martedì 17 luglio 2012

Mafia: Chiesti otto anni per l’on. Romano. - Lorenzo Baldo e Silvia Cordella


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Otto anni di carcere. È questa la condanna che il pm Nino Di Matteo ha chiesto durante la sua requisitoria per l'ex ministro dell'Agricoltura Saverio Romano, sotto processo a Palermo per concorso in associazione mafiosa. Un procedimento che, dopo due richieste di archiviazione da parte della Procura e un’imputazione coatta ordinata lo scorso anno dal Gip Giuliano Castiglia, è ora alle battute finali di fronte al gup Ferdinando Sestito, che il 17 luglio prossimo dovrebbe emettere la sentenza.
Secondo le accuse Romano avrebbe “stipulato un patto politico-elettorale-mafioso con Cosa nostra”,”contribuendo al rafforzamento dell'organizzazione” criminale siciliana. I fatti descritti in aula dal pm Di Matteo hanno toccato come primo punto l’incontro con Angelo Siino nel 1991 quando il politico, allora consigliere provinciale di Palermo, andò a casa dell’ex ministro dei lavori pubblici di cosa nostra, insieme a Salvatore Cuffaro, per chiedere un coinvolgimento maggiore nella spartizione degli appalti delle imprese di Belmonte Mezzagno.
Di Matteo sottolinea più volte la consapevolezza del politico rispetto al profilo mafioso di Siino richiamando il dato che Cuffaro si servì proprio del mafioso, all’epoca semplice consigliere comunale, per farlo arrivare niente di meno che “primo degli eletti a Palermo”. “Romano e Cuffaro – ha detto il pm – sapevano benissimo che peso avesse Siino dentro Cosa Nostra: in un primo momento Romano volle incontrarlo per chiedergli di tenere in considerazione nel sistema degli appalti anche gli imprenditori di Belmonte Mezzagno, suo paese d’origine. Poi all’incontro partecipò anche Cuffaro e l’oggetto del colloquio diventò quindi la richiesta di sostegno elettorale per le consultazioni regionali del 1991, in cui lo stesso Cuffaro era candidato”.
Il sostegno elettorale di Villabate e Belmonte Mezzagno
Per affermare il contributo consapevole di Romano a Cosa Nostra più volte in aula è stata citata la sentenza di cassazione a carico dell’ex presidente della regione siciliana Salvatore Cuffaro, due politici che hanno fatto strada insieme al punto che sarà poi Romano ad accompagnare l’ex Governatore al carcere romano di Rebibbia al momento del suo arresto. “Cuffaro e Romano – ha spiegato Di Matteo- hanno condiviso le stesse clientele mafiose. Esiste un patto tra politica e mafia, un patto già accertato dalle sentenze definitive che condannano Cuffaro; un patto a cui ha partecipato anche attivamente lo stesso Romano”.
Entrambi politicamente fecero il loro salto di qualità nel 2001, Cuffaro alla Regione e Romano al Parlamento. Quest’ultimo, secondo la ricostruzione della Procura, sarebbe stato eletto nel collegio di Bagheria grazie al supporto elettorale della famiglia mafiosa di Nino Mandalà e quella di Belmonte Mezzagno, capeggiata all’epoca dal boss Francesco Pastoia, per anni responsabile della protezione della latitanza del superboss Bernardo Provenzano (morto suicida in carcere dopo la cattura del 2004). 
