Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
sabato 24 marzo 2012
La riforma dell'articolo 18 avra' effetti negativi sull'occupazione. - di Domenico d'Amati
La riforma governativa dell’articolo 18, dichiaratamente finalizzata a favorire l’aumento degli investimenti e dell’occupazione, rischia di avere l’effetto opposto. Il progetto Fornero prevede l’eliminazione dell’obbligo di reintegrazione in caso di licenziamenti individuali o collettivi motivati con ragioni economiche che risultino insussistenti, mentre mantiene la tutela dell’art. 18 in caso di licenziamenti discriminatori.
Una via di mezzo è prevista per i licenziamenti disciplinari nel senso che verrebbe lasciata al giudice, in caso di infondatezza degli addebiti, la facoltà di decidere se attribuire un’indennità economica oppure disporre la reintegra.
L’aspetto più rilevante della riforma è quello concernente i licenziamenti individuali per ragioni economico-organizzative. In materia la funzione dell’art. 18 è quella di scoraggiare l’estromissione dei lavoratori per motivi non adeguatamente ponderati ovvero di ricorrere alle motivazioni organizzative per occultare finalità discriminatorie.
Se il progetto governativo passerà, l’unica remora a simili comportamenti sarà costituita dal pagamento di un’indennità, di importo equivalente a quello che normalmente le aziende offrono come incentivo all’esodo. Ne potrà seguire un’ondata di licenziamenti sia individuali che collettivi. Per questi ultimi attualmente l’articolo 18 è applicabile ove le aziende non rispettino l’obbligo previsto dalla legge n. 223 del 1991 e dalla normativa comunitaria, di comunicare preventivamente e correttamente alle organizzazioni sindacali le ragioni del provvedimento e di applicare razionali criteri di scelta.
Eliminato l’articolo 18, le aziende, in caso di riduzione del personale, saranno sostanzialmente libere di precludere alle organizzazioni sindacali il diritto all’informazione e di ridurre il loro ruolo a quello di testimoni impotenti. Con buona pace per i principi di trasparenza, dei quali il Governo si dichiara portatore.
Per quanto concerne i licenziamenti discriminatori, la riforma governativa, pur affermando di voler mantenere l’applicazione dell’articolo 18, offre alle aziende la possibilità di camuffarli con ragioni organizzative e quindi di contenere il rischio nei limiti del pagamento di una indennità. Il lavoratore che intenda provare in giudizio la discriminazione subita dovrà affrontare notevoli difficoltà.
In materia disciplinare la discrezionalità della decisione fra reintegrazione e indennità renderà altamente aleatorie le conseguenze di una vittoria in giudizio. Anche questo indurrà i lavoratori a riflettere prima di far valere i loro diritti nei confronti dell’azienda.
A ciò si aggiunga che la lentezza della giustizia del lavoro in quasi tutti i grandi centri giudiziari agevolerà le aziende nell’ottenere, con tattiche defatigatorie l’adesione dei lavoratori a transazioni svantaggiose. Una elementare esigenza di equità impone al Governo di impegnarsi con adeguate misure organizzative, affinché l’attuale legge sul processo del lavoro venga correttamente applicata così da assicurare una decisione nei tempi previsti dal legislatore del 1973: tre-quattro mesi in primo grado ed altrettanti in appello. Ciò è possibile come è dimostrato dall’esperienza torinese.
Inoltre se si vorrà veramente lottare contro i licenziamenti discriminatori occorrerà munire il giudice di penetranti poteri di indagine da esercitare anche d’ufficio.
Infine dovrà assicurarsi il rispetto delle decisioni giudiziarie, mediante l’effettiva applicazione di sanzioni penali a carico di chi si sottragga alla loro esecuzione.
Leggi anche:
Modificare l'articolo18 ci aiutera' a pagare le bollette e l'affitto? - di Adriano Donaggio
L'Italia e' ancora una repubblica fondata sul lavoro?- di Domenico Gallo
http://www.articolo21.org/5054/notizia/la-riforma-dellarticolo-18-avra-effetti-negativi.html
Caro-benzina, prezzi salgono alle stelle: indagine delle Fiamme Gialle.
Milano - (Adnkronos/Ign) - Militari della GdF nelle sedi delle principali compagnie petrolifere italiane per verificare l'esistenza di eventuali manovre speculative sui prezzi dei prodotti petroliferi. Indagine dalla Procura di Varese partita da un esposto del Codacons: "Rincari sospetti soprattutto in prossimità delle grandi partenze". Unione Petrolifera: "Nessuna preoccupazione, aumenti legati soprattutto al rialzo delle accise". Caro benzina, verde a un passo dai 2 euro
Milano, 24 mar. (Adnkronos/Ign) - Carburanti a prezzi record. E la procura di Varese avvia un'indagine innovativa nella quale le compagnie petrolifere vengono assimilate a soggetti incaricati di un pubblico servizio. Cosi' i militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Gdf di Varese si sono recati questa mattina presso le sedi delle principali compagnie petrolifere italiane per acquisire la documentazione necessaria a verificare l'esistenza di eventuali manovre speculative sui prezzi dei prodotti petroliferi.
In seguito ad un esposto presentato alla Procura di Varese dall'associazione di consumatori Codacons, riferito a possibili manovre speculative su prodotti petroliferi atte a determinare, indebitamente, il rincaro di benzina e gasolio al dettaglio sul mercato nazionale italiano, il procuratore capo Maurizio Grigo ha incaricato il pm Massimo Politi di eseguire tutti gli accertamenti utili a verificare la sussistenza dell'ipotesi di reato segnalata dal Codacons.
