Otto anni di carcere. È questa la condanna che il pm Nino Di Matteo ha chiesto durante la sua requisitoria per l'ex ministro dell'Agricoltura Saverio Romano, sotto processo a Palermo per concorso in associazione mafiosa. Un procedimento che, dopo due richieste di archiviazione da parte della Procura e un’imputazione coatta ordinata lo scorso anno dal Gip Giuliano Castiglia, è ora alle battute finali di fronte al gup Ferdinando Sestito, che il 17 luglio prossimo dovrebbe emettere la sentenza.
Secondo le accuse Romano avrebbe “stipulato un patto politico-elettorale-mafioso con Cosa nostra”,”contribuendo al rafforzamento dell'organizzazione” criminale siciliana. I fatti descritti in aula dal pm Di Matteo hanno toccato come primo punto l’incontro con Angelo Siino nel 1991 quando il politico, allora consigliere provinciale di Palermo, andò a casa dell’ex ministro dei lavori pubblici di cosa nostra, insieme a Salvatore Cuffaro, per chiedere un coinvolgimento maggiore nella spartizione degli appalti delle imprese di Belmonte Mezzagno.
Secondo le accuse Romano avrebbe “stipulato un patto politico-elettorale-mafioso con Cosa nostra”,”contribuendo al rafforzamento dell'organizzazione” criminale siciliana. I fatti descritti in aula dal pm Di Matteo hanno toccato come primo punto l’incontro con Angelo Siino nel 1991 quando il politico, allora consigliere provinciale di Palermo, andò a casa dell’ex ministro dei lavori pubblici di cosa nostra, insieme a Salvatore Cuffaro, per chiedere un coinvolgimento maggiore nella spartizione degli appalti delle imprese di Belmonte Mezzagno.
Di Matteo sottolinea più volte la consapevolezza del politico rispetto al profilo mafioso di Siino richiamando il dato che Cuffaro si servì proprio del mafioso, all’epoca semplice consigliere comunale, per farlo arrivare niente di meno che “primo degli eletti a Palermo”. “Romano e Cuffaro – ha detto il pm – sapevano benissimo che peso avesse Siino dentro Cosa Nostra: in un primo momento Romano volle incontrarlo per chiedergli di tenere in considerazione nel sistema degli appalti anche gli imprenditori di Belmonte Mezzagno, suo paese d’origine. Poi all’incontro partecipò anche Cuffaro e l’oggetto del colloquio diventò quindi la richiesta di sostegno elettorale per le consultazioni regionali del 1991, in cui lo stesso Cuffaro era candidato”.
Il sostegno elettorale di Villabate e Belmonte Mezzagno
Per affermare il contributo consapevole di Romano a Cosa Nostra più volte in aula è stata citata la sentenza di cassazione a carico dell’ex presidente della regione siciliana Salvatore Cuffaro, due politici che hanno fatto strada insieme al punto che sarà poi Romano ad accompagnare l’ex Governatore al carcere romano di Rebibbia al momento del suo arresto. “Cuffaro e Romano – ha spiegato Di Matteo- hanno condiviso le stesse clientele mafiose. Esiste un patto tra politica e mafia, un patto già accertato dalle sentenze definitive che condannano Cuffaro; un patto a cui ha partecipato anche attivamente lo stesso Romano”. Entrambi politicamente fecero il loro salto di qualità nel 2001, Cuffaro alla Regione e Romano al Parlamento. Quest’ultimo, secondo la ricostruzione della Procura, sarebbe stato eletto nel collegio di Bagheria grazie al supporto elettorale della famiglia mafiosa di Nino Mandalà e quella di Belmonte Mezzagno, capeggiata all’epoca dal boss Francesco Pastoia, per anni responsabile della protezione della latitanza del superboss Bernardo Provenzano (morto suicida in carcere dopo la cattura del 2004). Ad affermarlo erano stati i pentiti Giacomo Greco (genero di Pastoia) e Francesco Campanella, l’ex presidente del consiglio del comune di Villabate che falsificò la carta d’identità di Provenzano per poter recarsi a Marsiglia ed effettuare il suo intervento alla prostata. Fu lo stesso Romano che in un pranzo romano in una trattoria a campo dei fiori alla presenza del dott. Sarno, Cuffaro e Franco Bruno affermò che Campanella, seppur di partito opposto al suo, avrebbe dovuto votarlo facendo riferimento alla loro partecipazione “alla stessa famiglia”. “Franco Bruno – aveva affermato Campanella ai pm - conosceva perfettamente il mio cattivo rapporto con l’onorevole Romano, e scherzando a tavola disse: Saverio, tu sei candidato nel collegio di Bagheria dove c’è anche Villabate, ma lo sai che Francesco non ti vota, perché voterà per il centrosinistra? Stizzito Romano si alzò e pronunciò una frase che mi resterà sempre impressa: No, Francesco mi vota, perché siamo della stessa famiglia. E poi girato verso di me aggiunse: scinni a Villabate e t’informi. Franco Bruno poi mi disse: è un pazzo che dice ‘ste cose con un magistrato in giro. Tornato poi a Villabate affrontai l’argomento, proprio come lui mi aveva chiesto in quella battuta, con Mandalà, il quale mi confermò che Saverio Romano era stato indicato dalla famiglia mafiosa di Belmonte Mezzagno”.