Ad affermarlo erano stati i pentiti Giacomo Greco (genero di Pastoia) e Francesco Campanella, l’ex presidente del consiglio del comune di Villabate che falsificò la carta d’identità di Provenzano per poter recarsi a Marsiglia ed effettuare il suo intervento alla prostata. Fu lo stesso Romano che in un pranzo romano in una trattoria a campo dei fiori alla presenza del dott. Sarno, Cuffaro e Franco Bruno affermò che Campanella, seppur di partito opposto al suo, avrebbe dovuto votarlo facendo riferimento alla loro partecipazione “alla stessa famiglia”. “Franco Bruno – aveva affermato Campanella ai pm -  conosceva perfettamente il mio cattivo rapporto con l’onorevole Romano, e scherzando a tavola disse: Saverio, tu sei candidato nel collegio di Bagheria dove c’è anche Villabate, ma lo sai che Francesco non ti vota, perché voterà per il centrosinistra? Stizzito  Romano si alzò e pronunciò una frase che mi resterà sempre impressa: No, Francesco mi vota, perché siamo della stessa famiglia. E poi girato verso di me aggiunse: scinni a Villabate e t’informi. Franco Bruno poi mi disse: è un pazzo che dice ‘ste cose con un magistrato in giro. Tornato poi a Villabate affrontai l’argomento, proprio come lui mi aveva chiesto in quella battuta, con Mandalà, il quale mi confermò che Saverio Romano era stato indicato dalla famiglia mafiosa di Belmonte Mezzagno”.
Le Candidature di Miceli e Acanto
In cambio di quel sostegno elettorale Saverio Romano pagò quindi il suo pegno inserendo nella lista del Cdu e in quella del biancofiore due candidature volute da cosa nostra, quella di Mimmo Miceli e Giuseppe Acanto.
“La candidatura di Miceli e di Acanto – ha affermato Di Matteo – è una delle rate che Romano e Cuffaro devono pagare per mantenere i patti con Cosa Nostra. Miceli infatti rappresenta gli interessi del boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro, uno che già all’epoca era stato condannato per mafia. La candidatura di Acanto viene invece chiesta dalla famiglia mafiosa di Villabate e dal boss Nino Mandalà: del resto sappiamo che quando Acanto arrivò all’Assemblea regionale una parte del suo stipendio da deputato regionale finiva a Mandalà, come riconoscimento per l’aiuto elettorale ricevuto”. Secondo Di Matteo una delle provae più importanti del contributo offerto da Romano a cosa nostra e quindi del conseguente rafforzamento all’organizzazione si trova nelle intercettazioni ambientali registrate già dai primi mesi del 2001 a casa del boss Giuseppe Guttadauro. Dai discorsi di via de Cosmi 15 non solo emerge la corresponsabilità di Romano e Cuffaro nell’inserimento in lista di Miceli per accontentare i desiderata del capomadamento di Brancacciio ma il tentativo di Romano di incontrare in via riservata Guttadauro, in vista delle elezioni politiche, sapendo che tipo di ‘collaborazione’ ciò gli avrebbe portato.
Di Matteo ha quindi posto l’accento sul contributo politico offerto a Cosa Nostra dall’ex ministro delle Politiche Agricole, un “apporto concreto e rilevante” per la candidatura di Miceli, “concorrente con Cuffaro”, mentre “decisivo e preponderante” nella candidatura Acanto.    