"E' notizia di comune dominio che il prezzo della benzina abbia oramai raggiunto quotazioni insostenibili" si legge nel lungo esposto che l'avvocato Giuseppe Ursini, in qualita' di legale rappresentante del Codancons ha inviato a ben 104 procure d'Italia e che l'Adnkronos ha potuto consultare.La denuncia fa riferimento alla "violazione delle norme che puniscono la condotta di chi pone in essere manovre speculative sulle merci". In effetti, "negli ultimi anni -si legge nell'esposto- abbiamo dovuto assistere ad un continuo, elastico speculativo margine tra il prezzo del singolo barile di petrolio e le influenze dello stesso sul costo del carburante presso i vari distributori. In particolare, avviene di sovente che il prezzo del carburante per i consumatori aumenti immediatamente ogni qual volta si verifica un incremento del costo del petrolio mentre, viceversa, tale corrispondenza viene a mancare nel momento in cui il prezzo del petrolio scende"."In quest'ultimo caso, infatti, la diminuzione del prezzo del carburante presso i distributori e' molto lento, causando un ingiusto profitto a danno dei consumatori. Inoltre -si legge nell'esposto- tali aumenti tendono a verificarsi sistematicamente in prossimita' delle cosidette grandi partenze, incrementando il sospetto che in queste occasioni vengano scientificamente poste in essere delle manovre atte ad aumentare il prezzo del bene benzina, in danno ai consumatori".Per approfondire le indagini e valutare se le recenti dinamiche legate all'aumento dei prezzi dei prodotti petroliferi sono da ricondurre al mero e fisiologico andamento del mercato, oppure sono falsate da comportamenti penalmente illeciti tali da configurare il reato di ''manovra speculativa su merci'', la Guardia di Finanza ha acquisito presso le sedi legali ed operative delle principali compagnie petrolifere italiane in Roma, Milano e Genova, di tutta la documentazione attinente l'origine e l'andamento dei prezzi dei carburanti e dei motivi delle variazioni in aumento ed in diminuzione, per il periodo dal gennaio 2011 al marzo 2012.Si tratta di un provvedimento innovativo, sotto il profilo dell'inquadramento giuridico, poiche' assimila le compagnie petrolifere a soggetti incaricati di un pubblico servizio in quanto l'attivita' esercitata, rivolta ad un pubblico indeterminato e caratterizzata da un prodotto di essenziale utilita' per i cittadini e le imprese, e' soggetta a norme di diritto pubblico ed a provvedimenti e interventi da parte dell'Autorita' Garante della Concorrenza e del Mercato.Nonostante l'apertura delle indagini, il presidente di Unione Petrolifera, Pasquale De Vita, non è preoccupato. Un'indagine di questo tipo ''e' una cosa seria e sara' fatta seriamente ed emergera' la verita'. Sono molto tranquillo'' aggiunge De Vita spiegando che l'andamento dei prezzi dei carburanti attuali e' legato ''soprattutto in questo ultimo periodo all'aumento delle accise. Rappresenta il grosso di questi aumenti''.E nel breve periodo la situazione non si annuncia particolarmente rosea. ''La situazione dei prezzi ha portato ad una forte riduzione dei consumi, e questo e' un fattore che pesa. A brevissimo non vedo miglioramenti. Non vedo come la parte fiscale possa migliorare, speriamo che il mercato internazionale possa migliorare''.
http://www.adnkronos.com/IGN/News/Cronaca/Caro-benzina-prezzi-salgono-alle-stelle-indagine-delle-Fiamme-Gialle_313125482765.html
venerdì 23 marzo 2012
Il killer di Kandahar si arruolò nell’esercito Usa per sfuggire a un risarcimento milionario. - di Enrica Garzilli
Robert Bales - il sergente ritenuto responsabile dell'uccisione di 17 civili afghani - faceva il consulente finanziario. Un'attività che gli ha permesso di far sparire 600mila dollari dal fondo pensione di due anziani coniugi dell'Ohio e per la quale è stato condannato a pagare 1.490.875 dollari fra danni e spese legali. Una cifra mai corrisposta grazie all'ingresso nell'U.S. Army.
Il sergente americano accusato ufficialmente di aver ucciso 17 civili afghani, incluso 9 bambini, nei due villaggi nella provincia di Kandahar la notte dell’11 marzo scorso era già stato dichiarato colpevole di frode fiscale. Prima di iniziare la carriera militare alla fine del 2001 Robert Bales faceva il consulente finanziario: un’attività che gli ha permesso di derubare circa 600.000 dollari dal fondo pensione dell’anziano Gary Liebschner di Carroll, in Ohio. A raccontare il particolare, l’agenzia indipendente statunitense Financial industry regulatory authority (Finra), che controlla le operazioni di borsa e i mercati di cambio.
