lunedì 16 aprile 2012

Lega, la Guardia di finanza in via Bellerio “Spariti altri 200mila euro di diamanti”.



Anche la Procura della Corte dei Conti della Lombardia ha aperto un procedimento sul caso dei bilanci del Carroccio, che avrebbe riscosso rimborsi elettorali non dovuti.


La sede di via Bellerio a Milano
Prosegue l’inchiesta della Procura di Milano sullo scandalo che ha travolto la Lega Nord e gli agenti della Guardia di Finanza sono nella sede federale di via Bellerio per acquisire documenti.

Anche la Procura della Corte dei Conti della Lombardia ha aperto un procedimento sul caso dei bilanci del Carroccio, che avrebbe avuto rimborsi elettorali non dovuti e il suo capo, Antonio Caruso, si è presentato con altri due magistrati contabili nell’ufficio del procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo, titolare dell’indagine con al centro l’ex tesoriere Francesco Belsito assieme ai pm Roberto Pellicano e Paolo Filippini. La ‘visita’, da quanto si è appreso, serve ai magistrati contabili per prendere ‘contatti’ per un eventuale scambio di carte necessario per il procedimento davanti alla Corte dei Conti. Un procedimento, da quanto si è appreso, che è autonomo rispetto a quello penale e relativo a un presunto danno erariale, partendo dall’ipotesi di truffa ai danni dello Stato contestata dalla Procura di Milano.

Secondo le indagini penali, infatti, Belsito ‘truccando’ i bilanci del Carroccio avrebbe fatto ottenere al partito rimborsi elettorali non dovuti che, solo per il 2011, ammontano a circa 18 milioni di euro.

Secondo gli inquirenti milanesi che indagano sulle distrazioni di fondi, ‘mancano all’appello’ altri 200 mila euro di diamanti che sarebbero stati acquistati dall’ex tesoriere Belsito con i soldi del partito. Nei giorni scorsi infatti era emerso che gli inquirenti erano ‘a caccia’ di lingotti d’oro per il valore di 200 mila euro e di diamanti per 100 mila euro. Ora si è saputo che l’ex amministratore avrebbe comprato diamanti per un totale di 300 mila euro.

Valter Lavitola in Italia, arrestato. Richiesta di custodia per il senatore Sergio De Gregorio.



Il commercialista del parlamentare, sentito come teste dai pm di Napoli, dice che il passaggio al partito di Berlusconi fu opera dell'ex direttore dell'Avanti!. Il faccendiere, rientrato oggi in Italia e trasferito a Poggioreale, è accusato di corruzione internazionale e associazione a delinquere.


Lavitola arrestato all'arrivo in Italia
Dieci ordinanze di custodia con accuse che vanno dalla corruzione internazionale alla associazione a delinquere: il rientro in Italia di Valter Lavitola non è passato inosservato. Atterrato all’aeroporto di Fiumicino alle 6.40 con un volo proveniente da Buenos Aires, l’ex direttore dell’Avanti!, già coinvolto nell’inchiesta che riguarda l’imprenditore Gianpaolo Tarantini, è stato arrestato dalla polizia di frontiera, in relazione ai provvedimenti che la Guardia di Finanza di Napoli e la Digos gli avevano notificato. E’ accusato di corruzione internazionale e associazione a delinquere. Dopo le formalità di rito, l’ex direttore è stato portato a Napoli e accompagnato nel carcere di Poggioreale. Richiesta di custodia ai domiciliari anche per il senatore Sergio De Gregorio, anche lui ex direttore de L’Avanti!. Il commercialista del Senatore, sentito come teste dai pm di Napoli, dice che il passaggio al partito di Berlusconi fu opera di Valter Lavitola e aggiunge: “Il suo passaggio al Pdl fu lautamente pagato”. Due i filoni di indagine.



