Le motivazioni della sentenza di appello: dubbi sul morso, alcuni punti oscuri.
ROMA - Non ci sono prove per dimostrare che Raniero Busco il 7 agosto 1990 uccise l'allora fidanzata Simonetta Cesaroni; anzi, di più, non c'é un movente dietro l'omicidio e rimangono "inquietanti" interrogativi a rendere oscura una storia che da subito catturò l'opinione pubblica, restando ancor adesso uno dei più bui misteri di Roma. A solo 42 giorni dalla sentenza di secondo grado, i giudici della I Corte d'assise d'appello hanno depositato le motivazioni del provvedimento con il quale il 24 aprile hanno assolto Busco dall'accusa di omicidio aggravato da sevizie e crudeltà, ribaltando la sentenza di primo grado che invece lo aveva visto condannato a 24 anni di reclusione.
Ventinove coltellate, in più parti del corpo: così fu trovata Simonetta negli uffici romani dell'Aiag. Una tragedia sulla quale ci sono state due inchieste; l'ultima nel 2004, quando le prove furono rivalutate alla luce delle nuove tecnologie. Si arrivò all'imputazione di Busco, s'inframezzò con la sua condanna, si è conclusa con l'assoluzione. E alla fine "non vi sono elementi per ritenere provata al di là di ogni ragionevole dubbio la penale responsabilità" di Raniero, si legge tra le righe delle 186 pagine della sentenza. Non vi è prova che in occasione dell'omicidio "fu inferto un morso" a Simonetta; è uno dei 'punti fermi' dei giudici. Anche qualora un morso ci fosse stato, poi, "una sua attribuzione all'imputato non sarebbe scientificamente sostenibile".
Per i giudici, chi uccise Simonetta "ripulì accuratamente la scena del delitto", portando via la maggior parte degli indumenti della ragazza; sul reggiseno e sul corpetto della ragazza "sono presenti tracce di Dna minoritario riconducibili a Busco", ma "non è provato che le stesse siano state rilasciate in occasione del delitto". Chiaro il passaggio della sentenza in merito al movente 'inesistente'. Sostengono i giudici che Simonetta e Raniero avevano certo una relazione che "poteva essere problematica", ma non c'é traccia dell'esistenza di "atti specifici di violenza commessi dall'imputato"; si accenna anche al ritrovamento di "tracce biologiche ed ematiche attribuibili a due diversi soggetti di sesso maschile che non possono identificarsi con Raniero Busco" e non c'é prova che il giovane abbia fornito un "alibi mendace".
Alla fine, i giudici rilanciano anche quelli che definiscono "i punti oscuri della vicenda": la resistenza della portiera Giuseppa De Luca (moglie del portiere Pietrino Vanacore, suicidatosi alla vigilia della sua deposizione nel processo di primo grado) a consegnare le chiavi dell'ufficio di via Poma alla polizia, il fatto che le stesse chiavi non dovessero essere in possesso della donna, e il ritrovamento dell'agendina rossa di Vanacore fra gli effetti personali di Simonetta,benché lui avesse sempre detto di non essere entrato in quell'ufficio prima dell'accesso che avrebbe portato alla scoperta del cadavere. Tutti elementi che non portano "a una tranquillizzante certezza".