“ Se ne è approfittato”, dice Gary Liebschner, un ex cliente di Bales, “ci ha preso una montagna di soldi che si poi intascato come commissioni”. Nel 2003 la Finra aveva riscontrato che il soldato aveva commesso i reati di frode, violazione del dovere fiduciario – quando cioè gli interessi del cliente non sono la priorità ma si fa un uso improprio dei fondi affidati – contrattazioni non autorizzate – in gergo “churning”, consistente nel produrre operazioni di borsa insensate con l’unico scopo di incassare retrocessioni dopo ogni operazione di borsa – spesso all’insaputa del cliente, e investimenti impropri: tutte operazioni che invece di aumentare il capitale del cliente lo danneggiano a beneficio di chi gestisce i soldi. Prima di lanciarsi nella finanza, Bales avrebbe lavorato in 5 aziende nel giro di 5 anni. “Voleva fare il consulente finanziario – dice Robert K. Cargin, che lo aveva assunto nel settembre del 2000 alla Quantum Securities Corporation – Semplicemente non ha funzionato”. Da una parte avrebbe commerciato in azioni, un buon investimento secondo Cargin, dall’altra avrebbe cercato di sfruttare l’amicizia con Marc Edwards, un professionista di football con cui giocava nella squadra del liceo di Norwood, un’enclave di Cincinnati. Cargin lo avrebbe assunto anche per questa amicizia, anche se Edwards non è diventato mai cliente della Quantum Securities.
Bales dal 1993 al 1996 ha studiato economia all’Ohio State University senza mai terminare gli studi. Fra il marzo 1988 e il settembre 1999 è stato accusato di frode da parte di Gary Liebschner e sua moglie Carroll, in Ohio. Il soldato ha venduto le azioni della AT&T e altri fondi, intascando le commissioni, fino a 16.000 dollari al giorno, mentre i coniugi perdevano tutto. Oltretutto Bales non si è mai presentato all’udienza sul caso. Nel 2003 la Finra ha accertato la frode ai danni dei Liebschner e di altri 7 clienti, che hanno perso oltre 500.000 dollari. Dopo averlo dichiarato colpevole, l’arbitrato condotto dalla Finra ha chiesto a Bales di pagare 1.490.875 dollari fra danni e spese legali, escluso gli interessi. L’azienda che al tempo impiegava Bales e che ora è chiusa, la Michael Patterson Inc., e Michael Patterson, il fondatore della società, sono stati ritenuti responsabili del pagamento insieme a Bales. Ma nel 2001 lui aveva già iniziato la carriera militare e non ha mai risarcito neanche un centesimo della somma.
Il 38enne soldato Bales, padre di due bambini, è accusato dagli Stati Uniti non solo dell’omicidio di 17 persone ma di tentato omicidio di altre 6. Le vittime dormivano nei loro letti quando Bales gli avrebbe sparato. L’accusa sostiene che avrebbe anche bruciato alcuni dei corpi. Gli investigatori afghani però, che stanno svolgendo un’inchiesta separata da quella del governo statunitense, sono convinti che non basti un soldato per uccidere così tante persone in due villaggi vicini in meno di un’ora. Stanno così considerando la possibilità che nel massacro siano coinvolti altri 15 o 20 soldati americani, divisi in due gruppi. All’incontro con il presidente Karzai, i familiari delle vittime hanno insistito nel ribadire che i militari coinvolti erano diversi. Nonostante le testimonianze, le autorità americane si sono rifiutate di cooperare con quelle afghane.
Sembra insomma che le autorità statunitensi abbiano trovato il colpevole perfetto, un uomo non sano che si era già macchiato di quello che negli Stati Uniti è considerato uno dei reati più gravi, la frode finanziaria. Ma il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ha dichiarato alla Reuters di non fidarsi della versione data dal governo americano e ha promesso vendetta. “Questa è stata un’attività pianificata. Di sicuro ci vendicheremo contro le forze armate americane. Non ci fidiamo di questi processi”.
Sfregiata con l'acido per gelosia, si uccide addio alla donna che si ribellò alla barbarie. - di Federica Angeli e Giovanni Gagliardi
Fuggita dal Pakistan, viveva a Roma. La sua tragedia in un libro venduto in tutto il mondo. Punita dal marito per aver chiesto il divorzio. In Italia aveva subito 39 interventi al volto.
Alla fine il dolore ha vinto. Si è lanciata nel vuoto, dal sesto piano di una palazzina alla periferia di Roma e si è portata via tutti gli incubi del passato senza neanche lasciare un biglietto. È morta alle 11 e 30 dello scorso sabato, Fakhra Younas, l'icona dell'emancipazione femminile nel mondo islamico, la donna pakistana alla quale il marito aveva cancellato il viso con l'acido.
Si è uccisa in via Segre, a Tor Pagnotta, la danzatrice di Karachi che fuggì dal suo paese e arrivò in Italia nel 2001 dopo che il marito geloso, figlio di un influente uomo politico pakistano, l'aveva sfigurata con l'acido nel sonno. Fakhra, ad appena vent'anni, aveva chiesto il divorzio, stanca delle violenze e delle umiliazioni che era costretta a subire. Col figlio, Nauman, oggi diciassettenne, al quale la bellissima ballerina aveva riservato tutto il suo amore, si trasferì in un'altra casa, mettendo fine all'unione. Quell'affronto venne punito dal marito che le sciolse il sorriso e l'entusiasmo di vivere. Riconquistare la serenità è sempre stato un percorso in salita per lei.
Quando arrivò a Roma, 11 anni fa, si sottopose a 39 interventi di chirurgia plastica per riavere un volto normale, ma non c'è stato bisturi in grado di lenire le sue ferite dell'anima. Tanto che non fu mai abbandonata da équipe di psicoanalisti. Nel 2005, subito dopo l'uscita del suo libro "Il volto cancellato", poi tradotto in molte lingue, sembrava aver riacquistato la serenità. Negli anni successivi, però, tentò di togliersi la vita per tre volte, ingoiando psicofarmaci e alcol. Salvata in extremis in tutti e tre i suoi tentativi, Fakhra oscillava tra depressione e tranquillità, momenti di fragilità e di forza.
