato un’integrazione alla convenzione con cui la regione a si impegnava a finanziare la produzione con i fondi Fas. E nelle schede di descrizione delle linee d’intervento era stato scritto che era stata la Rai a creare il centro di produzione della soap opera. A ottenere gli spazi dalla provincia e a sborsare più di due milioni di euro era invece stata la società di Josi. Che, quando aveva domandato al nuovo direttore di Rai Fiction, De Noce, un contributo straordinario per gli studios, si era sentita rispondere: “Non vi è alcuna ragione per cui noi dobbiamo sostenere ulteriori costi a titolo di contributo per gli investimenti da voi liberamente effettuati in Sicilia in qualità d’imprenditori”. Morale: sulla stampa locale l’assessore regionale al Turismo, Daniele Tranchida, denuncia che dieci dei primi dodici milioni di finanziamento, sono stati versati dalla regione alla Rai senza una documentazione dettagliata. E così blocca il pagamento di altri due milioni e mezzo. Dichiara in settembre Tranchida: “Non daremo un euro senza rendiconti. Qui ci sono gli estremi per chiedere un risarcimento danni”.

La parola alla magistratura - Ma anche la Rai smette, a partire dall’ottobre del 2010, di pagare Josi. E il 25 gennaio del 2011 avverte la Einstein che la società Arfin, che aveva fornito le fidejussioni per il contratto, era fallita il 6 dicembre precedente. A quel punto, senza fidejussioni, i bonifici sono bloccati per legge. La Einstein propone allora altre sei diverse società per sostituire la Arfin. La Rai rifiuta tutte le proposte. L’ 11 marzo del 2011, a seguito del mancato pagamento della fatture, la Einstein resta senza soldi e sospende la produzione. Josi presenta un ricorso d’urgenza, mette insieme i documenti per le sue denunce. Se davvero la sua avventura finirà in un crac, sotto le macerie del sogno televisivo di Termini Imerese non ci resterà da solo.

di Peter Gomez e David Perluigi

La “capra” Sgarbi implora perdono a Caselli. - di Davide Vecchi




Le scuse di Sgarbi a Caselli pubblicate stamani suIl Giornale sono quasi commoventi. Ricordano le letterine di scuse che Gian Burrasca scriveva al padre per convincerlo a ritirare la punizione. Sgarbi invoca la remissione della querela.

Il critico d’arte, noto per lo più come agitatore dei talk show e invitato nei panni di gridatore esperto, riesce a firmare venti righe senza una parolaccia né un’offesa, neanche minima. Non gli è scappato neanche un “capra” tra parentesi. Farebbe tenerezza se non fosse che la buona educazione appare solo una facciata. Giustificata esclusivamente dalla volontà di evitare la condanna a cui va incontro, insieme a Vittorio Feltri, per aver pesantemente diffamato l’ex procuratore di Palermo, Gian Carlo Caselli. E così è stato costretto a rimangiarsi il fango che aveva allegramente gettato addosso al pm in due articoli in particolare: “Io, accusato di essere mafioso, vi dico che Silvio è in pericolo”, pubblicato il 26 novembre 2009, e “Sedici anni di processo: il ministro era innocente”.

In sintesi, nei due articoli, Sgarbi si scagliava contro le accuse sostenute dalla procura di Palermo nei processi a carico di Andreotti, Mannino, Musotto, Frittitta e Lombardini. Ma il procuratore non l’ha ovviamente presa bene, ritenendo non solo infondati ma anche gratuiti e offensivi i contenuti degli articoli. Così, il procuratore, si è difeso come può: in silenzio, querelando. Il procedimento sta arrivando all’epilogo e proprio per scongiurare l’esito fin troppo scontato, Sgarbi tenta di correre ai ripari. La letterina strappalacrime, infatti, si chiude con un eloquente invito al “dottor Caselli” che “provvederà a rimettere la querela nei confronti miei e del Direttore, che sottoscrive questa dichiarazione”.

Anche perché già nel gennaio 1998, l’allora parlamentare Sgarbi, era stato condannato dalla procura di Torino a otto mesi di reclusione e al pagamento di cento milioni di lire per avere diffamato il procuratore Caselli, rischiando anche il carcere. Dunque meglio correre ai ripari. Scusandosi. La lettera è chiara.

Sgarbi si è reso conto di aver sbagliato. Certo, c’è voluto il rinvio a giudizio, per spingerlo a rileggere “gli articoli”. E così, scrive, “mi sono reso conto che i fatti da me riportati in merito a quei processi non corrispondevano al vero e che le fonti delle notizie in cui riponevo piena fiducia, si erano rivelate inattendibili”.

Come nel caso Dino Boffo, dunque, anche su Caselli, il quotidiano della famiglia Berlusconi pubblica notizie diffamando chi vuole, fidandosi del primo che passa e senza compiere alcuna verifica. Per Boffo era stata una “informativa anonima” e per Caselli, si scopre, “fonti inattendibili”. Non è un caso infatti che chi è passato per la direzione de Il Giornale negli ultimi anni sia stato anche sospeso dall’Ordine dei Giornalisti. Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro, Alessandro Sallusti. Ma certo l’inviato di punta era l’agente Betulla. Non c’è verso di far verificare una notizia. Per dire, qui al Fatto Quotidiano, “il giornale delle procure”, arrivano molte “informative anonime” e suonano tantissime presunte fonti. Lasciano la loro storia e verifichiamo ciò che riteniamo meritevole di attenzione. Poi lavoriamo. Cioè cerchiamo fonti attendibili e riscontri non anonimi. Quando ci sono, si scrive, altrimenti no. Ecco, se fossi il papà di Gian Burrasca gli toglierei la punizione, spiegandogli quali sono le regole che si devono rispettare per non ripeterle più. Sgarbi è grandicello ormai e ha molta esperienza. Da uomo adulto e responsabile sicuramente si rimprovererà da solo, magari allo specchio: “Capra, capra, capra!”.

