Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
venerdì 10 febbraio 2012
Caso Lusi, cresce il 'tesoretto' sottratto. Rutelli: ''Rivogliamo fino all'ultimo euro''
Roma - (Adnkronos) - Spuntano altri 618mila euro distolti nel 2007. L'ex presidente dei Dl: ''Sofferenza per la vicenda ma questo non ci impedisce di reagire con lucidità''. Presentata una modifica alla legge sui rimborsi elettorali.
Roma, 9 feb. (Adnkronos) - "Sfido qualunque segretario di qualunque partito a fare una conferenza stampa come ho fatto io oggi. Credo, anzi sono sicuro, che nessuno lo avrebbe fatto". Quasi sbotta Francesco Rutelli dopo un'ora e più di domande alle quali è stato sottoposto dai giornalisti che, al Senato, hanno assistito alla presentazione di una modifica alla legge sui rimborsi elettorali ai partiti politici che se approvata, assicura, scongiurerebbe il ripetersi di un 'caso Lusi'.
L'ex presidente dei Dl ripete di "vivere con sofferenza questa vicenda ma questo non ci impedisce di reagire con lucidità. La nostra è sempre stata, fin dall'inizio, una linea di trasparenza e verità. Ciò che è accaduto non deve più succedere". Trasparenza e verità, ribadisce, che si è tradotta nella "massima collaborazione" con la magistratura di Roma che oggi, aggiunge, si è vista recapitare, tramite i legali del disciolto partito, "gli estratti conto dal primo gennaio del 2007 al 31 dicembre 2011".
Gli stessi che la Guardia di Finanza aveva inutilmente richiesto alla filiale della Bnl del Senato. "Ricordo - sottolinea l'ex presidente Dl - che noi siamo la parte lesa e che non ci accontentiamo di una restituzione parziale dei fondi sottratti come ha proposto Lusi. Noi quei soldi li rivogliamo indietro fino all'ultimo euro ed è per questa ragione che gli atti legali che abbiamo finora intrapreso sono all'insegna della totale collaborazione con i magistrati".
Rutelli ha presentato un emendamento al dl sulle liberalizzazioni per modificare alcuni "meccanismi legislativi" che rendano e meno aggirabile la legge sui rimborsi elettorali e più rigorosi i bilanci dei partiti e dei movimenti politici, oltre alle società partecipate o controllate, che "devono essere certificati da una società di certificazione indipendente iscritta all'Albo speciale delle società di revisione tenuto dalla Consob".
Inoltre i presidenti di Senato e Camera dovranno comunicare al ministero dell'Economia, sempre sulla base di un controllo compiuto dai revisori, l'avvenuto riscontro della regolarità nella redazione del rendiconto, della relazione e della nota integrativa. Il collegio dei revisori è composto da cinque membri nominati dai presidenti delle Camere all'inizio della legislatura. Non meno di due membri del collegio dovranno essere scelti tra i presidenti di sezione della Corte dei Conti e almeno uno tra i dirigenti di prima fascia del ministero dell'Economia.
Un sistema che, secondo Rutelli, "non permetterà che si verifichi nuovamente un caso Lusi" e verrà scongiurata "la possibilità che partiti approvino in buona fede bilanci contraffatti da chi li presenta, come è accaduto con la Margherita". Questa modifica al decreto liberalizzazioni si rende necessaria perché, ha spiegato ancora Rutelli, "i bilanci dei partiti non sono bilanci statali e non possono essere portati direttamente alla Corte dei Conti".
Dell'emendamento Rutelli ha informato i presidenti delle Camere, Fini e Schifani, il presidente del Consiglio Monti e il ministro per i Rapporti con il Parlamento Giarda. Ora si augura che i partiti sappiano cogliere l'opportunità di un cambiamento. "L'ideale - ha osservato - sarebbe quella di cambiare la natura giuridica dei partiti e delle associazioni politiche", intervenendo sull'articolo 49 della Costituzione. Ma i tempi si dilaterebbero e "l'orizzonte della legge si allargherebbe".
"Abbiamo subito una lezione ma vogliamo chiarire che l'abbiamo capita. Per questo diciamo che la magistratura fa bene a indagare a tutto campo. Ricordo che noi siamo la parte offesa e pretendiamo la totale restituzione del maltolto. Non è vero, come ho letto da qualche parte, che siamo pronti ad accontentarci della restituzione parziale proposta da Lusi. C'è un colpevole e ci sono delle vittime. Questo deve essere chiaro".
"Lusi aveva la più totale fiducia del partito, mia e del gruppo dirigente dell'ex Margherita ma, bisogna dire, anche del Pd, considerando che era stato nominato componente della Giunta per le autorizzazioni a procedere". Fiducia mal riposta, ha concluso Rutelli, visto che, come ha precisato, i fondi sottratti ammontano a ben oltre 13 mln e mezzo. Come ha scoperto la società di revisione dei conti, incaricata di spulciare i bilanci e la documentazione amministrativa, sono spuntati altri 618.000 euro sottratti nel 2007.
http://www.adnkronos.com/IGN/News/Politica/Caso-Lusi-cresce-il-tesoretto-sottratto-Rutelli-Rivogliamo-fino-allultimo-euro_312958875948.html
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http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-02-10/lusi-estratti-conto-consegnati-064233.shtml?uuid=AaFwQapE
Pdl, odore di bruciato dietro al boom di iscritti. “La guerra rischia di finire in tribunale”.