I FONDI PER L’EDITORIA E L’ASSOCIAZIONE A DELINQUERE
Il primo, seguito dalla Guardia di Finanza, riguarda la distrazione di fondi per l’editoria per un ammontare complessivo di circa 23 milioni di euro. Ed è in questo filone che si inserisce anche il nome del senatore Sergio De Gregorio e di altre quattro persone: Vincenzo Ghionni, Roberto Cristiano, Antonio Bifano e Patrizia Gazzulli, oltre allo stesso Lavitola.

Al senatore del Pdl, già direttore dello stesso Avanti!, un passato nell’Italia dei Valori – eletto nel 2006, cambiò schieramento poco dopo avere ottenuto la presidenza della commissione Difesa con i voti dell’allora Casa della Libertà – e a Lavitola, viene contestato di essere promotori di una associazione a delinquere finalizzata, di fatto, a ottenere contributi per l’editoria poi distratti e impiegati in altre attività. Secondo gli inquirenti, De Gregorio sarebbe responsabile – nel periodo tra il 2005 e la metà del 2007 – di episodi di false fatturazioni, occultamento di atti contabili, corruzione, bancarotta fraudolenta, truffa e appropriazione indebita. In questo contesto, sarebbero state costituite amministrate e poi anche “spogliate” alcune società “che fornivano stabilmente i giustificati documentali relativi a prestazioni inesistenti – scrive il gip – sia per ottenere contributi pubblici per l’editoria (dirottati, poi, verso destinazioni allo stato ignote ed in via di accertamento e comunque nella disponibilità individuale degli indagati e di altri soggetti allo stato non identificati), sia per mascherare attività di spoliazione patrimoniale delle società e di riciclaggio e per occultare i proventi di attività corruttive ovvero le provviste per corrompere”. I soldi “distratti” sarebbero poi stati reinvestiti, secondo l’accusa, all’estero. E principalmente a Panama, in Kurdistan, Kazakistan e Emirati Arabi.


“PASSAGGIO AL PDL DI DE GREGORIO LAUTAMENTE REMUNERATO”Un provvedimento di richiesta di arresti domiciliari è stato trasmesso al Senato per l’autorizzazione all’esecuzione. Interpellato dall’Ansa, il senatore del Pdl ha detto di volersi difendere ”con le unghie e coni denti”. “Non essendomi mai sottratto all’autorità giudiziaria non capisco quale necessità ci sia di questa misura cautelare”, ha aggiunto. De Gregorio dovrà rispondere anche delle accuse che ora arrivano dai testimoni dell’inchiesta sul suo passaggio al Pdl: “Fu lautamente retribuito”. Ad affermarlo è stato Andrea Vetromile, commercialista e collaboratore di De Gregorio, interrogato come teste dai pm di Napoli. Il verbale, con diversi omissis, è riportato nell’ordinanza di custodia notificata oggi. Secondo il testimone, fu Valter Lavitola “che accreditò De Gregorio presso Berlusconi. De Gregorio – ha spiegato Vetromile – è un ex socialista come Lavitola. Egli dunque considerava il suo approdo naturale Forza Italia. Si candidò con Di Pietro in quanto questo partito gli aveva garantito una candidatura come capolista al Senato… Una volta eletto passò nelle fila del centrodestra. Ebbene fu proprio Lavitola che, forte dei suoi rapporti personali con Berlusconi, concretizzò questo accordo. Voglio precisare anche che l’accordo del passaggio di De Gregorio al centrodestra venne così lautamente remunerato…(omissis)”.


LE CARCERI A PANAMA E IL RUOLO DI MARTINELLI
Il secondo filone dell’inchiesta, nelle mani della Digos, riguarda invece presunti episodi di corruzione internazionale per la costruzione di strutture carcerarie a Panama. Un affare da 170 milioni di euro, poi tramontato, di cui altro personaggio chiave è Angelo Capriotti, socio del consorzio Svemark – per i cui beni è stato disposto oggi il sequestro – per la produzione di celle modulari. Capriotti è lo stesso che diede lavoro alla moglie di Tarantini, Nicla De Venuto. Anche lui figura tra i destinatari degli ordini di custodia, insieme a Paolo Passalacqua, Claudio Fagiano e Enzo Valori.

