lunedì 19 marzo 2012

Ventiquattro miliardi persi nei derivati, di chi è la colpa? - di Gianfranco Modolo



 

31 miliardi di dollari, circa 24 miliardi di euro al cambio attuale, che l’Italia ha perso dal 1994 ad oggi per errate manovre sui prodotti derivati (a tutto vantaggio di un ristretto manipolo di banche estere tra cui primeggia Morgan Stanley) non sono una cifra di poco conto. 24 miliardi di euro equivalgono a più di una delle tante manovre di aggiustamento dei conti pubblici che i governi di Silvio Berlusconi e di Mario Monti hanno propinato al paese nel tentativo di salvarlo da una situazione per molti versi simile a quella di altri paesi europei. Con 24 miliardi di euro si potrebbero ridurre tasse e accise sulla benzina, si potrebbero aumentare gli ammortizzatori sociali, si potrebbero assumere i 10.000 insegnanti precari che stanno sospesi, tanto per restare ai fatti più eclatanti. In questa vicenda sorprende il fatto che poca attenzione sia stata dedicata dai media e dalle forze politiche e sociali a chi dovrebbe assumersi la responsabilità del danno la cui entità riportata da Bloomberg, 24 miliardi di euro, non è stata sino ad oggi smentita. Chi nel lontano 1994 ha preso la decisione di affidarsi ai prodotti derivati, con le più lodevoli intenzioni, speriamo, portandoci ai risultati di cui sopra? Chi in questi 18 anni non ha fatto nulla per uscire da un contratto che si rivelava sempre più un salasso per le finanze nazionali?

Un breve ripasso della recente storia politica può chiarire un quadro che nessuno sembra intenzionato a rendere pubblico. Nel 1994, anno di stipula dell’accordo, i due governi che si alternano non sono certamente guidati da sprovveduti in materia di ingegneria finanziaria e conoscenze. Sino a maggio troviamo ai vertici dell’esecutivo l’ex governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi, mentre il ministero del Tesoro, è  guidato da Piero Barucci, banchiere fiorentino. Sotto il suo controllo si trovano l’immensa massa dei Bot e degli altri titoli di Stato che generano il debito pubblico nazionale, nonché il rapporto con la Banca d’Italia per la gestione della lira, ancora in tensione dopo la tempesta dei cambi. Non dimentichiamo infine che  nel 1994 alla direzione generale del Tesoro, guidata da Mario Draghi (poi governatore di Bankitalia e quindi di BCE), troviamo l’attuale vice ministro delle finanze Vittorio Grilli, in qualità di capo della commissione per le analisi finanziarie e le privatizzazioni. Insomma, governo e ministero del Tesoro sono in mano a persone competenti.

A maggio arriva a palazzo Chigi Silvio Berlusconi, appena sceso in campo, e con grande successo. Forse Berlusconi se ne intende più di immobili, di Tv commerciali e di supermercati, ma il Tesoro è retto da Lamberto Dini, brillante economista fiorentino, fino ad un anno prima direttore generale di Bankitalia. Dini non è arrivato ai vertici di Via Nazionale perché il governatore Ciampi, scrivono le cronache dell’epoca, gli avrebbe preferito il vice Tommaso Padoa Schioppa. Si raggiunge  un compromesso tra Ciampi e il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, e in Via Nazionale arriva Antonio Fazio. Al fianco di Dini ci sono sempre Mario Draghi e Vittorio Grilli, mentre alle finanze troviamo Giulio Tremonti. Tutte teste fini, dunque.

Gli anni passano, il contratto con i derivati continua a macinare perdite ma il ministero del ministero del Tesoro, che poi viene conglobato con le finanze, non si muove. Ai vertici del ministero nell’ordine si susseguono nel 1995 Dini ad interim nel governo da lui stesso presieduto, Ciampi nel primo governo di Romano Prodi 1996-1998, Giuliano Amato nel governo D’Alema 1999-2000, quindi Tremonti nei tre governi Berlusconi sino al 2011 e Padoa Schioppa nel secondo governo Prodi 2 del 2006-2008.