Bertolini, segretario a Modena: "C'è chi stacca tessere facili con rischio di infiltrazioni malavitose". Giovanardi replica: "Affermazioni indegne". Ma dietro all'esplosione di adesioni ci sarebbero solo grandi manovre tra le correnti per vincere i congressi provinciali. Una situazione che rischia di sfuggire di mano anche al responsabile regionale Berselli.
Il partito dell’amore lo chiamava Silvio Berlusconi nei primi mesi dopo la nascita del suo Popolo della libertà. Ma i tempi sono cambiati. Soprattutto lungo la via Emilia dove c’è sì unboom di iscritti, ma sul quale i primi a lanciare sospetti sono i dirigenti del partito stesso. Così, alla vigilia dei congressi provinciali, i primi nella storia del Pdl e in tutta la storia del berlusconismo politico, il partito di via dell’Umiltà appare lacerato e diviso, pieno di sospetti e in balia di una guerra interna che in alcune città potrebbe addirittura finire in tribunale.
Sono proprio le adesioni al movimento guidato da Angelino Alfano il pomo della discordia che, non solo in Emilia Romagna, sta mettendo in crisi questa prima “mobilitazione nazionale”. Molti esponenti del partito, dalla Puglia al Lazio, dal Veneto alla Calabria, hanno denunciato un anomalo aumento delle tessere. Ora le voci iniziano ad alzarsi anche dall’Emilia Romagna, terra rossa capace di dare comunque al berlusconismo personaggi del calibro di Carlo Giovanardi, Filippo Berselli, Anna Maria Bernini, Giuliano Cazzola.
La prima a sollevare critiche sul tesseramento era stata la deputata modenese Isabella Bertolini, la stessa che a novembre fu tra le prime a mettere in dubbio la fiducia all’allora premierBerlusconi. La parlamentare, alla vigilia del prossimo congresso (in cui è candidata), ha prima denunciato un boom di iscritti in provincia di Modena, da poche centinaia a 5.600. Poi ha rimarcato un fenomeno che, se verificato sarebbe molto grave: la presenza di individui sospetti tra le nuove adesioni: “Leggo cognomi come Zagaria che mi auguro non siano parenti dei noti camorristi del clan dei Casalesi. Non voglio passare per razzista né ho strumenti per sapere chi sono questi neo-iscritti ma i sospetti restano. Il mio timore è che qualcuno possa aver aperto loro la porta, per questo ho informato il segretario Angelino Alfano e sono in attesa di una risposta”. Immediata la replica di Giovanardi, nemico storico della Bertolini: “Indegno criminalizzare chi è nato in alcune province del Meridione”.
Scendendo lungo la via Emilia fino al punto più a est c’è Rimini, dove Gioenzo Renzi, ex consigliere regionale, ex Alleanza nazionale ed ex candidato sindaco sconfitto alle elezioni di maggio, denuncia “iscrizioni triplicate” in provincia: da 901 del 2010 a 2.386 del 2011 in un mese. “Non solo – spiega Renzi – dei 901, ben 338 non hanno rinnovato ala tessera. Gli iscritti ex novo, cioè mai visti prima, nel 2011 sono stati 1.823”. Renzi porta dei casi emblematici dai centri della Riviera: “A Bellaria si è passati da 69 a 220, ma di quei 69, 33 non hanno rinnovato. Dunque – conclude l’ex candidato sindaco – ci sono 187 iscritti ex novo. Stesso discorso a Riccione”.
L’accusa al gruppo dirigente provinciale, guidato da Marco Lombardi, è molto pesante: “Mi sembra che a molta gente quello che interessa siano i pacchetti delle tessere, non il dibattito interno. Noi non siamo andati a destra e a manca a cercare gente che magari si vede solo un giorno al congresso. Oggi – prosegue Renzi – non è individuabile nemmeno chi fa le tessere: una volta invece servivano due persone per presentarlo”.
Il consigliere regionale Lombardi, coordinatore uscente e sostenitore del candidato ciellinoFabrizio Miserocchi, replica. “È fisiologico l’aumento degli iscritti prima di un congresso. Io stesso negli anni precedenti non andavo alla ricerca di iscritti, quest’anno sì”. E i risultati si notano, si potrebbe aggiungere. “Ci sono tre ex An che fanno 250 iscritti a testa, poi una componente di Cl che ne fa circa 300. Io e l’onorevole Sergio Pizzolante facciamo il resto”. Cioè quasi 1.500 tessere, facendo due conti.
Ma come ci iscrive al Pdl? Via internet o con un modulo cartaceo spedito a Roma. Ogni iscrizione ha un suo singolo bollettino di pagamento (10 euro l’iscrizione per il solo voto attivo, con 50 euro si può anche essere eletti a una carica) con allegata fotocopia del documento d’identità.
Lombardi allontana qualunque insinuazione di iscrizioni fasulle: “Stanno venendo fuori robe di questo genere in giro per l’Italia, proprio per questo non mi va di essere accomunato a cose poco chiare . Io garantisco su tutti i 2.500 iscritti, ci metto la mano sul fuoco”.
Ad ogni modo il tenace Gioenzo Renzi chiede che almeno vengano inviate delle lettere di convocazione a casa di ogni iscritto per invitarlo al prossimo congresso del 26 febbraio.
Una procedura simile a quella già adottata a Bologna. Anche nel capoluogo tuttavia non è mancata qualche ombra sul tesseramento, segnalata dal vice-coordinatore cittadino e consigliere regionale, Galeazzo Bignami. Proprio per questo sono partite le buste, iscritto per iscritto. “Si tratta di qualche decina di imprecisioni su un totale di 2.800 iscritti regolari – spiega – sarei sorpreso se gli errori superassero l’1 %”.