Dalle fonti di prove acquisite dai pubblici ministeri di Napoli Henry John Woodcock e Vincenzo Piscitelli riguardo alle attività svolte all’estero da Lavitola, “emerge chiaramente , a livello di gravità indiziaria, il coinvolgimento, oltre del Lavitola nel ruolo di intermediario, del Presidente di Panama Martinelli e di uomini del suo governo nel mercimonio” legato alla realizzazione di carceri modulari nello Stato dell’America centrale. Lo stesso Martinelli avrebbe ricevuto da Lavitola denaro contenuto in una valigetta. Il valore stimato per l’appalto era di 176 milioni di euro per la realizzazione di carceri modulari. Lavitola avrebbe avuto un ruolo di mediatore “accreditato” sia presso il governo di Panama che presso autorità italiane. Il valore dei beni promessi è stimato in circa 28 milioni di euro mentre le somme effettivamente corrisposte sono di 530mila euro e 140mila dollari.

“CINQUE MILIONI DI EURO PER STARE ZITTO”
E secondo i pm, oltre alle attività estere, Valter Lavitola si occupava dei suoi ‘interessi’ in Italia: l’intenzione era di chiedere 5 milioni di euro a Silvio Berlusconi. E se il leader del Pdl non avesse pagato, Lavitola “avrebbe avuto tutte le giustificazioni, anche morali, per dire tutto quello che sapeva su Berlusconi”. A dichiararlo ai pm di Napoli è Maria Lavitola, sorella del direttore dell’Avanti. Maria Lavitola ha prima riferito di una telefonata ricevuta dal fratello in cui questi le chiese di recuperare un contratto di pubblicità da 800mila euro stipulato dall’Avanti con Berlusconi tra il 1998 e il 2002-3. “Mi disse – ha dichiarato – che dovevo prendere questo contratto e portarlo a Berlusconi”. Quando lei domandò il motivo, Valter Lavitola le avrebbe risposto: “Sono cazzi miei”. “Non cercai – ha poi affermato – neanche di trovare questo contratto perché sapevo che mi sarei cacciata in un guaio. A mio fratello dissi una frottola”. La testimone rivela anche di aver incontrato nel novembre scorso una donna, Neire Cassia Pepes Gomez, che a suo dire sarebbe stata inviata in Italia dal fratello. Neire le riferì di avere con sè una lettera di Valter da consegnare ad un avvocato che avrebbe dovuto recarsi da Berlusconi per chiedergli la somma di 5 milioni di euro. Il legale tuttavia le disse che di questa faccenda “non voleva saperne nulla”. “Io chiesi a Neire – ha dichiarato Maria Lavitola – a che titolo Berlusconi dovesse dare questi soldi a mio fratello e lei mi rispose che era una tattica, nel senso che se gli dava questi 5 milioni di euro andava tutto bene, mentre se non li dava Valter, una volta tornato in Italia, avrebbe avuto tutte le giustificazioni anche morali per dire tutto quello che sapeva su Berlusconi. Insomma, a dire di Neire, non bisognava spiegare a Berlusconi il motivo della richiesta”.

Perché il Movimento 5 Stelle non è anti-politica. - Peter Gomez





Sbaglia chi definisce populista il Movimento 5 stelle fondato da Beppe Grillo. Certo, alcune sparate del comico genovese ricordano quelle di Umberto Bossi. I suoi toni e e le sue parole possono, legittimamente, non piacere.

Ma molti temi da lui proposti sono importanti, meritevoli di essere discussi o semplicemente condivisibili. E sopratutto dietro a Grillo esiste un popolo di militanti tra i quali non è poi così raro scorgere il meglio del Paese.

Chi ha partecipato agli incontri organizzati dai meetup sa che questi gruppi sono composti da cittadini informati solitamente ad alto tasso di scolarizzazione, impegnati nel sociale o in iniziative legate alle condizioni del territorio: inquinamento, energia, modelli di sviluppo, spesa pubblica nei comuni e nelle regioni.