Per concludere, non sono più di undici i personaggi che dovevano per forza essere al corrente del contratto con Morgan Stanley, o per averlo progettato o per averlo autorizzato: Ciampi, Barucci, Dini, Amato, Prodi,Tremonti, Berlusconi, Draghi, Grilli, D’Alema e Fazio. Sempre che qualche direttore generale del Tesoro non si sia mosso di propria iniziativa inguaiando i conti pubblici ad insaputa dei vertici. Ma gli undici appena indicati che facevano, non erano lì per controllare?

Scriveva ieri Repubblica: nei bilanci vige il principio dello scarafaggio, dove ne vedi uno ce ne sono tanti. Perché il governo non prende posizione in merito, non rivela la vera storia di questo contratto e non rende nota l’eventuale esistenza di altri contratti del genere? L’incertezza alimenta il sospetto nella comunità degli investitori italiani ed esteri. Aveva forse ragione l’analista di Wall Street che qualche mese fa ha accusato l’Italia di essersi comportata come la Grecia nell’imbellettare i conti pubblici? E perché Morgan Stanley nel disdettare il contratto (lo ha fatto la banca, che pure ha guadagnato non poco) afferma che sarebbe stato più oneroso per lei rinnovarlo che chiuderlo? Forse la banca teme che in futuro l’Italia non potrà far più fronte agli impegni? Gli italiani hanno fatto e sono pronti a fare altri sacrifici, ma almeno devono avere certezze. Sopratutto devono sapere che in questo frangente gli autori di scippi di penna (come chiamano a Napoli i buchi finanziari) devono essere chiamati a rispondere del loro operato. Nessuno escluso.


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Lombardia, l’assessore Romano La Russa indagato per finanziamento illecito al Pdl. -



Il fratello dell'ex ministro Ignazio è il decimo consigliere del Pirellone (su 80) a finire sotto inchiesta. La notizia emerge dall'avviso di chiusura dell'indagine sull'Aler, l'ente che gestisce le case popolari. Che vede coinvolto anche il genero Marco Osnato.


Romano La Russa, assessore regionale lombardo
Arrivano a quota dieci (su 80) i consiglieri indagati per vari reati in regione Lombardia. Mentre continuano le polemiche e le rivelazioni sul caso del leghista Davide Boni, accusato di corruzione, ora tocca a  Romano La Russa (fratello dell’ex ministro Ignazio), assessore alla Sicurezza nella giunta guidata da Roberto Formigoni.

La Russa, Pdl proveniente da An-Msi, è indagato per finanziamento illecito ai partiti nell’ambito dell’inchiesta sul caso Aler, l’ente regionale che gestisce le case popolari, coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dal sostituto Antonio Sangermano. E’ quanto emerge da un avviso di chiusura delle indagini recapitato a dodici persone da agenti del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Milano. Con La Russa è indagato il genero Marco Osnato, consigliere comunale nel capoluogo lombardo, anche lui del Pdl. Un avviso di chiusura indagini è stato notificato a un altro esponente del partito berlusconiano, Gianfranco Baldassarre, ex consigliere comunale milanese, oggi assessore nella vicina San Donato.

Nell’inchiesta Aler (l’Azienda lombarda edilizia residenziale) sono contestati a vario titolo i reati di turbativa d’asta, corruzione e illecito contributo elettorale. Due dirigenti  avrebbero eluso, in concorso con cinque service manager, “gare ad evidenza pubblica, operando il frazionamento degli affidamenti a diverse ditte”. Secondo la ricostruzione degli inquirenti Osnato, in concorso conLuigi Serati, responsabile della filiale di Legnano e coordinatore di tutte le filiali Aler della Provincia di Milano, avrebbe impartito disposizioni di frazionare gli appalti in modo da eludere la soglia comunitaria di 193.000 euro che avrebbe imposto gare di evidenza pubblica. In questo modo, tra il 2009 e il 2011 sarebbero stati affidati appalti diretti per il verde pubblico e la pulizia dei condomini per oltre due milioni di euro, con una considerevole lievitazione dei costi.

Secondo l’accusa, La Russa avrebbe ricevuto contributi elettorali illegali per le Regionali del 2010 e le Provinciali di Vercelli del 2011 - e Osnato per le Comunali milanesi del 2011 – da Luca Giuseppe Reale Ruffino, esponente dell’Udc passato poi al Pdl, ritenuto vicino ai fratelli La Russa e amministratore della Constructa srl service manager, in affari con l’Aler. Reale Ruffino, in particolare, avrebbe sostenuto per i due candidati “i costi per la stampa di manifesti  elettorali e dei cosiddetti ‘santini”, in violazione della legge sul finanziamento.

