domenica 11 marzo 2012

Lusi, da Londra a Parigi fino alle Bahamas. Vacanze a cinque stelle a spese del partito. - di Rita Di Giovacchin


L'ex tesoriere della Margherita portava anche la famiglia: per andare ai Caraibi anticipò all'agenzia di viaggi 33mila euro. Rutelli: "Mai detto che vogliamo una restituzione parziale del maltolto. Noi vogliamo indietro l’intero maltolto".

L'ex tesoriere Luigi Lusi
Viaggi a New York, Londra, Malaga, Birmingham, Parigi, Venezia. Luigi Lusi, l’ex tesoriere, era un globe trotter, sempre con la famiglia al seguito e sempre in alberghi a cinque stelle. Il 20 marzo del 2011 all’Agenzia di viaggi Dolby Travel ha anticipato 33 mila euro per un viaggio alle Bahamas prenotato per il mese di agosto per lui e altri sei familiari. Il 20 marzo altri 20mila euro di anticipo, il 28 aprile altri 27 mila: alla fine questa vacanza è costata, alla Margherita s’intende, 80 mila euro. E il bilancio complessivo fornito dalla Dolby Travel ammonta a 218 mila euro e rotti.

Il senatore non badava a spese, due antipasti di pesce alla Rosetta, noto ristorante romano, sono costati 280 euro. Gli operai che hanno ristrutturato la villa di Genzano alloggiavano in un albergo pagato, sempre dalla Margherita, 1200 euro alla settimana. Per un week end da trascorrere a Sveti Stefan in Montenegro, dal 30 agosto al 4 settembre, aveva già anticipato 11.600 euro, poi per colpa della Finanziaria di Berlusconi, Lusi è stato costretto a rinunciare e ha addebitato all’ex partito una penale da 8.700 euro. Alla fine il bilancio è stato di 218.250 euro, almeno a quanto risulta dalle ricevute rilasciate dall’Agenzia di viaggi Dolby travel.

Alle allusioni, poco velate, sulle responsabilità degli ex compagni di partito nello sperpero del denaro pubblico, fatte dall’ex tesoriere Luigi Lusi durante “l’intervista rubata” trasmessa giovedì sera da Servizio pubblico di Michele Santoro, la risposta di Francesco Rutelli e della disciolta Margherita non si è fatta attendere.

Gli avvocati Titta Madia Alessandro Diddi hanno consegnato ieri ai pm Caperna e Pesci un’anticipazione dell’attesa superperizia affidata dall’ex partito al Kpmg, ufficio tra i più quotati nella revisione dei conti societari. Colpo su colpo. Le conclusioni annunciate dallo Studio K di fatto coincidono con quelle del nucleo tributario della Guardia di Finanza: tra il 2007 e il 2011 Lusi ha fatto sparire dal conto corrente 7975 – il polmone bancario dell’ex Margherita presso lo sportello della Bnl al Senato – 11 milioni attraverso il prelievo di contanti e di assegni di piccola e media entità a cifra tonda. Dall’analisi dei conti bancari emerge che in media l’ex tesoriere prelevava 30 mila euro al mese in contanti (che in quattro anni fanno 1 milione e 339.100 euro) somma che “mal si concilia con le esigenze di un partito con pochi dipendenti e teoricamente con poche operazioni di piccola tassa”. Sono tre i capitoli di spesa analizzati dal Kpmg da cui, come sottolineano i legali della parte offesa, emerge la vocazione “predatoria e la spregiudicatezza” del senatore Lusi, ormai non più indagato soltanto per appropriazione indebita, ma anche per “trasferimento fraudolento di beni provento di reato” che prevede fino a 12 anni di reclusione.

Ci sono anche falsificazioni: un rimborso spese da 8.200 euro si è trafsormato d’incanto in 28.200. Un quadro non troppo distante da quello offerto dal decreto di sequestro di una villa e dei cinque appartamenti di Capistrello che hanno coinvolto mezza famiglia: con lui sono sotto inchiesta la moglie Giovanna Petricone (“ricettazione, riciclaggio e trasferimento fraudolento»), il cognato Francesco Giuseppe Petricone («riciclaggio e trasferimento fraudolento”) come Micol D’Andrea, la nipote acquisita, che si è fatta intitolare la sontuosa villa di Genzano, pagata con il solito sistema degli assegni di piccolo taglio, tutti a cifra tonda per un milione e 250 mila euro. La lista dei “complici e presta-nomi” non si limita alla famiglia, nel decreto c’è un esplicito riferimento ad “altri”, commercialisti che curavano la contabilità delle società Ttt.