Per sgombrare il campo dai sospetti il consigliere regionale ha preferito quindi verificare le iscrizioni del capoluogo una a una, facendo inviare ai tesserati una lettera di conferma. “Li abbiamo contattati per essere sicuri che non ci fossero irregolarità, e nel momento in cui abbiamo individuato tessere-fantasma non rivendicate, l’abbiamo segnalato a Roma”.
Nella procedura di adesione ci possono essere delle insidie. Il documento d’identità da allegare può essere presentato anche successivamente, a eccezione degli ex iscritti ad An e Forza Italia, che sono esentati. In alcune liste preparate per i prossimi congressi, per esempio, sono stati rintracciati nomi di ex-iscritti, nonostante non avessero mai rinnovato la tessera. “Questi sono banali errori del sistema informatico che aveva bisogno di essere aggiornato, ma a Bologna ci sono stati anche diversi casi di omonimie. Ad ogni modo correggeranno a Roma”.
Insomma, anche per Bignami qualcosa non torna, ma di certo il consigliere si tiene ben distante dai colleghi di partito di Rimini e Modena, anche perché sotto le Due torri un’esplosione di iscrizioni non c’è stata, anzi. Se erano 3 mila nel 2010, sono 2.800 oggi. “Giusto tenere alta l’attenzione, ma se qualcuno pensa che ci siano rischi d’infiltrazioni vada in Procura”.
Sulla stessa linea il coordinatore regionale, Filippo Berselli. Per lui le accuse sono “balle senza fondamento”. Secondo il senatore, chi semina sospetti lo fa perché ha bisogno di mascherare la realtà. Un gesto dettato dalla disperazione, insomma: “Sia Renzi sia Bertolini sanno di non avere speranze ai congressi provinciali, per questo ora cercano giustificazioni. Ma se hanno elementi concreti facciano delle denunce direttamente alla magistratura”. Da Roma un altro deputato influente, il bolognese Giuliano Cazzola, chiede comunque di tenere gli occhi aperti e invita il centro, cioè Roma, ad adottare “procedure più severe ”.
Questo è il Pdl in Regione. Ora con lo scioglimento delle nevi che ricoprono la regione da est a ovest, quello che rimarrà a terra dopo i congressi e i veleni da esercito ormai senza guida, potrebbe essere il vecchio contenitore del partito di plastica berlusconiano.
di Giulia Zaccariello e David Marceddu
Sono proprio le adesioni al movimento guidato da Angelino Alfano il pomo della discordia che, non solo in Emilia Romagna, sta mettendo in crisi questa prima “mobilitazione nazionale”. Molti esponenti del partito, dalla Puglia al Lazio, dal Veneto alla Calabria, hanno denunciato un anomalo aumento delle tessere. Ora le voci iniziano ad alzarsi anche dall’Emilia Romagna, terra rossa capace di dare comunque al berlusconismo personaggi del calibro di Carlo Giovanardi, Filippo Berselli, Anna Maria Bernini, Giuliano Cazzola.
La prima a sollevare critiche sul tesseramento era stata la deputata modenese Isabella Bertolini, la stessa che a novembre fu tra le prime a mettere in dubbio la fiducia all’allora premierBerlusconi. La parlamentare, alla vigilia del prossimo congresso (in cui è candidata), ha prima denunciato un boom di iscritti in provincia di Modena, da poche centinaia a 5.600. Poi ha rimarcato un fenomeno che, se verificato sarebbe molto grave: la presenza di individui sospetti tra le nuove adesioni: “Leggo cognomi come Zagaria che mi auguro non siano parenti dei noti camorristi del clan dei Casalesi. Non voglio passare per razzista né ho strumenti per sapere chi sono questi neo-iscritti ma i sospetti restano. Il mio timore è che qualcuno possa aver aperto loro la porta, per questo ho informato il segretario Angelino Alfano e sono in attesa di una risposta”. Immediata la replica di Giovanardi, nemico storico della Bertolini: “Indegno criminalizzare chi è nato in alcune province del Meridione”.
Scendendo lungo la via Emilia fino al punto più a est c’è Rimini, dove Gioenzo Renzi, ex consigliere regionale, ex Alleanza nazionale ed ex candidato sindaco sconfitto alle elezioni di maggio, denuncia “iscrizioni triplicate” in provincia: da 901 del 2010 a 2.386 del 2011 in un mese. “Non solo – spiega Renzi – dei 901, ben 338 non hanno rinnovato ala tessera. Gli iscritti ex novo, cioè mai visti prima, nel 2011 sono stati 1.823”. Renzi porta dei casi emblematici dai centri della Riviera: “A Bellaria si è passati da 69 a 220, ma di quei 69, 33 non hanno rinnovato. Dunque – conclude l’ex candidato sindaco – ci sono 187 iscritti ex novo. Stesso discorso a Riccione”.
L’accusa al gruppo dirigente provinciale, guidato da Marco Lombardi, è molto pesante: “Mi sembra che a molta gente quello che interessa siano i pacchetti delle tessere, non il dibattito interno. Noi non siamo andati a destra e a manca a cercare gente che magari si vede solo un giorno al congresso. Oggi – prosegue Renzi – non è individuabile nemmeno chi fa le tessere: una volta invece servivano due persone per presentarlo”.