In totale la cifra del finanziamento illecito si aggirerebbe intorno ai 10.000 euro. Agli altri indagati, tra cui Anna Bubbico, dirigente responsabile della segreteria della presidenza Aler nonchè responsabile del settore Comunicazione, e alcuni service manager, sono state contestati a vario titolo i reati di turbativa d’asta e corruzione impropria. Questa ultima ipotesi è stata ipotizzata solo nei confronti della Bubbico in concorso con Andrea De Donno, rappresentante legale della Nsa Italia, il quale dopo aver ricevuto incarichi di “vigilanza e guardianìa” dall’Aler avrebbe ricambiato la dirigente con lavori di manutenzione all’impianto di allarme alla sua villa e operazioni di bonifica per l’eventuale rilevazione di microspie.

Ad Affaritaliani.it, Romano La Russa ha affermato di essere stato indagato per una vicenda relativa a “manifesti per la campagna elettorale della Provincia di Vercelli… una cosa da ridere”. Niente da preoccuparsi? “Per il momento no, però è il mio primo avviso di garanzia, devo ancora capire…”.

Il fratello dell’ex ministro della difesa Ignazio La Russa parla di interessamento “eccessivo” nei confronti della Giunta Regionale Lombarda. “Venuto meno l’obiettivo ‘romano’  tocca a noi…”, ha affermato La Russa.


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Blitz di Camorra, in carcere sedici giudici.






Sessanta ordinanza di custodia cautelare sono state emesse oggi dal tribunale di Napoli. E sequestri per un miliardo di euro. La holding campana operava in diversi settori. Le accuse vanno dal concorso esterno in associazione di stampo mafioso, al riciclaggio alla corruzione in atti giudiziari e al falso in atto pubblico.

Ci sono anche sedici giudici. Tra questi otto funzionari impiegati presso le Commissioni Tributarie Provinciale e Regionale di Napoli, un membro del Garante del Contribuente della Campania e un funzionario dell’Agenzia delle Entrate di Napoli. Oltre a loro anche diversi imprenditori e prestanome tutti in nome e per conto della camorra e del clan Fabbrocino egemone da sempre nella zona del nolano. Oltre un miliardo di euro sequestrati: centinai di beni non solo in Campania ma anche in Lombardia e direttamente nella città di Milano.

Dall’alba di oggi i militari del Comando provinciale di Napoli della Guardia di Finanza sono impegnati dall’alba di oggi nell’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare, chiesta e ottenuta dalla Direzione Distrettuale Antimafia partenopea, nei riguardi di 60 persone, 16 delle quali svolgono le funzioni di giudici tributari. Nell’inchiesta sono coinvolti esponenti del clan camorristico Fabbrocino, egemone nell’area vesuviana e nel nolano, in provincia di Napoli, funzionari e impiegati delle commissioni tributarie provinciale di Napoli e regionale per la Campania, un funzionario dell’Ufficio del Garante del Contribuente della Campania, un funzionario dell’Agenzia delle Entrate, un noto docente universitario e un commercialista.

Per alcuni indagati è stata disposta la detenzione in carcere, per altri la misura degli arresti domiciliari, per altri ancora il divieto di dimora a Napoli. Le Fiamme Gialle hanno, infine, sequestrato quote societarie, titoli azionari, fabbricati, conti correnti, terreni ed automobili per un valore di un miliardo di euro. Alle persone coinvolte nell’inchiesta, quasi tutte bloccate in Campania, solo alcune in Lombardia, sono contestati reati che vanno dal concorso esterno in associazione camorristica al riciclaggio, dalla corruzione in atti giudiziari al falso. L’inchiesta riguarda “affari” illeciti di esponenti di rilievo del clan Fabbrocino. Attraverso le indagini della Guardia di Finanza si è poi progressivamente allargata ad altre operazioni illecite, fino a coinvolgere imprenditori operanti nei settori della commercializzazione del ferro, della compravendita immobiliare e della gestione di alberghi ed ha infine chiamato in causa giudici tributari e funzionari pubblici. Inquirenti e finanzieri hanno, infatti, accertato che decine di contenziosi tributari sarebbero stati oggetto di episodi di corruzione e che in tal modo si sarebbero risolti in maniera favorevole ai ricorrenti, spesso in odore di camorra, con grave danno per le casse dello Stato.

domenica 18 marzo 2012

Berlusconi: “Paese ingovernabile, tutta colpa di Costituzione e architettura istituzionale”




L'uscita del leader del Pdl mentre lascia lo stadio di Parma dopo la partita del Milan: "E' difficile governare per tutti con la struttura istituzionale del nostro Stato".