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Passera, l’Opus Dei e le azioni di Campus Biomedico in famiglia. - Vittorio Malagutti

Il ministro dello Sviluppo Corrado Passera


Il ministro spiegò, in una lettera al Corriere, di aver tagliato i ponti (devolvendo le partecipazioni) con l'ospedale nato su iniziativa e con i soldi dei fedeli del fondatore dell'Opera. Il nuovo fortunato proprietario delle azioni si chiama Raffaele Nappi e ha tutta l'aria di far da "parcheggio" per i titoli.

Il ministro Corrado Passera in società con l’Opus Dei? Macché. Nessun conflitto d’interessi. “Ho donato le mie azioni nel Campus Biomedico a una delle persone più impegnate nel progetto”. Con queste parole, in una lettera al Corriere della Sera del 31 dicembre scorso, l’ex banchiere aveva annunciato la scelta di tagliare i ponti con l’ospedale nato a Roma su iniziativa (e con i soldi) dei fedeli del beato Josemaria Escrivá, fondatore dell’Opera. “Azioni donate”. Già, ma a chi? Intervistato in tv da Report, nel maggio scorso il ministro dello Sviluppo ha svelato l’arcano senza in realtà svelare alcunché. Il nuovo fortunato proprietario delle azioni ex Passera si chiama Raffaele Nappi. Un signor nessuno, almeno a prima vista. Non è un imprenditore, né un professionista, tanto meno un banchiere. Nativo di Napoli, una sessantina d’anni, Nappi non fa parte della cerchia di amici, neanche di quella allargata, dell’ex banchiere passato al governo nella squadra dei tecnici diMario Monti.
E allora perché mai Passera ha scelto proprio lui, Nappi, quando si è trattato di individuare un acquirente, seppure a titolo gratuito, di quel pacchetto di titoli, pari allo 0,11 per cento del capitale, della società che gestisce il Campus Biomedico? Estrazione a sorte? Oppure qualcuno ha indicato al ministro il nome di un possibile nuovo socio? A maggio, davanti alle telecamere di Report il ministro se l’era cavata spiegando che Nappi è una delle persone “più impegnate nel progetto dell’ospedale”. A occhio non sembra esattamente così, perché secondo quanto Il Fatto Quotidianoha potuto ricostruire, la persona beneficiata da Passera è, più semplicemente, un dirigente, neppure di primissima fila, di un’altra iniziativa romana dell’Opus Dei. Nappi lavora infatti come libero professionista al centro Elis, un’altra associazione che fa parte della galassia dell’Opera. La scelta di Nappi pare proprio essere stata il frutto di un suggerimento da parte della prelatura, ovviamente interessata a parcheggiare in mani amiche le azioni di cui Passera voleva disfarsi. Nel suo profilo personale reperibile in rete, Nappi si definisce “vicedirettore presso Elis.org   che poi sarebbe un centro di formazione professionale targato Opus.
Nei mesi scorsi questa sigla è salita alla ribalta delle cronache per lo scandalo delle assunzioni facili all’Ama, l’azienda municipalizzata per la nettezza urbana di Roma. Nel 2011, il pm Alberto Caperna ha aperto un’inchiesta per indagare sulle modalità con cui la società reclutò ben 900 dipendenti. La formazione dei neoassunti era stata appunto affidata al Consorzio Elis, il cui presidente, Sergio Bruno, è finito nella lista degli indagati, assieme ai vertici dell’Ama, tra cui l’ex amministratore delegato Franco Panzironi. Il Consorzio dell’Opus Dei, che si è ovviamente sempre chiamato fuori da ogni irregolarità legata alle assunzioni facili, resta comunque una delle più importanti realtà nella Capitale nel campo della formazione professionale, con importanti agganci negli enti locali. Partendo da Elis, con il biglietto regalato dal ministro, Nappi è così riuscito ad avere accesso al parterre degli azionisti del campus Biomedico. Un parterre molto selezionato, a cui negli anni scorsi si erano conquistati un posto imprenditori e manager, banche e fondazioni. Certo, tutto per pure “finalità filantropiche”, come a suo tempo spiegò anche Passera. Il socio più famoso della lista si chiama Francesco Totti, di anni 36. Sì, proprio lui, il pupone, il capitano della Roma, con una quota di 527 azioni, quasi pari a quella di Passera. Ma nel capitale dell’ospedale romano, che riceve anche importanti finanziamenti pubblici, troviamo compartecipazioni ben più rilevanti, anche grandi istituti di credito come il Monte dei Paschi di Siena e il veronese Banco Popolare, l’ex europarlamentare di Forza Italia Luisa Todini e il deputato Pd Matteo Colaninno, l’ente previdenziale dei medici (Enpam) e quello degli architetti (Inarcassa), il banchiere Carlo Salvatori e Carlo Monorchio, già ragioniere generale dello Stato. Insomma, quando l’Opus Dei chiama difficile non rispondere all’appello. Tutto per pure finalità filantropiche. Ovviamente.
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lunedì 16 luglio 2012

La Procura di Milano intercettò Scalfaro, ma dal Quirinale nessuna iniziativa. - Giovanna Trinchella

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Era il febbraio del 1997 quando scoppiò il caso dell'intercettazione delll'allora presidente della Repubblica. ''Il Giornale'' pubblicò il testo di un colloquio tra il capo dello Stato e un banchiere. Alle varie interpellanze rispose l'allora ministro della Giustizia Flick e il Csm archiviò la pratica aperta su ordine del Plenum.