Il consigliere regionale Lombardi, coordinatore uscente e sostenitore del candidato ciellinoFabrizio Miserocchi, replica. “È fisiologico l’aumento degli iscritti prima di un congresso. Io stesso negli anni precedenti non andavo alla ricerca di iscritti, quest’anno sì”. E i risultati si notano, si potrebbe aggiungere. “Ci sono tre ex An che fanno 250 iscritti a testa, poi una componente di Cl che ne fa circa 300. Io e l’onorevole Sergio Pizzolante facciamo il resto”. Cioè quasi 1.500 tessere, facendo due conti.
Ma come ci iscrive al Pdl? Via internet o con un modulo cartaceo spedito a Roma. Ogni iscrizione ha un suo singolo bollettino di pagamento (10 euro l’iscrizione per il solo voto attivo, con 50 euro si può anche essere eletti a una carica) con allegata fotocopia del documento d’identità.
Lombardi allontana qualunque insinuazione di iscrizioni fasulle: “Stanno venendo fuori robe di questo genere in giro per l’Italia, proprio per questo non mi va di essere accomunato a cose poco chiare . Io garantisco su tutti i 2.500 iscritti, ci metto la mano sul fuoco”.
Ad ogni modo il tenace Gioenzo Renzi chiede che almeno vengano inviate delle lettere di convocazione a casa di ogni iscritto per invitarlo al prossimo congresso del 26 febbraio.
Una procedura simile a quella già adottata a Bologna. Anche nel capoluogo tuttavia non è mancata qualche ombra sul tesseramento, segnalata dal vice-coordinatore cittadino e consigliere regionale, Galeazzo Bignami. Proprio per questo sono partite le buste, iscritto per iscritto. “Si tratta di qualche decina di imprecisioni su un totale di 2.800 iscritti regolari – spiega – sarei sorpreso se gli errori superassero l’1 %”.
Per sgombrare il campo dai sospetti il consigliere regionale ha preferito quindi verificare le iscrizioni del capoluogo una a una, facendo inviare ai tesserati una lettera di conferma. “Li abbiamo contattati per essere sicuri che non ci fossero irregolarità, e nel momento in cui abbiamo individuato tessere-fantasma non rivendicate, l’abbiamo segnalato a Roma”.
Nella procedura di adesione ci possono essere delle insidie. Il documento d’identità da allegare può essere presentato anche successivamente, a eccezione degli ex iscritti ad An e Forza Italia, che sono esentati. In alcune liste preparate per i prossimi congressi, per esempio, sono stati rintracciati nomi di ex-iscritti, nonostante non avessero mai rinnovato la tessera. “Questi sono banali errori del sistema informatico che aveva bisogno di essere aggiornato, ma a Bologna ci sono stati anche diversi casi di omonimie. Ad ogni modo correggeranno a Roma”.
Insomma, anche per Bignami qualcosa non torna, ma di certo il consigliere si tiene ben distante dai colleghi di partito di Rimini e Modena, anche perché sotto le Due torri un’esplosione di iscrizioni non c’è stata, anzi. Se erano 3 mila nel 2010, sono 2.800 oggi. “Giusto tenere alta l’attenzione, ma se qualcuno pensa che ci siano rischi d’infiltrazioni vada in Procura”.
Sulla stessa linea il coordinatore regionale, Filippo Berselli. Per lui le accuse sono “balle senza fondamento”. Secondo il senatore, chi semina sospetti lo fa perché ha bisogno di mascherare la realtà. Un gesto dettato dalla disperazione, insomma: “Sia Renzi sia Bertolini sanno di non avere speranze ai congressi provinciali, per questo ora cercano giustificazioni. Ma se hanno elementi concreti facciano delle denunce direttamente alla magistratura”. Da Roma un altro deputato influente, il bolognese Giuliano Cazzola, chiede comunque di tenere gli occhi aperti e invita il centro, cioè Roma, ad adottare “procedure più severe ”.
Questo è il Pdl in Regione. Ora con lo scioglimento delle nevi che ricoprono la regione da est a ovest, quello che rimarrà a terra dopo i congressi e i veleni da esercito ormai senza guida, potrebbe essere il vecchio contenitore del partito di plastica berlusconiano.
di Giulia Zaccariello e David Marceddu
Truffa aggravata per quel volo di Stato “Artifici e i raggiri” dell’ex ministro Calderoli. - di Pierluigi Giordano Cardone
Secondo i pm di Roma il 19 gennaio 2011, il senatore leghista ha usufruito di un velivolo della Repubblica italiana per motivi personali: andare in ospedale a trovare il figlio della compagna. La giunta ha però respinto l'autorizzazione a procedre. Un no sul quale dovrà esprimersi palazzo Madama.
“Artifici e raggiri” per andare e tornare in giornata da Roma a Cuneo su un aereo di Stato. I pm della Procura di Roma e il Tribunale dei ministri non hanno dubbi: il 19 gennaio 2011, l’allora ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli, ha usufruito di un velivolo della Repubblica italiana per motivi del tutto personali: doveva andare in ospedale a trovare il figlio della compagna, ricoverato dopo un incidente stradale. Non solo. Al fine di ottenere l’autorizzazione dalla Presidenza del Consiglio (i ministri non possono usufruire di voli di Stato se non tramite “richiesta altamente motivata”) ha ingannato i funzionari e, di conseguenza, il sottosegretario Gianni Letta. Come? Con “artifici e raggiri”, visto che per motivare la richiesta ha parlato di imprecisati impegni istituzionali. Per questo motivo, l’esponente leghista è indagato con l’accusa di truffa aggravata dai pm capitolini, i quali a fine dicembre hanno inviato una richiesta di autorizzazione a procedere al Tribunale dei ministri.