All’ingresso dello stadio ha parlato solo di calcio. All’uscita non ha resistito alla tentazione, attaccando – e non per la prima volta – la Costituzione. Il leader del Popolo della LibertàSilvio Berlusconi dopo tempo è tornato  a seguire una gara del Milan in trasferta, a Parma. All’uscita, dopo aver visto vincere la propria squadra, i cronisti lo provocano: uno comeZlatan Ibrahimovic servirebbe al governoMonti che risolve tutto senza inutili riunioni? E Berlusconi ha risposto: “Con la Costituzione italiana, con l’architettura istituzionale del nostro Stato, questo Paese è per tutti ingovernabile”. I giornalisti a quel punto hanno chiesto anche un paragone tra Milan e Governo, ma l’ex presidente del Consiglio ha replicato: “Non si possono fare paragoni”.

Per Berlusconi è stata peraltro la prima trasferta dopo molto tempo: “Erano diciotto anni, forse venti anni – ha detto entrando allo stadio Tardini – che non venivo in trasferta. Mi preparo a fare il presidente”.

Ciancimino: "Farò il nome del signor Franco alla procura competente. Non morirò con questo segreto". - di Giorgio Bongiovanni e Silvia Cordella



 


A margine dell’udienza di stamane (Ciancimino: la difesa deposita una consulenza sull’esplosivo) Antimafia Duemila ha incontrato Massimo Ciancimino.
Dopo mesi da quando gli è stata ridotta la libertà con il carcere, concessi i domiciliari ed infine obbligato alla dimora a Palermo (previa autorizzazione può comunque muoversi oltre i confini siciliani) per l’accusa di detenzione illegale di esplosivo e calunnia aggravata nei confronti dell’attuale direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Gianni De Gennaro, questa è la sua prima apparizione pubblica ufficiale come imputato.
Gli chiediamo conto degli episodi che lo hanno visto perdere tragicamente quota sul fronte della fifducia agli occhi dell’opinione pubblica per circostanze ancora tutte da chiarire in merito all’esplosivo, alla lettera contraffatta che accusa De Gennaro di infedeltà e ai suoi legami con un commercialista indagato dalla Procura di Reggio Calabria poiché ritenuto collegato ai Piromalli. Tutte questioni più che aperte su cui i magistrati stanno indagando attraverso procedimenti separati.
Ciancimino articola il suo discorso partendo dai mesi trascorsi in carcere lo scorso anno segnalando un paradosso: protetto da detenuto e poi "mollato" da uomo libero.
Racconta che quando dalla sua cella si dirigeva nella stanza del vitto e poi in quella adibita a palestra lo accompagnavano incappucciato lungo il corridoio della prigione. L’isolamento sarebbe stato una precauzione usata dalla Polizia penitenziaria per proteggerlo da possibili ritorsioni mafiose all’interno dalla prigione palermitana Pagliarelli. Così come per i collaboratori di giustizia o per i grandi capimafia, un’ala sarebbe stata riservata soltanto a lui, seppure il figlio di don Vito non sia stato mai ritenuto né l’uno né l’altro. Cautele evidentemente adottate per un testimone di giustizia del tutto particolare, un po’ creduto, un po’ sconfessato ma pur sempre unico teste della trattativa mafia – stato fra i carabinieri del Ros e i vertici di Cosa Nostra in quella stagione di stragi e omertà politica del 1992.
Un capitolo investigativo, che secondo il rapporto della Direzione nazionale antimafia, “ha tratto ulteriore impulso” proprio “a seguito delle numerose dichiarazioni rese, a decorrere dal febbraio del 2008, dal Ciancimino” nonostante, afferma sempre la Dna, le sue dichiarazioni si siano dimostrate “molto spesso insuscettibili di riscontro ovvero riscontrate negativamente”. Di fatto c’è però che da quando Massimo Ciancimino ha iniziato a raccontare i retroscena di quelle fasi di dialogo a ridosso delle stragi del ’92 misteriosamente politici, segretari e carabinieri hanno trovato il coraggio di riferire circostanze inedite, togliendo definitivamente l’indagine dall’empasse derivata dall’apporto a senso unico delle