Si è uccisa in via Segre, a Tor Pagnotta, la danzatrice di Karachi che fuggì dal suo paese e arrivò in Italia nel 2001 dopo che il marito geloso, figlio di un influente uomo politico pakistano, l'aveva sfigurata con l'acido nel sonno. Fakhra, ad appena vent'anni, aveva chiesto il divorzio, stanca delle violenze e delle umiliazioni che era costretta a subire. Col figlio, Nauman, oggi diciassettenne, al quale la bellissima ballerina aveva riservato tutto il suo amore, si trasferì in un'altra casa, mettendo fine all'unione. Quell'affronto venne punito dal marito che le sciolse il sorriso e l'entusiasmo di vivere. Riconquistare la serenità è sempre stato un percorso in salita per lei.
Quando arrivò a Roma, 11 anni fa, si sottopose a 39 interventi di chirurgia plastica per riavere un volto normale, ma non c'è stato bisturi in grado di lenire le sue ferite dell'anima. Tanto che non fu mai abbandonata da équipe di psicoanalisti. Nel 2005, subito dopo l'uscita del suo libro "Il volto cancellato", poi tradotto in molte lingue, sembrava aver riacquistato la serenità. Negli anni successivi, però, tentò di togliersi la vita per tre volte, ingoiando psicofarmaci e alcol. Salvata in extremis in tutti e tre i suoi tentativi, Fakhra oscillava tra depressione e tranquillità, momenti di fragilità e di forza.
"È una morte che mi rattrista molto - ha detto Elena Doni, la giornalista coautrice del libro - perché lei era un sogno di riscatto che non si è verificato. Purtroppo, nonostante l'impegno di molte persone che hanno cercato di aiutarla, non si era mai integrata completamente. Aveva avuto un passato molto difficile, segnato prima dalla vita con la madre, una prostituta, e poi dalle violenze del marito".
Il professor Valerio Cervelli, il chirurgo plastico che l'ha operata 39 volte e l'ha sempre seguita, quando ha saputo della morte di Fakhra ha pianto. "L'ho sentita per l'ultima volta due settimane fa e fisicamente stava bene, ma a volte le ferite interiori sono molto più difficili da curare e penso siano queste ad averla spinta a questo gesto". Seguita da uno psichiatra, negli ultimi tempi non si presentava più agli appuntamenti. "Non doveva mai essere lasciata sola - ha spiegato una delle operatrici che l'ha assistita durante il periodo di permanenza nella casa di accoglienza madre-bambino dell'Infernetto - Per questo, quando la trasferirono nell'appartamento del residence di Tor Pagnotta, dove avrebbe dovuto essere autonoma, eravamo preoccupate. Senza una continua assistenza si sentiva abbandonata". Il suo corpo è rimasto ai piedi del residence comunale "Madre Teresa" fino all'arrivo del figlio da scuola.
http://roma.repubblica.it/cronaca/2012/03/23/news/sfregiata_con_l_acido_per_gelosia_si_uccide_addio_alla_donna_che_si_ribell_alla_barbarie-32064748/
San Raffaele, il braccio destro di Daccò ai pm: “Mezzo milione all’ex assessore di Cl”.
Uno degli indagati per il dissesto finanziario della fondazione chiama in causa Antonio Simone, ex dc nella giunta regionale della Lombardia negli anni Novanta. Ma spuntano anche in questo caso i Degennaro, gli imprenditori edili arrestati a Bari: "Portavano valigie di denaro a Mario Cal".
I soldi di una finta consulenza pagata dal San Raffaele sarebbero finiti su un conto estero di Antonio Simone, ex assessore regionale lombardo alla Sanità e figura vicina a Comunione e Liberazione. Lo ha detto, in un interrogatorio depositato con la chiusura di una tranche dell’inchiesta dei pm di Milano, Giancarlo Grenci – indagato e fiduciario dell’uomo d’affari Pierangelo Daccò – spiegando che lo stesso “Daccò ci indicò di trasferire quella somma”, cioè “500mila euro” su “un conto nominativo di Antonio Simone”. Ma non solo: dal fascicolo spunta anche questa volta il nome della Dec, la società dei Degennaro, gli imprenditori edili baresi, coinvolti nell’ambito delle indagini sugli appalti per la costruzione di parcheggi nel capoluogo pugliese: Gerardo, che è consigliere regionale del Partito Democratico, e Daniele sono agli arresti domiciliari, mentre Giovanni e Vito sono indagati a piede libero. Un indagato dell’inchiesta sul San Raffaele parla infatti di valigie di soldi che uno degli imprenditori pugliesi avrebbe portato più volte al vicepresidente della Fondazione San Raffaele Mario Cal.
Il verbale di interrogatorio è tra gli atti depositati dalla Procura dopo la conclusione delle indagini nei confronti di 7 persone, tra le quali lo stesso Daccò e l’ex direttore amministrativo del San Raffaele Mario Valsecchi, accusati tra le altre cose di associazione per delinquere e bancarotta fraudolenta. Anche Grenci è indagato nell’ambito della stessa inchiesta, ma in uno stralcio che la Procura non ha ancora chiuso.