Che si è mosso in proprio: ha ricevuto una memoria difensiva dall’accusato, ha fatto indagini e alla fine ha dato ragione alla tesi dei pm. Iter d’obbligo: il faldone sull’autorizzazione a procedere è passato alla competente Giunta del Senato. Quest’ultima si è riunita il due febbraio scorso per esaminare la ‘pratica-Calderoli’ e, a maggioranza, ha deciso di respingere la richiesta dei pm e di condividere le motivazioni fornite dall’ex componente del governo Berlusconi. Insomma, gli hanno creduto. Per i componenti della Giunta, infatti, il volo Roma-Cuneo (e ritorno) era motivato da “comprovate e inderogabili esigenze di trasferimento connesse all’esercizio di funzioni istituzionali”, ovvero quanto dichiarato dallo stesso Calderoli pur di ricevere l’autorizzazione.
La richiesta della Procura ora passerà all’aula di Palazzo Madama, che dovrà esprimersi sulla proposta di negare l’autorizzazione a procedere ratificata dalla Giunta. Intanto la questione resta aperta e fa discutere. Non solo per le implicazioni di carattere penale (secondo gli inquirenti il danno per le casse dello Stato ammonta a poco più di diecimila euro), ma anche e soprattutto per il comportamento tenuto da Roberto Calderoli durante tutta la vicenda. Un comportamento ricostruito con dovizia di particolari dagli inquirenti e contenuto nella richiesta di autorizzazione a procedere che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare.
Tutto ha origine da un esposto presentato il 4 aprile 2011 alla Procura della Repubblica di Cuneo da Fabio Biolè, consigliere regionale del Movimento 5 Stelle, che aveva avuto notizia dell’uso improprio del volo di Stato da parte di Calderoli. La denuncia è stata trasmessa per competenza alla Procura di Saluzzo, che a sua volta l’ha girata a quella di Roma per poi finire al Tribunale dei ministri. Che a questo punto ha deciso di indagare, avvalendosi della collaborazione di due agenti di polizia.
Secondo la ricostruzione dei fatti, il 19 gennaio 2011 Calderoli “disceso dall’aereo di Stato atterrato all’aeroporto di Levaldigi, dapprima si è recato a Cuneo, in via […] dove si è incontrato con la signora Gianna Gancia (compagna di Calderoli e presidente della Provincia di Cuneo, ndr). Quindi il Calderoli e la signora Gancia sono entrati in un’abitazione privata, all’interno di un immobile sul cui citofono non sono presenti denominazioni di uffici pubblici. I medesimi, usciti insieme dopo circa un’ora dalla predetta abitazione, si sono recati in ospedale”. “Dopo circa un’ora” Calderoli è uscito per recarsi “nuovamente in aeroporto, dove è salito sullo stesso aereo con il quale era precedentemente atterrato”.
Da questa cronologia della visita ‘istituzionale’, i magistrati traggono una tesi ben precisa: “I predetti elementi di fatto, complessivamente valutati, non integrano esigenze connesse alle funzioni istituzionali del ministro Calderoli, ma evidenziano invece finalità strettamente legate alla vita privata del medesimo”, anche perché “non può attribuirsi rilievo al fatto che il Ministro Calderoli, come affermato nella propria memoria, avesse impegni istituzionali il giorno precedente e nel pomeriggio dello stesso 19 gennaio 2011 (impegni comunque esclusi dalla relazione dell’ispettore capo)”. E sì, perché l’ex ministro della Semplificazione nella sua tesi difensiva aveva cercato di rispedire al mittente le accuse: in un primo momento Calderoli aveva giustificato la necessità del volo di Stato con l’urgenza di far visita in ospedale al figlio della compagna (ricoverato in prognosi riservata per un incidente stradale). Successivamente, però, l’esponente leghista ha modificato versione: era volato a Cuneo su un velivolo della Repubblica perché si è dovuto occupare della situazione finanziaria della Provincia guidata dalla sua compagna e che la sua visita in ospedale era solo una ‘deviazione’ sul programma di lavoro, che prevedeva impegni istituzionali prima e dopo la capatina in ospedale.
A questo punto, a chi gli faceva notare che durante la ‘missione’ non si era recato in nessun ufficio pubblico, Calderoli ha spiegato che le sue funzione politiche le aveva esercitate in un’abitazione privata, giustificando l’utilizzo dell’aereo di Stato perché doveva far rientro immediatamente a Roma per partecipare ai lavori della Commissione sul federalismo. Per gli inquirenti, però, non c’era nessun impegno istituzionale né alcuna riunione di organismi parlamentari. E a chi gli chiedeva perché non avesse raggiunto Torino per prendere un volo di linea e fare rientro a Roma senza gravare sulle casse dello Stato, Calderoli si è giustificato dicendo che da Cuneo al capoluogo piemontese non c’è autostrada e che quindi sarebbe stato problematico salire su un volo per comuni mortali.