Per affermare il contributo consapevole di Romano a Cosa Nostra più volte in aula è stata citata la sentenza di cassazione a carico dell’ex presidente della regione siciliana Salvatore Cuffaro, due politici che hanno fatto strada insieme al punto che sarà poi Romano ad accompagnare l’ex Governatore al carcere romano di Rebibbia al momento del suo arresto. “Cuffaro e Romano – ha spiegato Di Matteo- hanno condiviso le stesse clientele mafiose. Esiste un patto tra politica e mafia, un patto già accertato dalle sentenze definitive che condannano Cuffaro; un patto a cui ha partecipato anche attivamente lo stesso Romano”. Entrambi politicamente fecero il loro salto di qualità nel 2001, Cuffaro alla Regione e Romano al Parlamento. Quest’ultimo, secondo la ricostruzione della Procura, sarebbe stato eletto nel collegio di Bagheria grazie al supporto elettorale della famiglia mafiosa di Nino Mandalà e quella di Belmonte Mezzagno, capeggiata all’epoca dal boss Francesco Pastoia, per anni responsabile della protezione della latitanza del superboss Bernardo Provenzano (morto suicida in carcere dopo la cattura del 2004). Ad affermarlo erano stati i pentiti Giacomo Greco (genero di Pastoia) e Francesco Campanella, l’ex presidente del consiglio del comune di Villabate che falsificò la carta d’identità di Provenzano per poter recarsi a Marsiglia ed effettuare il suo intervento alla prostata. Fu lo stesso Romano che in un pranzo romano in una trattoria a campo dei fiori alla presenza del dott. Sarno, Cuffaro e Franco Bruno affermò che Campanella, seppur di partito opposto al suo, avrebbe dovuto votarlo facendo riferimento alla loro partecipazione “alla stessa famiglia”. “Franco Bruno – aveva affermato Campanella ai pm - conosceva perfettamente il mio cattivo rapporto con l’onorevole Romano, e scherzando a tavola disse: Saverio, tu sei candidato nel collegio di Bagheria dove c’è anche Villabate, ma lo sai che Francesco non ti vota, perché voterà per il centrosinistra? Stizzito Romano si alzò e pronunciò una frase che mi resterà sempre impressa: No, Francesco mi vota, perché siamo della stessa famiglia. E poi girato verso di me aggiunse: scinni a Villabate e t’informi. Franco Bruno poi mi disse: è un pazzo che dice ‘ste cose con un magistrato in giro. Tornato poi a Villabate affrontai l’argomento, proprio come lui mi aveva chiesto in quella battuta, con Mandalà, il quale mi confermò che Saverio Romano era stato indicato dalla famiglia mafiosa di Belmonte Mezzagno”.
Le Candidature di Miceli e Acanto
In cambio di quel sostegno elettorale Saverio Romano pagò quindi il suo pegno inserendo nella lista del Cdu e in quella del biancofiore due candidature volute da cosa nostra, quella di Mimmo Miceli e Giuseppe Acanto.
“La candidatura di Miceli e di Acanto – ha affermato Di Matteo – è una delle rate che Romano e Cuffaro devono pagare per mantenere i patti con Cosa Nostra. Miceli infatti rappresenta gli interessi del boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro, uno che già all’epoca era stato condannato per mafia. La candidatura di Acanto viene invece chiesta dalla famiglia mafiosa di Villabate e dal boss Nino Mandalà: del resto sappiamo che quando Acanto arrivò all’Assemblea regionale una parte del suo stipendio da deputato regionale finiva a Mandalà, come riconoscimento per l’aiuto elettorale ricevuto”. Secondo Di Matteo una delle provae più importanti del contributo offerto da Romano a cosa nostra e quindi del conseguente rafforzamento all’organizzazione si trova nelle intercettazioni ambientali registrate già dai primi mesi del 2001 a casa del boss Giuseppe Guttadauro. Dai discorsi di via de Cosmi 15 non solo emerge la corresponsabilità di Romano e Cuffaro nell’inserimento in lista di Miceli per accontentare i desiderata del capomadamento di Brancacciio ma il tentativo di Romano di incontrare in via riservata Guttadauro, in vista delle elezioni politiche, sapendo che tipo di ‘collaborazione’ ciò gli avrebbe portato.
Di Matteo ha quindi posto l’accento sul contributo politico offerto a Cosa Nostra dall’ex ministro delle Politiche Agricole, un “apporto concreto e rilevante” per la candidatura di Miceli, “concorrente con Cuffaro”, mentre “decisivo e preponderante” nella candidatura Acanto.
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“La candidatura di Miceli e di Acanto – ha affermato Di Matteo – è una delle rate che Romano e Cuffaro devono pagare per mantenere i patti con Cosa Nostra. Miceli infatti rappresenta gli interessi del boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro, uno che già all’epoca era stato condannato per mafia. La candidatura di Acanto viene invece chiesta dalla famiglia mafiosa di Villabate e dal boss Nino Mandalà: del resto sappiamo che quando Acanto arrivò all’Assemblea regionale una parte del suo stipendio da deputato regionale finiva a Mandalà, come riconoscimento per l’aiuto elettorale ricevuto”. Secondo Di Matteo una delle provae più importanti del contributo offerto da Romano a cosa nostra e quindi del conseguente rafforzamento all’organizzazione si trova nelle intercettazioni ambientali registrate già dai primi mesi del 2001 a casa del boss Giuseppe Guttadauro. Dai discorsi di via de Cosmi 15 non solo emerge la corresponsabilità di Romano e Cuffaro nell’inserimento in lista di Miceli per accontentare i desiderata del capomadamento di Brancacciio ma il tentativo di Romano di incontrare in via riservata Guttadauro, in vista delle elezioni politiche, sapendo che tipo di ‘collaborazione’ ciò gli avrebbe portato.
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Ricordiamo, con molto rammarico, che Napolitano accettò la sua nomina a ministro anche se con riserva.