L’iniziativa degli avvocati Madia e Diddi apre un nuovo capitolo giudiziario. I legali della parte lesa chiedono alla procura di indagare anche sulle dichiarazioni fatte da Lusi a Servizio pubblico. Infuriato è apparso Rutelli: “Una cosa sia chiara, noi non abbiamo mai detto che vogliamo una restituzione parziale del maltolto. Noi vogliamo indietro l’intero maltolto. Quando si parla di patteggiamento riguarda una richiesta di Lusi”. L’ipotesi in effetti era stata avanzata dal difensore del tesoriere, l’avvocato Luca Petrucci che ieri ha presentato ricorso contro i sequestri disposti dai pm. Non si esclude neppure che Lusi venga nuovamente interrogato, e allora si capirà meglio se le sue premonizioni funeste si avvereranno: “Quando su di me sarà riversata altra merda… Se parlassi salterebbe il centrosinistra”.

Ieri, raggiunto da una nostra telefonata, si è limitato a dire: “Non dico nulla per carità, attenzione a notizie fatte filtrare. Alle Bahamas ci sono stato una volta soltanto anni fa, le cifre di cui mi parla sono iperboliche. Quanto all’agenzia Dolby è l’agenzia della Margherita”. L’ex boy scout ruggisce come un leone ferito. Degli 80 milioni incamerati in quattro anni, 20 sono ancora nella cassa Dl, 24 li avrebbe rubati Lusi (sugli ultimi quattro le indagini della Gdf sono a buon punto) ne mancano 36. Un pozzo di cui non si vede il fondo.

sabato 10 marzo 2012

Interno di edificio dell'architetto Michele Potito Giorgio.




La struttura di sostegno, sempre opera dell'architetto, è ispirata alle sculture del grande H. Moore.
Un insieme perfetto di spazio, luce, trasparenza ed arte ad altissimi livelli.


https://www.facebook.com/photo.php?fbid=3216788511881&set=a.2649667254204.127062.1631424268&type=1&theater&notif_t=photo_reply

Dell’Utri, sua onnipresenza. - di Peter Gomez



Filippo Alberto Rapisarda, l’amico del vecchio capo dei capi, Stefano Bontade, interruppe il suo discorso e, rivolgendosi al giovane cronista, chiese: “Ma lei conosce il dottor Dell’Utri?”. Subito dopo il discusso finanziere siciliano, con alle spalle una fedina penale alta qualche centimetro e una latitanza in Venezuela trascorsa alla corte dei boss Caruana-Cuntrera, si mise a urlare quasi a squarciagola: “Marcellino, Marcellino, Marcellino”. Fu così che Dell’Utri, versione 1989, entrò nella grande sala riunioni da una porticina nascosta tra gli stucchi. Guardò il giornalista e tendendogli la mano disse: “Io la leggo sempre, lei scrive molto bene. Ma sa… l’importante non è solo come si scrive. È importante soprattutto cosa si scrive”.

Ecco se si vuol raccontare davvero chi è Marcello Dell’Utri e la sua quasi infallibile capacità di avere rapporti con le persone sbagliate nel momento sbagliato, si può benissimo partire da qui. Dal palazzo di Rapisarda in via Chiaravalle a Milano, che Dell’Utri riprende a frequentare a partire dal 1988, dopo averci lavorato e vissuto sul finire degli anni Settanta, quando per quasi quattro anni si era allontanato da Silvio Berlusconi.

Un ritorno strano il suo. Ambiguo e carico di misteri, come è stata ambigua e carica di misteri la sua vita, destinata a farlo incappare, come testimone o indagato, in inchieste giudiziarie di ogni tipo: dalle stragi, alla P4, dalla corruzione, ai furbetti del quartierino, dalla frode fiscale, alla mafia e alla ‘ndrangheta. A fargli vestire, al di là dell’esito dei processi, i panni dell’'uomo nero della Seconda Repubblica.