Tutte spiegazioni che il Tribunale dei ministri non ha accolto, a differenza di quanto fatto dai membri della Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato. Per i pm, infatti, l’ex ministro ha gabbato i funzionari della Presidenza del Consiglio, giustificando la sua richiesta con “comprovate e inderogabili esigenze di trasferimento connesse all’esercizio di funzioni istituzionali”. E’ proprio questa frase a mettere nei guai Calderoli. “Tale affermazione – hanno scritto i pm – volta ad indurre in errore i funzionari competenti in ordine alla sussistenza dei presupposti per il rilascio dell’autorizzazione all’uso dell’aereo di Stato, era altresì idonea ad orientare la conseguente determinazione”. E infatti i dipendenti della Presidenza del Consiglio hanno creduto alla motivazione della richiesta e “nella certezza della veridicità dell’affermazione, in quanto proveniente da fonte qualificata riconducibile al Ministro (il suo capo di gabinetto, ndr), non hanno richiesto chiarimenti ed hanno concesso l’autorizzazione”. Da qui il capo d’imputazione: truffa aggravata nei confronti dei funzionari statali “perché sussistono gli estremi degli artifici e raggiri idonei ad indurre in errore”. Non sussistono, invece, le accuse di peculato e abuso d’ufficio perché Calderoli, in quanto componente del governo, non aveva diritto al volo di Stato, destinato solo agli spostamenti del presidente della Repubblica, del Consiglio, di Camera e Senato. Anche dei ministri, in realtà, ma solo in presenza di “richiesta altamente motivata”. E non è il caso di Calderoli. Tutto chiaro, tutto documentato. Per molti, tranne che per la maggioranza della Giunta per le autorizzazioni a procedere.
Le Avventure di un Turista inglese in Italia (M.Travaglio a Servizio Pubblico 12 gennaio 2012)
http://www.ilfattoquotidiano.it
Servizio Pubblico tredicesima puntata del 9 febbraio 2012 - L'Uscita di Sicurezza.In questo video Marco Travaglio e il suo editoriale: Immaginiamo un turista inglese che visita l'Italia. Arriva a Fiumicino e, leggendo i giornali, scopre che c'è un partito chiamato "Margherita" che ogni tanto si fa vivo per prendersi dei soldi e che il Parlamento italiano è il rifugio ideale per i ladri. In una Roma innevata incontra il curioso sindaco della capitale travestito da Pisolo - con tanto di cappello di lana. E inoltre: il mito del posto fisso (che è solo per i figli ed i parenti dei ministri), i processi infiniti a Berlusconi... Tutte le contraddizioni del nostro Paese viste con gli occhi di chi ci guarda da fuori. Ospiti in studio, l'ex ministro Tremonti, lo storico leader no global Casarini e il direttore di Rcs libri Mieli. Inoltre Emanuele Ferragina, ricercatore di Oxford. Marco Travaglio, Vauro e Giulia Innocenzi.
http://www.youtube.com/watch?v=GjTJPQFWC38
L'Fbi spiava Jobs: "Drogato e disonesto"
Reso pubblico un dossier di 200 pagine: Bush senior lo volevo in uno staff governativo.
23:22 - L'Fbi aveva un dossier su Steve Jobs. L'indagine sul co-fondatore della Apple risale al 1991, quando il nome di Jobs era stato preso in considerazione dall'allora presidente George Bush senior, per far parte del President's Export Council, il comitato di consulenza sul commercio estero.
Come riferisce il Wall Street Journal, l'Fbi ha ora reso pubblici gli incartamenti, dai quali emerge l'intenzione dell'Federal Bureau of Investigation di capire se Jobs facesse uso di alcol o droghe. Una circostanza, quest'ultima, verificatasi in età giovanile e ammessa pubblicamente dallo stesso Jobs.
Nel dossier, compilato per raccogliere informazioni sul numero uno della Apple in vista della eventuale nomina presidenziale, sono presenti varie interviste con persone che avevano frequentato Jobs. Una fonte dell'Ibm riferì agli agenti federali di non aver "mai assistito ad alcun uso illegale di droghe o abuso di alcol da parte di Jobs" che "sembra vivere in linea con i propri mezzi finanziari" e non aver mai assunto "atteggiamenti stravaganti".
Uno stile di vita confermato anche da una fonte femminile anonima che riferì che Jobs "si limitava a bere un po' di vino e non faceva uso di stupefacenti". "Tra la fine degli anni '60 e i primi anni '70 - si legge nel rapporto dell'Fbi - Jobs potrebbe aver sperimentato l'uso di droghe illegali, in quanto figlio di quella generazione", mentre un'altra fonte riferì di essere a conoscenza del fatto che Jobs, negli anni del college, fece uso di marijuana e Lsd.
Nel dossier c'è poi una sezione dedicata alla "personalita'" di Jobs. Due persone all'epoca a lui vicine riferirono che il fondatore della Apple era "un uomo dalla forte volontà, un grande lavoratore, molto motivato", ritenendo queste "le ragioni del suo grande successo". Un'altra, una donna, si rifiutò di rispondere alle domande degli agenti, spiegando che aveva avuto con lui "discussioni riguardanti la sua etica e moralita'".
Non manca, tra gli intervistati, chi parla di Jobs come di una personalità "fondamentalmente onesta e degna di fiducia", ma "complessa". Questa fonte, di Palo Alto, in California, che si definiva un "ex buon amico" di Jobs, conosciuto mentre stava "avviando" un'azienda non specificata, spiega che Jobs "si alienò molte persone alla Apple a causa della sua ambizione". Un'altra fonte riferì invece che Jobs aaveva avuto un "cambiamento di filosofia entrando in contatto con la religione e il misticismo indiani" e che questo contatto mostrava di aver cambiato "in meglio" la sua vita.