Era il febbraio del 1997 quando scoppiò il caso dell’intercettazione delll’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Il 27 febbraio ”Il Giornale” pubblicò il testo di un colloquio, registrato dalla Guardia di Finanza il 12 novembre 1993 tra il  capo dello Stato e l’allora amministratore delegato della banca popolare di Novara, Carlo Piantanida. La conversazione era stata depositata agli atti dell’inchiesta per la bancarotta della finanziaria svizzera Sasea, a Milano, che faceva capo a Florio Fiorini. Il finanziere, coinvolto in diverse inchieste dell’epoca di Mani Pulite, presentò un esposto nel quale si accusava il pm di Milano Luigi Orsi proprio per non aver proceduto nei confronti di Scalfaro. Ma dal Quirinale, però, non arrivò nessuna iniziativa, nessuna lamentela e soprattutto nessun conflitto di attribuzione sollevato davanti alla Corte Costituzionale. 
Il caso Scalfaro. E sì che Scalfaro al telefono conversava con Carlo Piantanida, ex amministratore delegato della banca Popolare di Novara (città natale dell’ex presidente, ndr) di un “ricambio” al vertice della banca dopo una conversazione con il “governatore”, presumibilmente di Bankitalia. Parole prive di qualsiasi “rilevanza penale” come disse l’allora capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borelli rispondendo agli attacchi politici e anche alle diverse interpellanze parlamentari, una delle quali presentata dall’ex inquilino del Quirinale Francesco Cossiga. Alle interpellanze risposero al Senato (di cui era presidente Nicola Mancino) il premier Romano Prodi e il ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick. Sul caso erano intervenuti anche i consiglieri del Consiglio Superiore della Magistratura, di cui il presidente della Repubblica è capo, Franco Fumagalli e Gianvittorio Gabri (laici ex Lega), chiedendo un’indagine del consiglio sul perché il contenuto di quella conversazione non fosse stato distrutto, ma allegato ad atti pubblici. “E’ spiacevole che il nome del Presidente della Repubblica compaia in una intercettazione, peraltro del tutto legittima, fatta su altra utenza” disse Borrelli, confermando l’irrilevanza penale. 
Per il presidente emerito e senatore a vita Cossiga quell’intercettazione non poteva essere effettuata. Ma non solo; una volta fatta non poteva essere trascritta, né poteva essere depositata agli atti dell’inchiesta. Cossiga chiese all’allora Guardasigilli quali misure intesse “adottare a tutela delle prerogative del presidente della Repubblica poste a protezione della sua indipendenza e libertà fisica, giuridica e morale”.  Una interpellanza alla quale Flick aveva risposto fornendo una spiegazione ambigua: da una parte aveva rimproverato il pool sostenendo che la procedura non era stata “in linea” con il sistema di garanzie assicurate dalla costituzione al presidente della Repubblica (che gode dell’immunità e può essere incriminato solo per alto tradimento, ndr), ma poi aveva osservato che la sua spiegazione a sua affermazione era la conseguenza di una “interpretazione sistematica” della Costituzione che non trovava “riferimenti letterali nei codici”. Insomma risposta aveva messo in evidenza l’esistenza di leggi che non consentivano l’adozione di provvedimenti. Le conclusioni alle quali giunse Flick a Palazzo Madama furono acquisite dalla Commissione del Csm che aveva aperto un’istruttoria – su ordine del Plenum - che fu archiviata.Anche all’epoca era in discussione un disegno di legge materia di intercettazioni telefoniche su cui proprio Flick doveva dare un parere. 