Dell’Utri torna a calcare i pavimenti di via Chiaravalle che, secondo i testimoni, erano stati calpestati da uomini d’onore del calibro di Ugo Martello, Pippo Bono, Vittorio Mangano e, forse, Vito Ciancimino, pochi mesi dopo un esplosivo interrogatorio di Rapisarda. Un lungo verbale del luglio del 1987 in cui il finanziere, in quel momento accusato di bancarotta e mafia (sarà poi prosciolto), sostiene di averlo assunto nelle sue aziende nel 1978, dietro i pressanti consigli di Bontade, del costruttore mafioso Mimmo Teresi e di un loro parente acquisito, Gaetano Cinà, il proprietario di una piccola lavanderia palermitana. “Era molto difficile dire di no a Cinà” ricorda davanti a un magistrato Rapisarda, che poi aggiunge un carico da novanta. Dice di aver un giorno incontrato per caso Bontade e Teresi in piazza Castello a Milano. I due boss, afferma, gli avrebbero domandato un consiglio: “Berlusconi ci ha chiesto 20 miliardi di lire per diventare soci nelle sue televisioni. Secondo te è un buon affare?”.

Dell’Utri non presenta denuncia per calunnia. Incassa, tace e dopo anni di cattivi rapporti, fa la pace con il suo accusatore. Torna a frequentarlo, mentre sua moglie, Miranda Ratti, tiene a battesimo una figlia di Rapisarda. Nel 1992 a chi gli chiederà il perché di questo singolare atteggiamento, risponderà citando un proverbio siciliano: “Non si può tirare un sasso a ogni cane che abbaia”.

Smussare, mediare, alzare la voce solo quando è strettamente necessario, usare spesso frasi e detti della tradizione palermitana, è del resto una caratteristica di Dell’Utri. Così nel 1991, eccolo mentre dice al senatore repubblicano Vincenzo Garraffa, deciso a non versare una grossa somma in nero a Publitalia: “Abbiamo uomini e mezzi per convincerla a pagare”. Poche parole a cui seguirà un incontro tra Garraffa e un boss trapanese che chiede al parlamentare lumi sui problemi insorti “con l’amico Marcello”. Cinque anni dopo ancora una frase destinata, nel suo piccolo, a diventare celebre. Dell’Utri è appena stato ascoltato per 17 ore dalla procura di Palermo che lo accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Uno dei suoi problemi è il legame antico con il boss Mangano, in quel momento detenuto al 41 bis. Ma lui affronta i giornalisti con piglio sicuro: “Mangano? Se fosse libero ci prenderei un caffè”. Poi quando Piero Chiambretti gli chiede “esiste la mafia?”, sorride: “Le risponderò con una frase di Luciano Liggio: se esiste l’antimafia, esisterà anche la mafia”.

Insomma quando è in pubblico Dell’Utri dà l’impressione di fare di tutto per mostrarsi a proprio agio nei panni nei dell’uomo nero. E in privato addirittura raddoppia. Nel 2007, mentre il suo processo a Palermo è in corso, intercettando due uomini legati alla cosca Piromalli Molè i carabinieri scoprono che parlano con Dell’Utri, chiedendo aiuti per gli affari e promettendo voti. Intanto l’ex big boss della Banca di Lodi, Gianpiero Fiorani, racconta di avergli versato 100.000 in contanti, attraverso un altro senatore, per ottenere appoggi per la sua banca. Mentre la sorella di un capomafia siciliano latitante in Sud Africa gli telefona proponendogli un incontro. Dell’Utri non si nega. Ha una buona parola per tutti. E continua a far politica e business. Che poi per lui sono una cosa sola. Così nel 2009 di nuovo i carabinieri fotografano una riunione di lavoro. Intorno a un tavolo ci sono lui, il faccendiere Flavio Carboni e due esponenti dell’organizzazione poi ribattezzata P4: Arcangelo Martino e Pasquale Lombardi. Con loro si discute di soldi e di giustizia. Ci sono appalti legati all’energia eolica da concludere e, secondo, l’accusa nomine al Csm da pilotare, giudici della Corte costituzionale e di Cassazione, da avvicinare.