dichiarazioni del gen. Mori e del col. De Donno. La Dna non ha scritto le ragioni su cui ha fondato le sue divergenti conclusioni ma è evidente che ha attinto al giudizio negativo attribuito al teste dalle Procure di Caltanissetta e Palermo rispetto alle dichiarazioni sull’uomo dei servizi segreti in contatto col padre legato, secondo Ciancimino jr., all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Una dichiarazione che gli ha procurato l’accusa di calunnia aggravata e il carcere, soprattutto in seguito alla consegna di un appunto ritenuto dalla scientifica di Roma rimaneggiato. Oggi Massimo Ciancimino vive nella sua casa di Palermo, gli sono state tolte scorta e auto blindata, “adesso –  ironizza nei corridoi del Tribunale - vado in giro con l’Ape”.
Il figlio di don Vito non perde la sua verve, “in carcere – continua -  mi hanno trattato come un collaboratore di giustizia, adesso invece il lampeggiante posso metterlo sul mio veicolo a tre ruote”. Sorride ma ammette di aver fatto degli errori. Prima di tutto i 13 candelotti di dinamite recuperati dagli inquirenti nel suo giardino di via Torrearsa. “Sono stato io ad autodenunciarmi – spiega – avevo ricevuto a Bologna un pacco con l’esplosivo e una lettera minatoria con una foto di mio figlio scattata con un teleobiettivo dall’alto, mentre entrava nella blindata. Dicevano che non avrei dovuto dire niente altrimenti gli avrebbero fatto del male”. “Che avrei dovuto fare? Ho detto di averlo ricevuto a Palermo per non agitare mio suocero che è ammalato”. Così prima “l’ho nascosto dentro una busta, poi ho pensato di portarlo via, volevo buttarlo in mare durante la traversata mentre scendevo in Sicilia”. “Non sapevo che con l’acqua avrei potuto far detonare il meccanismo ma la mia scorta non mi perdeva di vista e così me lo sono portato fino a Palermo”. Nella lettera di cui parla Ciancimino jr. vi sarebbe pure un riferimento a Matteo Messina Denaro e ai soldi che questi avrebbe dovuto prendere dal padre per un appalto della società del metano. Massimo Ciancimino è convinto che le minacce non arrivino però solo da Cosa Nostra ma dall’ambiente dei “man in black” legati al padre, i quali costantemente controllerebbero le sue dichiarazioni. Raccontando la sua verità, il figlio di don Vito rimarca di aver detto tutto sulla trattativa e di rimanere dell’avviso che sia stato Provenzano ad aver consegnato Riina allo Stato attraverso “la mappa in cui il capomafia ha indicato la casa di via Bernini”. Carte che sarebbero state poi consegnate dallo stesso Ciancimino jr. ai carabinieri del Ros un mese prima dell’arresto del capo di Cosa Nostra. Dietro questa regia, Massimo sottolinea per l’ennesima volta il ruolo fondamentale esercitato dai servizi segreti vicino al famigerato Signor Franco. Anello di collegamento fra i vari poteri istituzionali che appoggiò la trattativa e il cambiamento politico di quegli anni, concordando con Provenzano la consegna di Riina e l’avvento della nuova pax con Cosa Nostra. Ma l’indagine sul signor Franco si è arenata clamorosamente dopo le varie esternazioni dello stesso teste durante i riconoscimenti a Caltanissetta e Palermo creando una confusione mediatica sul punto senza precedenti. L’incertezza mostrata da Massimo ai magistrati però si dissipa quando a noi dichiara: “Quel nome non lo farò mai, non ho riscontri per dimostrarlo, sarei un uomo morto se lo facessi e mio figlio potrebbe essere ucciso e anche i magistrati si troverebbero in difficoltà perché per sostenere certe tesi bisogna avere delle prove serie”. Non solo. Il figlio di don Vito va oltre sostenendo di averlo riconosciuto nelle foto segnaletiche della Procura e di non averlo indicato per paura di ciò che una simile affermazione avrebbe scatenato intorno alla sua famiglia. “Ho sorvolato sulla foto – ammette -  ma “chi mi crederebbe?” e poi “avete visto cosa è successo quando ho fatto il nome di De Gennaro?” Per il teste della trattativa è