Gianni Dragoni: il premio di Marchionne (Servizio Pubblico 9 febbraio 2012)
http://www.ilfattoquotidiano.it
Servizio Pubblico tredicesima puntata del 9 febbraio 2012 - L'Uscita di Sicurezza. In questo video: I dipendenti della Fiat hanno ricevuto la prima busta paga in base all'accordo di Pomigliano. La Fiom calcola per un operaio di 3° livello l'aumento è di circa 17 centesimi in più per ogni giorno. Il premio di Marchionne (oltre 50 milioni di Euro) è più alto del dividendo che la Fiat pagherà ai soci e si aggiungerà allo stipendio di 400 mila euro al mese. Per pagare le tasse su questo premio Marchionne ha rivenduto in borsa le azioni gratuite che aveva ricevuto. Essendo un residente in Svizzera, però, paga meno tasse dei suoi dipendenti. La Fiat produce meno auto in Italia e sta guadagnando di più in America. Si dice che Marchionne abbia salvato la Chrysler... salverà anche la Fiat?
http://www.youtube.com/watch?v=kAWBWDqSFq4
giovedì 9 febbraio 2012
Se la Fornero facesse l’operaia. - di Alessandro Robecchi.
Scene di lotta di classe ai tempi della crisi e della “monotonia” del posto fisso?
Randellate a colpi di curricula spessi come le Pagine Gialle?
Si sta trasformando in questo, lentamente ma inesorabilmente, la piccola polemica sul caso di Silvia Deaglio, figlia della ministra Fornero, docente universitaria (medicina) nella stessa università (Torino) dove insegnano papà (economia) e mammà (pure).
Dalla rete sale la solita furente indignazione, dai piani alti della società e dei giornali piovono nobili difese: una spaccatura rivelatrice. La dottoressa Deaglio se ne tira fuori con una certa eleganza (“Per me parla il mio curriculum”, Corriere della Sera), ma l’impressione è che non basti. Mai come in questa occasione sembra di assistere a un dialogo con due lingue diverse: da una parte chi brandisce l’invidiabile curriculum della dottoressa Deaglio in difesa del famoso “merito”; dall’altra chi dice che non è questione di talento ma di opportunità e di “partire tutti da uguali posizioni”. In più, va notato, se mammà non stesse picconando i diritti di molti sottoforma di articolo 18 e se un’altra ministra, la signora Cancellieri, non avesse ironizzato sui giovani che “vogliono il lavoro vicino a papà e mamma”, probabilmente nessuno ne parlerebbe: le università in cui pullulano cognomi uguali sono un classico italiano.
Ma qui c’è di più. C’è sullo sfondo, bloggante e twitterante, una comunità dolente che vede ancora una volta consegnato un premio di maggioranza alle solite nomenclature, convinta di venir scippata di opportunità per la sola colpa di non avere il cognome giusto. Una plebe sapiente che vede accanto a sé corsie preferenziali per i soliti noti e che si sente ferma nel traffico, a passo d’uomo, in fila indiana, mentre altri sfrecciano con il lampeggiante e la sirena. Ed ecco gli strali, anche scomposti, dettati da indignazione, contro la dottoressa Deaglio.
Ma il caso personale, il caso specifico, come sempre è fuorviante. Non si tratta qui di decidere se la dottoressa Silvia Deaglio abbia i titoli (e li ha) per ricoprire il suo incarico e per occupare il suo “monotono” posto fisso. Piuttosto si tratta di chiedere se tutti coloro che hanno lo stesso talento e le stesse capacità abbiano avuto le stesse possibilità. In sostanza, dunque, non della dottoressa Deaglio si parla, ma di tutti i possibili dottori e dottoresse che fin lì non sono potuti arrivare per questioni di ceto, cognome, appartenenza dinastica o estrazione sociale. Su questo sì, la dottoressa Deaglio potrebbe dire qualcosa: conoscerà certamente la situazione dell’università italiana e potrebbe senz’altro argomentare su tanti lavoratori del sapere che il posto fisso non ce l’hanno e forse non l’avranno mai, anche con ottimi curricula.
E la lotta di classe, direte voi, che c’azzecca? Ma sì che c’azzecca. Perché a ben vedere la figlia dei due docenti universitari (uno dei quali ministro) che fa la docente universitaria non è una notizia, esattamente come il cane che morde l’uomo. Se si scovasse in qualche anfratto del Paese, in qualche provincia remota, in qualche sottoscala umido e male areato un figlio di ministro che lavora in un call-center, con contrattini variabili e poverissimi, ricattabile e precario, impossibilitato a chiedere un mutuo (ma figurati!) o a fare dei figli (miraggio!), allora sì che sarebbe una notizia. Allora sì che avremmo l’uomo che morde il cane, con conseguente scoop e giusto stupore. Questa è la vera questione politica, che merita di essere girata non alla dottoressa Deaglio, ma alla mamma ministro del Lavoro.
Rimbalza sui blog (nel partito dei difensori) la notizia che la dottoressa Fornero, ministro del Lavoro, è figlia di un ferroviere, e che nonostante questo è arrivata fin lì, addirittura a sedere nel governo, mirabile esempio di giustizia sociale interclassista. Ottima notazione: negli anni Sessanta e Settanta (Fornero è del ’48) ciò era possibile. Era ancora possibile. La domanda a cui bisognerebbe rispondere – e a cui il ministro del Lavoro dovrebbe rispondere per prima – è: oggi è ancora così? Con una forbice tra ricchi e poveri sempre più larga, con un Paese che sta ai primi posti per diseguaglianza economica nel mondo, può succedere ancora? E quando ai ceti medi e bassi verranno tolte alcune garanzie di sicurezza come il ministro Fornero si appresta a fare, sarà ancora possibile far funzionare l’ascensore sociale come ha funzionato nel suo caso? Come si vede, i curricula spessi come le Pagine Gialle c’entrano sempre meno, si perdono sullo sfondo. Mentre l’esistenza di una questione “di classe” (che parole antiche!) prende la scena e conquista il primo piano. Ciò che ieri era possibile, oggi sembra inarrivabile. E’ questo che ci dice un piccolo “caso” come quello di Silvia Deaglio e di mamma Fornero, è questa la luna che il dito della rete ha indicato. Certo, come al solito, guardare il dito – un poderoso e meritatissimo curriculum – è più comodo, fa fine e non impegna.
http://www.alessandrorobecchi.it/index.php/201202/se-la-fornero-facesse-loperaia/
Randellate a colpi di curricula spessi come le Pagine Gialle?