Perché la linea della palma, come diceva Leonardo Sciascia, sale di un metro all’anno. Ormai ha superato abbondantemente Roma. E Dell’Utri, lo sa. Sciascia lo ha letto. Lui infatti è un uomo colto. Sul fatto.


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Mannino, “fuorionda” sulla trattativa: “Hanno capito tutto, stavolta ci fottono”. - di Sandra Amurri



In un bar di Roma, una cronista del "Fatto" ascolta un colloquio riservato tra l'ex ministro e l'europarlamentare Udc Gargani. "Massimo Ciancimino ha detto la verità". Nelle parole del politico siciliano, la preoccupazione che emerga il ruolo della sinistra Dc e di Ciriaco De Mita nelle pressioni per ammorbidire il carcere duro per i boss di Cosa nostra nel 1992-1993.


Calogero Mannino
Sono circa le 12,30 di mercoledì 21 dicembre quando arrivo alla pasticceria Giolitti in via degli Uffici del Vicario, a due passi da Piazza del Parlamento, dove ho appuntamento per ragioni di lavoro con l’onorevole Aldo Di Biagio di Fli. Entro, ma non lo vedo. La voglia di accendere una sigaretta supera anche il freddo pungente. Esco. Mi siedo a un tavolino e ordino un cappuccino. Sono sola.

Poco dopo vedo arrivare, a passo lento, l’onorevole Calogero Mannino in loden verde, in compagnia di un signore dai capelli bianchi, occhiali, cappotto scuro taglio impermeabile e in mano un libro e dei fogli. Non so chi sia. I due stanno parlando. E continuano a farlo fermandosi in piedi accanto al mio tavolo. Mannino, che mi dà le spalle, dice con tono preoccupato e guardandosi più volte intorno sospettoso: “Hai capito, questa volta ci fottono: dobbiamo dare tutti la stessa versione. Spiegalo a De Mita, se lo sentono a Palermo è perché hanno capito. E, quando va, deve dire anche lui la stessa cosa, perché questa volta ci fottono. Quel cretino di Ciancimino figlio ha detto tante cazzate, ma su di noi ha detto la verità. Hai capito? Quello… il padre… di noi sapeva tutto, lo sai no? Questa volta, se non siamo uniti, ci incastrano. Hanno capito tutto. Dobbiamo stare uniti e dare tutti la stessa versione”.

Il suo interlocutore annuisce con cenni del capo e ripete: “Certo, certo, stai tranquillo, non ti preoccupare, ci parlo io”. E Mannino ripete: “Fallo subito, è importante, mi raccomando”. Poi, avvicinandosi di più al signore coi capelli bianchi, gli sussurra all’orecchio parole che ovviamente mi sfuggono, ma che suscitano nell’interlocutore un’espressione di meraviglia. Subito dopo, i due si salutano, si abbracciano e si scambiano gli auguri di Natale. Mannino si dirige verso il Pantheon, mentre il signore occhialuto col cappotto scuro verso Piazza del Parlamento, dove poco dopo lo fotografo con il mio iPhone.

Subito dopo mi raggiunge l’onorevole Di Biagio. Il quale, vedendomi un po’ turbata, mi domanda cosa mi sia accaduto. Rispondo genericamente di aver ascoltato Mannino dire cose incredibili. Rientro in redazione nel primo pomeriggio e racconto per sommi capi quello che ho visto e sentito al direttore Antonio Padellaro e al vicedirettore Marco Travaglio. Quest’ultimo, quando gli mostro la foto scattata dal mio iPhone e gli chiedo se riconosca il signore occhialuto coi capelli bianchi, risponde sicuro : “Certo, è Giuseppe Gargani, ex democristiano, demitiano, poi berlusconiano”. Gargani è un ex Dc, ex Ppi, nominato commissario dell’Agcom dal governo dell’Ulivo, poi transitato in Forza Italia e di lì confluito nel Pdl, eletto europarlamentare, ultimamente fondatore di Europa Sud e da poco passato all’Udc di Casini. Alla luce di questa biografia, le parole che ho appena ascoltato diventano tante tessere che vanno a riempire una parte del mosaico.