Grenci, che da quanto si è saputo sta collaborando con i pm Luigi Orsi, Laura Pedio e Gaetano Ruta, titolari delle indagini sul dissesto finanziario del gruppo ospedaliero, in un interrogatorio reso il 5 dicembre scorso, ha ricostruito la rete di società estere di Daccò, il quale, secondo l’accusa, avrebbe fatto sparire i fondi neri creati attraverso le sovraffatturazioni dei costi a carico dell’ospedale.
Nei giorni scorsi sempre dalle carte dell’inchiesta era emerso che ai vertici del San Raffaele era nota la “gestione dissipatoria” di don Luigi Verzé e del vice Cal. Ma in alcuni casi le spese folli che hanno portato al crac erano mirate a “fare favori a qualcuno”. Tra questi anche l’acquisto di un aereo da 35 milioni di euro presentato dal prete-manager come un’operazione necessaria nell’interesse di “qualcuno”.
“Daccò ci disse di trasferire i soldi sul conto di Simone”. Nel verbale quello che viene ritenuto il braccio destro di Daccò parla, in particolare, della società Harman che “fu costituita nel 2007 – racconta – per svolgere consulenze in favore della Fondazione San Raffaele, in Italia ed all’estero”. In realtà, ha spiegato ai pm, “l’unica fattura fu quella di 510 mila euro di cui mi avete detto (i pm infatti la contestano come uno degli episodi di dissipazione, ndr). Quasi tutto di questo importo (500 mila euro) Harman l’ha girato ad Euro Worlwide. Mi si chiede se questi soldi siano finiti ad Antonio Simone e, ripensandoci, mi ricordo che Daccò ci indicò di trasferire quella somma su un conto nominativo di Antonio Simone”, esponente della Dc lombarda e assessore regionale alla Sanità nei primi anni Novanta. Grenci fornisce ai magistrati – che stanno proprio indagando per capire che fine abbiano fatto i fondi neri – “gli estremi del conto corrente di Simone sul quale è stato effettuato il bonifico”, conto “acceso presso la Hvb di Praga”, cioè la Hypovereinsbank. Grenci ha chiarito anche, in un altro passaggio del verbale, che “i due, Simone e Daccò, hanno una serie di affari all’interno dei quali” avrebbero “stabilito che a Daccò andasse l’usufrutto” di una “villa” in Sardegna, a Olbia. E poi l’elenco di una serie di società e “iniziative” che legherebbero Daccò e Simone.
Il nome di Simone era già emerso in un interrogatorio dello scorso 3 settembre di Stefania Galli, la segretaria di Cal (ex vicepresidente della Fondazione San Raffaele che a luglio si è suicidato alcuni giorni dopo essere stato sentito in Procura). La Galli ha parlato di un “viaggio in Brasile a cui hanno preso parte anche il dott. Cal” e altre persone, tra cui per l’appunto Simone, “molto legato a Daccò”, ha precisato la Galli. La collaboratrice di Cal riferisce che l’ex assessore e Daccò accompagnarono Cal e un’altra persona “al fine di vedere le fazende della Vds e combinare un incontro con rappresentanti di Comunione e Liberazione per valutare la possibile vendita delle attività in argomento”. La Vds Export è una società fondata nel 2010 e proprietaria al 40% della holding brasiliana omonima impegnata nelle coltivazioni di mango, meloni e uva.
“Daccò gestiva 20 società all’estero”. Daccò, ritenuto dai pm il collettore dei fondi neri realizzati dagli ex vertici del gruppo a scapito delle casse dell’ospedale San Raffaele, avrebbe gestito una rete di una ventina di società estere. E’ sempre Grenci a precisarlo in un’interrogatorio del 22 dicembre scorso. Il braccio destro ha portato ai magistrati documentazione che dimostrerebbe le “operazioni finanziarie” delle “società e conti personali riconducibili” a Daccò. In particolare un faldone con le carte su 11 società e un secondo con i documenti su 9 società. In più anche documentazione su operazioni finanziarie di 6 “società e conti personali riconducibili proprio ad Antonio Simone.
Chi è Antonio Simone. La figura di Antonio Simone, milanese, 58 anni, riemerge dopo poco meno di 20 anni. Simone arriva molto giovane ai vertici della Regione Lombardia, all’inizio degli anni Novanta. E’ stato a capo del Movimento popolare, autentica longa manus politica di Comunione e Liberazione che corre fedele al fianco della Democrazia Cristiana. La formazione – politica e non – di Simone avviene per intero sotto l’ombrello dei movimenti cattolici di base. Laureato in scienze politiche alla Cattolica, inizia a fare politica già all’università. Fonda lui, per esempio, i Cattolici Popolari. Poi l’ingresso nel Movimento Popolare del quale diventa responsabile nazionale. Si iscrive alla Dc nel 1984, ma già da 4 anni è consigliere regionale (è stato eletto a 26 anni), carica che riesce a mantenere per un secondo mandato fino al 1990.
Nel frattempo matura i meriti per una promozione: nel 1987 viene nominato all’assessore al commercio e al turismo dall’allora presidente della Regione Bruno Tabacci ed è poi confermato dal successore Giuseppe Giovenzana. Dalla giunta Simone (nel frattempo rieletto per la terza volta in consiglio regionale nel 1990) non esce, gestendo la delega alla Sanità e poi quella al coordinamento del territorio, fino al 1992.