L’intercettazione. Ecco di seguito parte della trascrizione tra Scalfaro e Pintanida. Il presidente non viene nominato o identifica. Il banchiere (P) lo chiama “presidente” o “eccellenza”; le Fiamme gialle, secondo la prassi, “interlocutore” (I).
I: Buonasera, probabilmente sono notizie che voi già avete. Mi ha chiamato il governatore e mi ha detto che ha avuto le relazioni (o che) non so se ha già mandato a dire queste cose. P: No, per ora. I: Indubbiamente la banca, gli hanno scritto nella (parola incomprensibile) ha una sua forza, sarebbe bene pero’ data questa situazione, che non ci fosse, come era stato detto all’inizio, tutto il ’94 P: Ho capito. I: Ma, dice, sarebbe bene che alla prossima scadenza tecnica ci fosse un po’ di ricambio. P: Ho capito. I: Lui parlava di Boroli che prendesse la presidenza e poi dice che lui ha sentito dire che li’ da voi sarebbe ben visto Caletti, io non lo conosco. P: Sì (…) è da inserire con calma però (…) è un giovane. I: Cioè me lo ha detto come dire che…P: C’è bisogno di inserire qualcuno. I: E’ una persona stimata. P: Sì, certo. I: Però ha ripetuto che non mi pare opportuno attendere tutto il ’94, alla prossima scadenza arrivarci più rapidamente. P: Ho capito. I: Io penso che forse varrà la pena di fare una chiacchierata da lui. P: Sono stato convocato per l’altro martedì. I: Ah, va bene (….) P: Io tra l’altro stasera avevo telefonato al Nino per fare sapere che ieri siamo stati interrogati. Direi che è andata bene, cioè credo che abbiano capito la posizione mia e di Venini. Insomma, sembra che le cose si mettano bene. I: Questo potrebbe aiutare forse questo discorso. P: Certo, penso di sì. I: Per una prosecuzione più tranquilla. 
L’interrogazione del senatore Ceccanti. Diversa la lettura dei fati del 1997 da parte del costituzionalista e senatore del Pd, Stefano Ceccanti che ricorda che “nel dibattito parlamentare svoltosi in Senato il 7 marzo ’97 emerge in modo sostanzialmente unanime, a partire da alcune interrogazioni e da un puntuale intervento dell’allora ministro Flick, che intercettazioni anche casuali nei confronti del Presidente della Repubblica siano totalmente illegittime sulla base dell’art. 90 della Costituzione e dell’’art. 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219. Gli articoli 90 e 96 della Costituzione valgono anche per la procura di Palermo”. Per Cennati “la decisione della presidenza della Repubblica a tutela della funzione presidenziale e non di un privilegio personale era a questo punto inevitabile”. “Come chiarito in un’interrogazione parlamentare depositata poco fa insieme al collega Sanna, e rivolta al ministro della Giustizia per conoscere valutazioni ed eventuali iniziative del Governo già l’inchiesta in linea generale, come chiaramente esposto dal professore Onida, rientra nell’ambito dei reati ministeriali  - osserva il senatore – di cui all’articolo 96 della Costituzione, per cui la suddetta Procura avrebbe pertanto dovuto fermarsi ‘omessa ogni indagine’, trasmettendo gli atti al Tribunale dei ministri“. 