Annoto quello strano episodio con le parole che ho ascoltato dalla viva voce di Mannino nel mio taccuino: un giorno questi appunti potrebbero tornare utili. Ci ripenso quando leggo che la Procura di Palermo, nel corso dell’indagine sulla trattativa Stato-mafia, è salita a Roma il 12 gennaio per sentire come testimone Ciriaco De Mita. Già so infatti quel che ha dichiarato a suo tempo Massimo Ciancimino: la trattativa fra gli uomini del Ros e suo padre Vito godeva di coperture politiche anche tra le file della sinistra Dc (la corrente, appunto, di De Mita e Mannino).

Mi riservo di approfondire e contestualizzare meglio. Intanto passa qualche altro giorno ed ecco accendersi definitivamente la lampadina quando, il 23 febbraio, le agenzie e i siti battono la notizia che Calogero Mannino, già assolto in Cassazione dopo un lungo e tortuoso processo per concorso esterno in associazione mafiosa, è di nuovo indagato a Palermo. Questa volta per il suo presunto coinvolgimento nella trattativa Stato-mafia. Il reato contestato è quello previsto dall’articolo 338 del Codice penale, aggravato dall’articolo 7 (cioè dall’intenzione di favorire Cosa Nostra): per “violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario”. Lo stesso che vede già indagati il generale ex Ros Mario Mori, l’ex capitano Giuseppe De Donno, il senatore Marcello Dell’Utri, i boss Totò Riina e Bernardo Provenzano. Approfondisco le ultime mosse dei magistrati e apprendo che durante l’interrogatorio c’è stato un duro scontro tra il pm Antonio Ingroia e Ciriaco De Mita.

Ingroia definisce Mannino, nel periodo che era oggetto dell’interrogatorio, ministro degli Interventi straordinari del Mezzogiorno, De Mita puntualizza: “Ministro dell’Agricoltura”. Ma il pm insiste. “E come fa a permettersi di insistere?”, sbotta De Mita. Il pm replica: “Perché ricordo, ricordo diversamente”. “Giudice – ribatte De Mita – se lei ha la presunzione della verità delle sue opinioni, io temo per gli imputati!”. Ad avere ragione è Ingroia: Mannino fu ministro dell’Agricoltura nel 1982 e ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno dal 12 aprile ‘91 al 28 giugno ‘92. Ma alla fine De Mita aveva dovuto ammettere di avere torto: “È grave, è grave per me…”.

Quanto al ruolo di Mannino, le cronache riferiscono che l’autista di Francesco Di Maggio (il magistrato promosso vent’anni fa vicedirettore del Dap e poi scomparso) ha rivelato ai pm di aver appreso dallo stesso Di Maggio che proprio Mannino fece pressioni affinché non venisse rinnovato il 41-bis ad alcuni mafiosi detenuti. Ecco di che cosa parlava Mannino con Gargani quel mattino poco prima di Natale. Ecco perché appariva così terrorizzato da possibili “voci stonate” sulla trattativa e interessato alla compattezza e all’uniformità delle versioni da parte di tutti gli “amici” della vecchia Dc. Ed ecco, ben chiare di fronte a me, le ultime tessere mancanti del mosaico di quell’episodio che temevo fosse destinato a restare confinato in qualche riga di appunti sul mio block notes.

Ne parlo con qualche mia fonte di ambiente investigativo e ben presto la scena cui ho assistito davanti al bar Giolitti giunge a conoscenza dei magistrati di Palermo. Vengo convocata dai pm Antonio IngroiaNino Di MatteoLia Sava e Paolo Guido che indagano sulla “trattativa” per essere ascoltata come persona informata sui fatti, cioè come testimone nel fascicolo sulla trattativa. Ovviamente accetto di raccontare tutto ciò che ho visto e sentito quel mattino. Dopo verranno subito sentiti i due politici protagonisti del colloquio da me casualmente ascoltato: cioè Mannino e Gargani.

Alla fine, al momento di firmare il verbale, i magistrati mi ricordano che le deposizioni dei testimoni sono coperte dal segreto investigativo. Obietto che sono una giornalista, oltreché la depositaria della notizia. Dunque, ultimate tutte le verifiche per contestualizzare il colloquio Mannino-Gargani, racconterò tutto anche ai lettori. Cosa che ho appena fatto.