La carriera politica di Simone, infatti, viene piegata dalla bufera di Tangentopoli (che peraltro porta allo scioglimento anche il Movimento popolare). Il suo nome rimbalza in più di un’inchiesta giudiziaria: una volta sono le licenze edilizie a Pieve Emanuele, un’altra la costruzione del nuovo ospedale di Lecco, un’altra ancora i falsi corsi professionali finanziati dallo Stato e dall’allora Cee. Alle dimissioni da assessore, tuttavia, viene costretto nell’agosto del 1992 per un’altra storia. A chiamarlo in causa è Maurizio Prada, ex segretario amministrativo della Dc lombarda. Prada, che si è nel frattempo conquistato l’appellativo di “grande elemosiniere” dei democristiani, è considerato il collettore delle tangenti e tra i destinatari dei versamenti di denaro fa anche i nomi di Simone, per l’appunto, oltre che di Giorgio Cioni (allora stretto collaboratore del deputato Roberto Formigoni e anche lui vicinissimo a Comunione e Liberazione). Simone viene sentito dal pm Antonio Di Pietro, poi consegna al presidente Giovenzana le sue dimissioni.
Nel 1994, tuttavia, Simone viene arrestato dalla Guardia di Finanza, per la questione di Pieve Emanuele: accusato di corruzione, Simone avrebbe ricevuto tangenti per 300 milioni di lire dai proprietari di alcuni terreni per assegnare, tramite le varianti al piano regolatore, una destinazione edilizia favorevole.
Simone sparisce definitivamente dalla politica, ma resta socio di Daccò, il “faccendiere amico dei politici”, ritenuto anche lui vicino a Cl. E in ogni caso la sagoma dell’ex assessore regionale rimane a lungo legata a Tangentopoli. Non fosse altro perché è lui a ricevere uno degli ultimi favori da Mario Chiesa, dal quale tutto il patatrac è partito. Niente che c’entri con il codice penale, ma proprio grazie al “mariuolo isolato” del Psi Simone (che da soli due mesi, per un rimpasto, ha lasciato la delega alla sanità) può trasferirsi con la famiglia in un appartamento da 300 metri quadrati di proprietà del Pio Albergo Trivulzio (contratto equo canone). Un’abitazione a meno di 50 metri dall’Arco della Pace tornata sui giornali lo scorso anno per lo scandalo degli appartamenti extralusso dell’istituto concessi a canoni bassissimi. L’intestataria di quella casa valutata un milione e 556 mila euro era ancora Carla Vites. La moglie di Simone.
I rapporti con Degennaro. Anche nell’inchiesta sul San Raffaele spunta la Dec, società dei costruttori Daniele e Gerardo Degennaro. C’è un indagato (Pierino Zammarchi, imprenditore edile, nei confronti del quale le indagini sono terminate) infatti che dice di aver visto uno dei Degennaro portare soldi in una valigia a Cal: ”Non lo sapevo. Prendo atto delle dichiarazioni rese da Pierino Zammarchi – ha spiegato ai pm l’ex direttore dell’ospedale Valsecchi – quando ha dichiarato di avere visto Degennaro portare soldi in valigia a Cal in 5-6 occasioni”.
Poi i pm chiedono conto a Valsecchi di alcuni “pagamenti a Saint Premier Mont”, che, secondo Valsecchi, è una “società svizzera” riferibile a tale “Coscera”. Questa società, chiarisce Valsecchi, “aveva fatto un contratto per individuare Degennaro. Quando la Fondazione (San Raffaele, ndr) iniziò a pensare alla costruzione del Dibit 2 (il Dipartimento Universitario di Medicina Molecolare del San Raffaele, ndr) ci fu una trattativa con la società austriaca Vamed, abortita. Fu così che Coscera, il responsabile di Saint Premier Mont, ci presentò Degennaro. La sua Dec si prese l’incarico di trovare il finanziatore. Sia la Fondazione che Dec pagarono una doppia ‘fee’ a Coscera”. Nacque anche un contenzioso, spiega ancora Valsecchi, “perchè Degennaro sostenne che non doveva nulla a Coscera perchè non era stato questo a presentarlo alla Fondazione. Non so chi avrebbe presentato Degennaro alla Fondazione al di fuori di Coscera”. Valsecchi sostiene che “la prima volta che ho visto Degennaro me lo ha presentato Coscera”.
In un altro passaggio dei verbali l’ex direttore del San Raffaele spiega anche che “Coscera è stato anche retribuito per l’intermediazione sul Dibit 2, per aver presentato all’ospedale il costruttore Degennaro della Dec disponibile a finanziare l’operazione”. Anche in questo caso, si legge ancora nel verbale, “Coscera fu pagato dalla Fondazione tramite Sain Premier Mont e mi disse che Cal gli aveva chiesto una retrocessione”. Il meccanismo delle ‘retrocessioni’ di contanti è al centro dell’inchiesta: secondo l’accusa, infatti, alcuni fornitori e alcuni soggetti in rapporti d’affari con l’ospedale sovraffatturavano i costi ai danni delle casse del gruppo e retrocedevano poi soldi in contanti ai vertici del San Raffaele, i quali li giravano all’uomo d’affari Daccò che gestiva i fondi neri, riuscendo così ad occultarli.
Il verbale di interrogatorio è tra gli atti depositati dalla Procura dopo la conclusione delle indagini nei confronti di 7 persone, tra le quali lo stesso Daccò e l’ex direttore amministrativo del San Raffaele Mario Valsecchi, accusati tra le altre cose di associazione per delinquere e bancarotta fraudolenta. Anche Grenci è indagato nell’ambito della stessa inchiesta, ma in uno stralcio che la Procura non ha ancora chiuso.