Ovviamente, se davvero alle prossime amministrative il Movimento raccoglierà quel successo vaticinato dagli ultimi sondaggi, questo sarà dovuto anche al voto di protesta. Ma la cosa non basta per bollare i 5 Stelle come espressione dell’anti-politica, come fanno gli spaventati Pierluigi Bersani e Niki Vendola o, su quasi tutti i giornali, i grandi commentatori del secolo scorso.

Gli osservatori attenti e in buona fede, infatti, non possono negare che l’attività degli attivisti e dei rappresentanti dei cittadini fin qui eletti nei comuni e nelle regioni, dimostra proprio il contrario.

Le scelta di rinunciare ai finanziamenti pubblici, di mettere un tetto al numero di candidature consecutive, la presenza di programmi precisi, sono un fatto politico. Così come sono state politica, con la P maiuscola, le raccolte di firme per le leggi d’iniziativa popolare che il parlamento ha scandalosamente ignorato.

Solo negli anni a venire sapremo se il Movimento 5 stelle sarà parte (e quale parte) di quel grande cambiamento di cui ha bisogno il Paese. Che Grillo dica di non aspirare a nessuna carica pubblica è un buona cosa. Meno buono è invece il suo atteggiamento nei confronti di chi la pensa diversamente da lui o esercita il diritto di cronaca e di critica.

Ma al di là dei giudizi sulle singole iniziative e prese di posizione, resta un fatto. Il Movimento 5 stelle è vivo e vuole crescere. E questo oggi, in un mondo popolato da partiti e leader ormai (politicamente) morti, è già tanto.

Se poi sia abbastanza non dipenderà da Grillo. Ma dalla qualità, le capacità e la volontà, dei cittadini che corrono con lui.



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domenica 15 aprile 2012

Super-manager, questi costano come i partiti. - di Vittorio Malagutti e Giorgio Meletti






Cinquanta stipendi d’oro 2011 valgono quanto un anno di rimborsi elettorali. E i capi azienda affrontano la crisi con il posto fisso. Il loro.

Scordatevi il posto fisso”, moraleggiava pochi giorni fa il presidente di Mediobanca, Renato Pagliaro. Nell’occasione si è dimenticato di spiegare all’attonita platea di liceali milanesi come mai nel 2011 la sobria banca fondata da Enrico Cuccia ha premiato l’amministratore delegato Alberto Nagel con 384 mila euro una tantum per i vent’anni di anzianità aziendale. Pagliaro e Nagel certo non sarebbero i testimonial più adatti per convincere i lavoratori italiani a non restare avvinti come l’edera al posto fisso, mentre sono ottimi per dimostrare che quanto a coerenza tra il dire e il fare i grandi manager italiani non sono migliori dei politici.

E a proposito di costi della politica, guardate la tabella che pubblichiamo in questa pagina: sono 50 tra i maggiori stipendi di top manager, ricavati dai bilanci 2011 pubblicati finora (mancano ancora all’appello colossi come Intesa San-paolo, Telecom Italia e Fin-meccanica). Il totale delle somme incassate da questi 50 superuomini l’anno scorso è di oltre 134 milioni, cifra vicina ai 170 milioni che i partiti aspettano di incassare con la rata annuale del prossimo luglio. Nel complesso i top manager delle società quotate in Borsa costano almeno il triplo, una cifra vicina ai 500 milioni: in un anno quanto tutti i partiti prendono di rimborso elettorale per le politiche in 5 anni. La classe dirigente dell’economia italiana costa dunque cinque volte il sistema dei partiti: con risultati cinque volte migliori? A giudicare dall’andamento delle società e dalla marea montante della disoccupazione non si direbbe.