Vent’anni di trattativa. Episodio Uno 30 gennaio-30 maggio 1992




Mafiosi, uomini dello Stato, figure di confine. Sono i protagonisti della “trattativa”, il presunto patto segreto tra potere politico e Cosa nostra che, secondo un’inchiesta della Procura di Palermo, fu stretto tra il 1992 e il 1993. I corleonesi avrebbero cessato le stragi e le ritorsioni contro i politici siciliani considerati “infedeli”, lo Stato avrebbe garantito benefici processuali e carcerari, a partile dall’alleggerimento del famigerato 41bis. Il giudice Paolo Borsellino potrebbe essere stato ucciso anche perché si sarebbe sicuramente opposto a qualunque accordo con i boss che avevano ammazzato, neppure due mesi prima, Giovanni Falcone (continua…)
Guarda anche


http://tv.ilfattoquotidiano.it/2012/07/16/ventanni-trattativa-episodio-gennaio-maggio-1992/201696/

Onore al merito!



https://www.facebook.com/photo.php?fbid=264870596960281&set=a.116979528416056.20344.116969748417034&type=1&theater

A quanto pare si tratta di balle, per rendersene conto leggere questo articolo:
http://attivissimo.blogspot.it/2012/07/i-miracoli-dhollande.html

Unioni di fatto, un diritto solo per i parlamentari.




"Spero lo sappiate ma molti dei nostri parlamentari che votano contro i diritti alle coppie di fatto sono essi stessi conviventi fuori del matrimonio, ma, non si sa perché, godono di un trattamento legislativo di favore, che si sono fatti ad hoc, per cui i loro conviventi sono trattati con gli stessi diritti che avrebbero dentro un matrimonio regolare: assistenza sanitaria, quota contributiva doppia, reversibilità della pensione...
È dal 1990 che i parlamentari si sono fatti una legge apposita, per cui basta che il partner dichiari di convivere "more uxorio" da almeno tre anni e la legge lo tratta come uno sposo legittimo (Regolamento di assistenza sanitaria integrativa dei Deputati, art. 2, lettera "d").
Il 25% dei parlamentari e del personale della Camera usufruisce di questi trattamenti di favore. La differenza tra gli eletti e gli impiegati di Montecitorio sta nel fatto che per i primi il diritto può estendersi anche oltre il convivente (ad esempio ai figli, anche quelli nati "fuori dal matrimonio", ma fino al raggiungimento della maggiore età), mentre per i secondi ci si limita al partner.
Ultimamente ai partner di fatto è stato riconosciuto anche il vitalizio.
Ma non basta: il diritto al vitalizio è riconosciuto anche al partner di fatto dei consiglieri regionali!!!
Ecco dove arriva l'ipocrisia di costoro: negare agli altri quello che si è votato allegramente per se stessi da 20 anni!!
E poi non dovremmo chiamarli una Casta!!???" viviana v., bologna



http://www.beppegrillo.it/2012/07/unioni_di_fatto_un_diritto_solo_per_i_parlamentari.html

Leggi anche questo:


http://violapost.it/?p=9641

Napolitano solleva il conflitto con la procura di Palermo.





Napolitano solleva conflitto di attribuzione con Palermo: 'Intercettazioni lesive per le prerogative del presidente della Repubblica'. Procuratore Messineo: 'Siamo sereni. Rispettate tutte le norme, già dati chiarimenti all'Avvocatura'. Ingroia: 'Intercet.