impossibile continuare su questa linea e conferma “il nome del Signor Franco non lo farò ”. Il timore di trovarsi in un gioco troppo grande prende definitivamente il sopravvento sulle tante ragioni per raccontare la verità. E questo perché il famoso Carlo – Franco sarebbe un uomo ancora molto potente, che circola all’interno delle Istituzioni fra le stanze del Quirinale e quelle degli altri organi statali, come un punto di collegamento di questo Sistema di potere. E oggi “con la discesa del Governo Monti è molto più visibile di prima” ci confida. Ragione di più per starsene zitti. Ma allora perché “suicidarsi” accusando l’ex collaboratore di Giovanni Falcone di appartenere a quell’ambiente con un documento falso? Scivola con le parole Massimo Ciancimino ma poi accenna a una polpetta avvelenata servitagli dall’entourage del Signor Franco puntualizzando, “mio padre aveva opinioni negative su di lui (De Gennaro, ndr) per cui quando mi viene consegnata la lista dei nomi col riferimento proprio a De Gennaro e il Signor Franco ho pensato fosse la verità”. Di fatti “esiste un pizzino ora nelle mani dei magistrati in cui mio padre scrive a Provenzano ‘il Sp (che starebbe a ‘superpoliziotto’) dice che sarebbe meglio vederci a casa mia’”. A me hanno fatto fare il carcere per il reato di calunnia aggravata. Luigi Bisignani invece ha patteggiato davanti al gip una pena a un anno e sette mesi di reclusione nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta P4. Gli erano stati contestati dieci reati tra cui l’associazione a delinquere, la tentata concussione e il favoreggiamento. Gli ricordiamo però che la sua credibilità ha iniziato a vacillare quando è stato intercettato nello studio di un commercialista attenzionato dalla Procura di Reggio Calabria, per i suoi presunti rapporti con la 'Ndrangheta. “Ho fatto uno sbaglio questo lo so, ma sfido chiunque a dimostrare i miei rapporti con la mafia calabrese”, “non ho mai avuto nessun contatto con questa gente, volevo solo cambiare un assegno tramite una persona che fa questi favori. “Ho millantato perché il mio commercialista mi ha detto che Strangi si era terrorizzato a sapere chi ero io e quindi ho cercato di tranquillizzarlo sulla mia figura, in ogni caso non mi è mai arrivato nessun avviso d’indagine sulla vicenda”. Giustificazioni che saranno discusse nelle sedi competenti come quelle che tratteranno la detenzione illegale d’esplosivo. Una tappa giudiziaria che farà ancora parlare di lui sperando un giorno possa decidersi a fare il nome del burattinaio che ha garantito Cosa Nostra a eseguire l’attentato al giudice Borsellino 57 giorni dopo dalla morte di Giovanni Falcone, seguendo probabilmente anche l’operazione sulla sottrazione dell’agenda rossa dopo lo scoppio della bomba. Tasselli mancanti indispensabili per ottenere una verità giudiziaria e storica sul quadro delle alleanze fra poteri istituzionali deviati e criminalità organizzata di cui lo stesso don Vito faceva parte. E’ forse proprio in merito alla sua funzione all’interno di questo sistema che presenziò ad alcune riunioni in Svizzera dei Bilderberg e certo, afferma suo figlio, non come portavoce della Democrazia cristiana.
Mentre sta per salutarci Ciancimino si ferma, torna indietro e dice: "Non mi porterò segreti nella tomba".
A nostra domanda diretta: "Quindi lo farà il nome del signor Franco?"
"Sì, alla procura competente che ha di fatto l’indagine sulla trattativa. Il signor Ciancimino non morirà con quel segreto".
Antimafia Duemila è nata per cercare la verità sulle stragi del ’92 e sui mandanti occulti che le hanno decise. Massimo Ciancimino con i suoi errori (che in parte sta già pagando) e le sue scelte ha avuto il merito di aver fornito una delle “chiavi”, quella della trattativa, che potrebbe aprire la cassaforte dei delitti che uomini appartenenti allo Stato hanno commesso con la mafia. Per tale ragione noi, fino a prova contraria, continueremo ad ascoltarlo.