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http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/12/03/quel-gian-burrasca-sgarbi-implora-perdono-caselli/175002/

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Palermo, arrestato Gianni Lapis, il tributarista di Vito Ciancimino: “Riciclava tangenti”. - di Giuseppe Pipitone





Decine di milioni di dollari ed euro scambiati in stanze d'albergo. "Sono mazzette della Prima repubblica", spiegano i colletti bianchi dell'organizzazione a un infiltrato della Finanza. L'inchiesta coordinata dal pm Ingroia. Il professionista è già stato condannato per intestazione fittizia ed è indagato per la presunta corruzione dell'ex ministro Romano.


Il tributarista Gianni Lapis
Nonostante una condanna definitiva per intestazione fittizia di beni e un’indagine per corruzione, il tributarista palermitano Gianni Lapis avrebbe continuato a gestire affari poco chiari. E’ quanto emerge dalla maxi operazione del nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza, che questa mattina ha sgominato una vasta rete criminale che riciclava decine di milioni di dollari americani considerati di provenienza illecita. Addirittura frutto di “tangenti della prima repubblica”.

L’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto della Dda di Palermo Antonio Ingroia e dai sostituti Lia Sava e Dario Scaletta, ha svelato una presunta associazione criminale specializzata nel riciclaggio di valuta estera. A capo dell’organizzazione ci sarebbe stato proprio Lapis: l’ex prestanome della famiglia Ciancimino, arrestato proprio questa mattina dagli ufficiali della guardia di finanza, è indicato dagli inquirenti come la vera e propria “mente del gruppo criminale” , composto tra altro da elementi insospettabili.

Il provvedimento d’arresto del gip Lorenzo Jannelli riguarda infatti anche cinque presunti complici di Lapis, finiti in manette: Francesco TerranovaSalvatore AmorminoNino Zangari,Giovanni Lizza e Angelo Giudetti. “Colletti bianchi” che gestivano le operazioni dell’associazione criminale in varie parti d’Italia. Nonostante la sede principale dell’organizzazione fosse a Palermo, nello studio del tributarista in via Libertà, la maggior parte delle operazioni di riciclaggio si sarebbe svolta in alcuni hotel romani. E’ proprio in uno di questi un agente della Guardia di finanza, infiltrato tra gl’intermediari di valuta, sarebbe riuscito ad incastrare il gruppo di Lapis. All’infiltrato delle Fiamme gialle Lapis e soci avevano proposto uno scambio: sessanta milioni di dollari americani in cambio di 45 milioni di euro, somma dalla quale avrebbero sottratto il 15 per cento, come provvigione per l’intermediazione illecita.

Il denaro – avrebbero spiegato i riciclatori all’agente infiltrato – proveniva da alcune tangenti destinate a politici della prima repubblica. L’agente sotto copertura ha finto di portare avanti la trattativa per parecchie settimane, incontrando più volte gli indagati in alberghi romani e istituti di credito. Nel frattempo gli agenti speciali della Guardia di Finanza registravano gl’incontri del gruppo criminale grazie a intercettazioni ambientali e telefoniche. Stamattina è scattato il blitz.

Lapis e soci sono accusati di associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio. Dalle indagini emergerebbe che oltre ai 60 milioni di dollari, il gruppo criminale avrebbe nelle sue disponibilità ulteriori quantitativi di valuta estera. Durante le trattative con l’agente infiltrato, il gruppo si sarebbe rivolto anche ad altri soggetti che avevano esigenze complementari alle loro: ovvero grandi capitali in euro da scambiare con valuta straniera. Il tutto sempre con lo sconto del 15 per cento, in maniera da eludere il sistema della tracciabilità, aggirando il circuito bancario e consentendo quindi l’immissione nel mercato del denaro “pulito” di capitali di provenienza illecita.

L’indagine è ancora in corso con perquisizioni a Roma, Palermo, Taranto, Catania, L’Aquila e Benevento. Ci sarebbero poi altri nove insospettabili “colletti bianchi” indagati, tuttora a piede libero.

Lapis era stato condannato dalla Corte di Cassazione il 5 ottobre scorso a due anni e 8 mesi per intestazione fittizia di beni, nel processo sul tesoro di Massimo Ciancimino. Il tributarista, che era stato sospeso dall’insegnamento universitario proprio dopo la condanna definitiva, è indagato dalla procura di Palermo anche per corruzione. Avrebbe infatti consegnato tangenti per centinaia di migliaia di euro ad alcuni esponenti politici come l’ex ministro Saverio Romano e il senatore Carlo Vizzini nell’ambito degli affari della Gas spa, la società che gestiva in nome e per conto della famiglia Ciancimino.