Napolitano ha affidato all'Avvocato Generale dello Stato l'incarico di rappresentare la Presidenza della Repubblica nel giudizio per conflitto di attribuzione da sollevare dinanzi alla Corte Costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo per le decisioni che questa ha assunto su intercettazioni di conversazioni telefoniche del Capo dello Stato; decisioni che il Presidente ha considerato, anche se riferite a intercettazioni indirette, ''lesive di prerogative attribuitegli dalla Costituzione".  Napolitano è giunto a prendere questa decisione ispirandosi all'insegnamento di Einaudi, per "evitare" precedenti "grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà" previste dalla Costituzione.
I MAGISTRATI: NORME RISPETTATE - "Siamo sereni. Tutte le norme messe a tutela del Presidente della Repubblica riguardo a una attività diretta a limitare le sue prerogative sono state rispettate. I chiarimenti sono stati già dati all'Avvocatura dello Stato. Mai la Procura avrebbe avviato una procedura mirata a controllare o comprimere le prerogative attribuite dalla Costituzione al Capo dello Stato". Lo ha detto il procuratore di Palermo Francesco Messineo. Ho appreso dell'avvio di una procedura relativa al conflitto di attribuzione. Dalla motivazione si ricava che questa iniziativa è stata attivata perché le intercettazioni, anche se indirette, sono lesive delle prerogative del Capo dello Stato. Al momento non conosciamo altro", ha concluso il procuratore.
Nei giorni scorso l'Avvocatura dello Stato di Roma aveva chiesto a Messineo chiarimenti sulle intercettazioni di conversazioni tra l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino e il capo dello Stato Giorgio Napolitano che sarebbero state "captate" nell'ambito dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Le conversazioni sarebbero state intercettate indirettamente visto che ad essere sotto controllo era il telefono dell'ex ministro Mancino, indagato nell'ambito del procedimento per falsa testimonianza. Sono state invece depositate le conversazioni tra l'ex capo del Viminale e il consigliere giuridico del Quirinale Loris D'Ambrosio.
LE REAZIONI -  Il guardasigilli Paola Severino, a Mosca per una visita ufficiale, ha difeso la decisione del Quirinale di sollevare un conflitto di attribuzioni sulla vicenda delle intercettazioni telefoniche dell'inchiesta di Palermo: "Il capo dello Stato ha utilizzato il mezzo più corretto".
"Se l'intercettazione non è rilevante per la persona che è sottoposta a immunità e lo è per un indagato qualsiasi, può essere utilizzata". Lo dice il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, a proposito del conflitto di attribuzione sollevato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. "Secondo la nostra posizione - ha aggiunto Ingroia - per altro confortata da illustri studiosi, se l'intercettazione è rilevante nei confronti della persona intercettata, allora è legittima. Non esistono intercettazioni rilevanti nei confronti di persone coperte da immunità. E per quelle non coperte da immunità non c'e bisogno di alcuna autorizzazione a procedere".
"Ha ragione il Presidente della Repubblica quando sostiene che non devono esserci interferenze tra i vari organi costituzionali dello Stato e, proprio per questa ragione, ci auguriamo che nessuno, qualunque carica rivesta, interferisca con l'Autorità Giudiziaria nell'accertamento della verità", afferma Antonio Di Pietro. L'Idv, aggiunge, si schiera "senza se e senza ma al fianco dei magistrati palermitani". Per Di Pietro, i magistrati palermitani "stanno facendo ogni sforzo possibile per accertare la verità in ordine alla pagina buia rappresentata dalla trattativa tra Stato e mafia, che ha umiliato le istituzioni ed ha visto magistrati del calibro di Falcone e Borsellino perdere la vita, mentre altri trattavano per farla franca". "In uno Stato democratico, credo che tutti i cittadini abbiano il diritto di sapere se qualcuno abbia interferito nella ricerca della verità. E, nel caso specifico, è dovere dello Stato accertare le ragioni per cui un ex presidente del Senato, ex presidente del Csm ed ex ministro dell'Interno abbia cercato di interferire con le indagini, ricorrendo ai buoni uffici delle più alte cariche dello Stato per non dover rispondere delle proprie azioni davanti alla magistratura", conclude.
DECRETO NAPOLITANO, GIA' LESE PREROGATIVE CAPO STATO - Le prerogative del Capo dello Stato sono state già lese dai pm di Palermo con la valutazione dell'irrilevanza delle intercettazioni e la loro permanenza agli atti dell'inchiesta; sarebbero ulteriormente lese da una camera di consiglio per deciderne in contraddittorio la distruzione. lo si legge nel decreto del presidente Napolitano.
"Comportano lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione - è scritto nel decreto del Capo dello Stato - l'avvenuta valutazione sulla rilevanza delle intercettazioni ai fini della loro eventuale utilizzazione (investigativa o processuale), la permanenza delle intercettazioni agli atti del procedimento e l'intento di attivare una procedura camerale che - anche a ragione della instaurazione di un contraddittorio sul punto - aggrava gli effetti lesivi delle precedenti condotte".