Grenci, che da quanto si è saputo sta collaborando con i pm Luigi Orsi, Laura Pedio e Gaetano Ruta, titolari delle indagini sul dissesto finanziario del gruppo ospedaliero, in un interrogatorio reso il 5 dicembre scorso, ha ricostruito la rete di società estere di Daccò, il quale, secondo l’accusa, avrebbe fatto sparire i fondi neri creati attraverso le sovraffatturazioni dei costi a carico dell’ospedale.
Nei giorni scorsi sempre dalle carte dell’inchiesta era emerso che ai vertici del San Raffaele era nota la “gestione dissipatoria” di don Luigi Verzé e del vice Cal. Ma in alcuni casi le spese folli che hanno portato al crac erano mirate a “fare favori a qualcuno”. Tra questi anche l’acquisto di un aereo da 35 milioni di euro presentato dal prete-manager come un’operazione necessaria nell’interesse di “qualcuno”.
“Daccò ci disse di trasferire i soldi sul conto di Simone”. Nel verbale quello che viene ritenuto il braccio destro di Daccò parla, in particolare, della società Harman che “fu costituita nel 2007 – racconta – per svolgere consulenze in favore della Fondazione San Raffaele, in Italia ed all’estero”. In realtà, ha spiegato ai pm, “l’unica fattura fu quella di 510 mila euro di cui mi avete detto (i pm infatti la contestano come uno degli episodi di dissipazione, ndr). Quasi tutto di questo importo (500 mila euro) Harman l’ha girato ad Euro Worlwide. Mi si chiede se questi soldi siano finiti ad Antonio Simone e, ripensandoci, mi ricordo che Daccò ci indicò di trasferire quella somma su un conto nominativo di Antonio Simone”, esponente della Dc lombarda e assessore regionale alla Sanità nei primi anni Novanta. Grenci fornisce ai magistrati – che stanno proprio indagando per capire che fine abbiano fatto i fondi neri – “gli estremi del conto corrente di Simone sul quale è stato effettuato il bonifico”, conto “acceso presso la Hvb di Praga”, cioè la Hypovereinsbank. Grenci ha chiarito anche, in un altro passaggio del verbale, che “i due, Simone e Daccò, hanno una serie di affari all’interno dei quali” avrebbero “stabilito che a Daccò andasse l’usufrutto” di una “villa” in Sardegna, a Olbia. E poi l’elenco di una serie di società e “iniziative” che legherebbero Daccò e Simone.
Il nome di Simone era già emerso in un interrogatorio dello scorso 3 settembre di Stefania Galli, la segretaria di Cal (ex vicepresidente della Fondazione San Raffaele che a luglio si è suicidato alcuni giorni dopo essere stato sentito in Procura). La Galli ha parlato di un “viaggio in Brasile a cui hanno preso parte anche il dott. Cal” e altre persone, tra cui per l’appunto Simone, “molto legato a Daccò”, ha precisato la Galli. La collaboratrice di Cal riferisce che l’ex assessore e Daccò accompagnarono Cal e un’altra persona “al fine di vedere le fazende della Vds e combinare un incontro con rappresentanti di Comunione e Liberazione per valutare la possibile vendita delle attività in argomento”. La Vds Export è una società fondata nel 2010 e proprietaria al 40% della holding brasiliana omonima impegnata nelle coltivazioni di mango, meloni e uva.
“Daccò gestiva 20 società all’estero”. Daccò, ritenuto dai pm il collettore dei fondi neri realizzati dagli ex vertici del gruppo a scapito delle casse dell’ospedale San Raffaele, avrebbe gestito una rete di una ventina di società estere. E’ sempre Grenci a precisarlo in un’interrogatorio del 22 dicembre scorso. Il braccio destro ha portato ai magistrati documentazione che dimostrerebbe le “operazioni finanziarie” delle “società e conti personali riconducibili” a Daccò. In particolare un faldone con le carte su 11 società e un secondo con i documenti su 9 società. In più anche documentazione su operazioni finanziarie di 6 “società e conti personali riconducibili proprio ad Antonio Simone.
Chi è Antonio Simone. La figura di Antonio Simone, milanese, 58 anni, riemerge dopo poco meno di 20 anni. Simone arriva molto giovane ai vertici della Regione Lombardia, all’inizio degli anni Novanta. E’ stato a capo del Movimento popolare, autentica longa manus politica di Comunione e Liberazione che corre fedele al fianco della Democrazia Cristiana. La formazione – politica e non – di Simone avviene per intero sotto l’ombrello dei movimenti cattolici di base. Laureato in scienze politiche alla Cattolica, inizia a fare politica già all’università. Fonda lui, per esempio, i Cattolici Popolari. Poi l’ingresso nel Movimento Popolare del quale diventa responsabile nazionale. Si iscrive alla Dc nel 1984, ma già da 4 anni è consigliere regionale (è stato eletto a 26 anni), carica che riesce a mantenere per un secondo mandato fino al 1990.
Nel frattempo matura i meriti per una promozione: nel 1987 viene nominato all’assessore al commercio e al turismo dall’allora presidente della Regione Bruno Tabacci ed è poi confermato dal successore Giuseppe Giovenzana. Dalla giunta Simone (nel frattempo rieletto per la terza volta in consiglio regionale nel 1990) non esce, gestendo la delega alla Sanità e poi quella al coordinamento del territorio, fino al 1992.