Si sta trasformando in questo, lentamente ma inesorabilmente, la piccola polemica sul caso di Silvia Deaglio, figlia della ministra Fornero, docente universitaria (medicina) nella stessa università (Torino) dove insegnano papà (economia) e mammà (pure).
Dalla rete sale la solita furente indignazione, dai piani alti della società e dei giornali piovono nobili difese: una spaccatura rivelatrice. La dottoressa Deaglio se ne tira fuori con una certa eleganza (“Per me parla il mio curriculum”, Corriere della Sera), ma l’impressione è che non basti. Mai come in questa occasione sembra di assistere a un dialogo con due lingue diverse: da una parte chi brandisce l’invidiabile curriculum della dottoressa Deaglio in difesa del famoso “merito”; dall’altra chi dice che non è questione di talento ma di opportunità e di “partire tutti da uguali posizioni”. In più, va notato, se mammà non stesse picconando i diritti di molti sottoforma di articolo 18 e se un’altra ministra, la signora Cancellieri, non avesse ironizzato sui giovani che “vogliono il lavoro vicino a papà e mamma”, probabilmente nessuno ne parlerebbe: le università in cui pullulano cognomi uguali sono un classico italiano.
Ma qui c’è di più. C’è sullo sfondo, bloggante e twitterante, una comunità dolente che vede ancora una volta consegnato un premio di maggioranza alle solite nomenclature, convinta di venir scippata di opportunità per la sola colpa di non avere il cognome giusto. Una plebe sapiente che vede accanto a sé corsie preferenziali per i soliti noti e che si sente ferma nel traffico, a passo d’uomo, in fila indiana, mentre altri sfrecciano con il lampeggiante e la sirena. Ed ecco gli strali, anche scomposti, dettati da indignazione, contro la dottoressa Deaglio.
Ma il caso personale, il caso specifico, come sempre è fuorviante. Non si tratta qui di decidere se la dottoressa Silvia Deaglio abbia i titoli (e li ha) per ricoprire il suo incarico e per occupare il suo “monotono” posto fisso. Piuttosto si tratta di chiedere se tutti coloro che hanno lo stesso talento e le stesse capacità abbiano avuto le stesse possibilità. In sostanza, dunque, non della dottoressa Deaglio si parla, ma di tutti i possibili dottori e dottoresse che fin lì non sono potuti arrivare per questioni di ceto, cognome, appartenenza dinastica o estrazione sociale. Su questo sì, la dottoressa Deaglio potrebbe dire qualcosa: conoscerà certamente la situazione dell’università italiana e potrebbe senz’altro argomentare su tanti lavoratori del sapere che il posto fisso non ce l’hanno e forse non l’avranno mai, anche con ottimi curricula.
E la lotta di classe, direte voi, che c’azzecca? Ma sì che c’azzecca. Perché a ben vedere la figlia dei due docenti universitari (uno dei quali ministro) che fa la docente universitaria non è una notizia, esattamente come il cane che morde l’uomo. Se si scovasse in qualche anfratto del Paese, in qualche provincia remota, in qualche sottoscala umido e male areato un figlio di ministro che lavora in un call-center, con contrattini variabili e poverissimi, ricattabile e precario, impossibilitato a chiedere un mutuo (ma figurati!) o a fare dei figli (miraggio!), allora sì che sarebbe una notizia. Allora sì che avremmo l’uomo che morde il cane, con conseguente scoop e giusto stupore. Questa è la vera questione politica, che merita di essere girata non alla dottoressa Deaglio, ma alla mamma ministro del Lavoro.
Rimbalza sui blog (nel partito dei difensori) la notizia che la dottoressa Fornero, ministro del Lavoro, è figlia di un ferroviere, e che nonostante questo è arrivata fin lì, addirittura a sedere nel governo, mirabile esempio di giustizia sociale interclassista. Ottima notazione: negli anni Sessanta e Settanta (Fornero è del ’48) ciò era possibile. Era ancora possibile. La domanda a cui bisognerebbe rispondere – e a cui il ministro del Lavoro dovrebbe rispondere per prima – è: oggi è ancora così? Con una forbice tra ricchi e poveri sempre più larga, con un Paese che sta ai primi posti per diseguaglianza economica nel mondo, può succedere ancora? E quando ai ceti medi e bassi verranno tolte alcune garanzie di sicurezza come il ministro Fornero si appresta a fare, sarà ancora possibile far funzionare l’ascensore sociale come ha funzionato nel suo caso? Come si vede, i curricula spessi come le Pagine Gialle c’entrano sempre meno, si perdono sullo sfondo. Mentre l’esistenza di una questione “di classe” (che parole antiche!) prende la scena e conquista il primo piano. Ciò che ieri era possibile, oggi sembra inarrivabile. E’ questo che ci dice un piccolo “caso” come quello di Silvia Deaglio e di mamma Fornero, è questa la luna che il dito della rete ha indicato. Certo, come al solito, guardare il dito – un poderoso e meritatissimo curriculum – è più comodo, fa fine e non impegna.
http://www.alessandrorobecchi.it/index.php/201202/se-la-fornero-facesse-loperaia/
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