Tra I 50 manager della lista ben 18 sono azionisti di controllo delle società che amministrano, o loro familiari. A cominciare dal recordman, Marco Tronchetti Provera. È in questo modo che i nostri imprenditori si mettono al riparo dal rischio d’impresa, che volentieri scaricano sui dipendenti, destinati a perdere il lavoro quando le cose vanno male (“è il mercato bellezza”). Se l’azienda va male e non distribuisce dividendi agli azionisti, i padroni si garantiscono il reddito assegnando a se stessi e ai propri cari sontuosi stipendi fissi. Tipico il caso della famiglia Ligresti: i figli del capostipite Salvatore (Jonella, Giulia e Paolo) assistono al disastro del gruppo assicurativo Fonsai serenamente assisi sui loro stipendi milionari. Mirabile il caso dei fratelli Gianmarco e Massimo Moratti: la loro azienda, la Saras, ha chiuso il 2011 in perdita come il 2010, ma il presidente e l’amministratore delegato continuano a prendersi il loro stipendio invariabile da anni: 2 milioni e 536 mila euro a testa. Posto fisso e stipendio fisso, milionario, mentre a chi lavora nella loro raffineria di Sarroch, in provincia di Cagliari, con contratti precari da mille euro al mese se va bene si predica la flessibilità e “che noia il posto fisso”.

Fin qui i privati. Nell'anno della bufera del debito pubblico e dei tagli alla spesa sociale, proprio i manager di due grandi aziende di Stato come Eni ed Enel hanno festeggiato un aumento in busta paga. Come il Fatto Quotidiano ha già raccontato in un articolo dell'8 aprile scorso, Paolo Scaroni, il gran capo del cane a sei zampe, l'anno scorso ha ricevuto compensi per un totale di oltre 5,8 milioni, il 30 per cento in più del 2010, mentre suo collega Fulvio Conti, amministratore delegato dell'azienda elettrica, è arrivato a 4,37 milioni, con un balzo del 40 per cento circa rispetto a quanto, dedotte alcune voci di competenza dell'anno precedente, gli era stato accordato nel 2010. Un bel salto, non c'è che dire. Soprattutto se si considera che i due gruppi energetici nel 2011 hanno fatto segnare risultati non proprio brillanti. Per l'Eni i profitti sono aumentati solo del 9 per cento rispetto all'esercizio precedente, mentre l'Enel ha visto calare gli utili del 5 per cento.

Fa un gran balzo anche il compenso di Tronchetti Provera, che passa da 6,4 a 22 milioni di euro. L'aumento, così come quello del direttore generale Francesco Gori (10,5 milioni di stipendio), si spiega in gran parte con un superbonus di oltre 18 milioni di euro. In pratica il numero uno della Pirelli ha incassato nel corso del 2011 le quote di incentivo relative anche ai due anni precedenti. Va detto che dal 2009 al 2011 i risultati del gruppo del cinturato sono notevolmente migliorati. Il progresso si spiega in parte con la separazione dal business immobiliare, fonte di forti perdite negli esercizi passati, ma anche le attività industriali hanno ricominciato a produrre utili importanti. Lo stesso non si può dire della Fondiaria assicurazioni, che nel 2011 ha passato ogni sorta di guai, fino ad arrivare a un commissariamento de facto da parte dei creditori. Questo però non ha impedito alla presidente Jonella Ligresti di ricevere un compenso di oltre 2,5 milioni. Un compenso addirittura superiore a quello di Giovanni Perissinotto, amministratore delegato di una compagnia come le Generali che continua a macinare utili.

A prima vista si direbbe che perfino il gran capo della Fiat, Sergio Marchionne sia stato costretto a tirare la cinghia (si fa per dire) nel 2011. I suoi compensi cash sono infatti calati di quasi un milione, da 3,4 a 2,4 milioni. E' solo un'impressione, perchè gran parte del compenso del manager del Lingotto viene pagato in azioni Fiat. In gergo si chiamano stock grant e nei primi mesi del 2012 Marchionne ha ricevuto titoli per un valore di circa 50 milioni. Regali esclusi, in casa Fiat lo stipendio del numero uno è stato superato anche da un altro top manager. Il presidente Luca Cordero di Montezemolo nel 2011 ha portato a casa 5,5 milioni di euro, più del doppio rispetto a Marchionne. Sono i benefit del cavallino rampante.



http://temi.repubblica.it/micromega-online/super-manager-questi-costano-come-i-partiti/