La carriera politica di Simone, infatti, viene piegata dalla bufera di Tangentopoli (che peraltro porta allo scioglimento anche il Movimento popolare). Il suo nome rimbalza in più di un’inchiesta giudiziaria: una volta sono le licenze edilizie a Pieve Emanuele, un’altra la costruzione del nuovo ospedale di Lecco, un’altra ancora i falsi corsi professionali finanziati dallo Stato e dall’allora Cee. Alle dimissioni da assessore, tuttavia, viene costretto nell’agosto del 1992 per un’altra storia. A chiamarlo in causa è Maurizio Prada, ex segretario amministrativo della Dc lombarda. Prada, che si è nel frattempo conquistato l’appellativo di “grande elemosiniere” dei democristiani, è considerato il collettore delle tangenti e tra i destinatari dei versamenti di denaro fa anche i nomi di Simone, per l’appunto, oltre che di Giorgio Cioni (allora stretto collaboratore del deputato Roberto Formigoni e anche lui vicinissimo a Comunione e Liberazione). Simone viene sentito dal pm Antonio Di Pietro, poi consegna al presidente Giovenzana le sue dimissioni.
Nel 1994, tuttavia, Simone viene arrestato dalla Guardia di Finanza, per la questione di Pieve Emanuele: accusato di corruzione, Simone avrebbe ricevuto tangenti per 300 milioni di lire dai proprietari di alcuni terreni per assegnare, tramite le varianti al piano regolatore, una destinazione edilizia favorevole.
Simone sparisce definitivamente dalla politica, ma resta socio di Daccò, il “faccendiere amico dei politici”, ritenuto anche lui vicino a Cl. E in ogni caso la sagoma dell’ex assessore regionale rimane a lungo legata a Tangentopoli. Non fosse altro perché è lui a ricevere uno degli ultimi favori da Mario Chiesa, dal quale tutto il patatrac è partito. Niente che c’entri con il codice penale, ma proprio grazie al “mariuolo isolato” del Psi Simone (che da soli due mesi, per un rimpasto, ha lasciato la delega alla sanità) può trasferirsi con la famiglia in un appartamento da 300 metri quadrati di proprietà del Pio Albergo Trivulzio (contratto equo canone). Un’abitazione a meno di 50 metri dall’Arco della Pace tornata sui giornali lo scorso anno per lo scandalo degli appartamenti extralusso dell’istituto concessi a canoni bassissimi. L’intestataria di quella casa valutata un milione e 556 mila euro era ancora Carla Vites. La moglie di Simone.
I rapporti con Degennaro. Anche nell’inchiesta sul San Raffaele spunta la Dec, società dei costruttori Daniele e Gerardo Degennaro. C’è un indagato (Pierino Zammarchi, imprenditore edile, nei confronti del quale le indagini sono terminate) infatti che dice di aver visto uno dei Degennaro portare soldi in una valigia a Cal: ”Non lo sapevo. Prendo atto delle dichiarazioni rese da Pierino Zammarchi – ha spiegato ai pm l’ex direttore dell’ospedale Valsecchi – quando ha dichiarato di avere visto Degennaro portare soldi in valigia a Cal in 5-6 occasioni”.
Poi i pm chiedono conto a Valsecchi di alcuni “pagamenti a Saint Premier Mont”, che, secondo Valsecchi, è una “società svizzera” riferibile a tale “Coscera”. Questa società, chiarisce Valsecchi, “aveva fatto un contratto per individuare Degennaro. Quando la Fondazione (San Raffaele, ndr) iniziò a pensare alla costruzione del Dibit 2 (il Dipartimento Universitario di Medicina Molecolare del San Raffaele, ndr) ci fu una trattativa con la società austriaca Vamed, abortita. Fu così che Coscera, il responsabile di Saint Premier Mont, ci presentò Degennaro. La sua Dec si prese l’incarico di trovare il finanziatore. Sia la Fondazione che Dec pagarono una doppia ‘fee’ a Coscera”. Nacque anche un contenzioso, spiega ancora Valsecchi, “perchè Degennaro sostenne che non doveva nulla a Coscera perchè non era stato questo a presentarlo alla Fondazione. Non so chi avrebbe presentato Degennaro alla Fondazione al di fuori di Coscera”. Valsecchi sostiene che “la prima volta che ho visto Degennaro me lo ha presentato Coscera”.
In un altro passaggio dei verbali l’ex direttore del San Raffaele spiega anche che “Coscera è stato anche retribuito per l’intermediazione sul Dibit 2, per aver presentato all’ospedale il costruttore Degennaro della Dec disponibile a finanziare l’operazione”. Anche in questo caso, si legge ancora nel verbale, “Coscera fu pagato dalla Fondazione tramite Sain Premier Mont e mi disse che Cal gli aveva chiesto una retrocessione”. Il meccanismo delle ‘retrocessioni’ di contanti è al centro dell’inchiesta: secondo l’accusa, infatti, alcuni fornitori e alcuni soggetti in rapporti d’affari con l’ospedale sovraffatturavano i costi ai danni delle casse del gruppo e retrocedevano poi soldi in contanti ai vertici del San Raffaele, i quali li giravano all’uomo d’affari Daccò che gestiva i fondi neri, riuscendo così ad occultarli.
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