martedì 17 luglio 2012

Conflitto di attribuzione o lesa maestà? - Domenico Gallo


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Se nella prima metà del secolo scorso un pubblico ministero avesse casualmente intercettato una comunicazione telefonica di Vittorio Emanuele III, indubbiamente ne sarebbe nato uno scandalo ed il Pubblico Ministero che all’epoca si chiamava Procuratore del Re, sarebbe stato destituito su due piedi. Nello Statuto albertino, infatti, non esisteva il concetto di “indipendenza della magistratura” e la giustizia era amministrata in nome del Re dai giudici che egli stesso istituiva (art.68). Poiché il Re riuniva nelle sue mani tutti i poteri dello Stato, egli era al di sopra dell’ordinamento. Infatti l’art. 4 dello Statuto recitava: “la persona del Re è sacra ed in violabile”.
Durante l’epoca di crisi costituzionale della repubblica italiana, rappresentata dall’avvento del Berlusconismo, i mass media di proprietà di Berlusconi e gli uomini politici di proprietà del partito di Berlusconi, hanno interpretato la “costituzione materiale” nel senso che la persona del Presidente del Consiglio dei Ministri dovesse considerarsi “sacra ed inviolabile” come la persona del Re nello Statuto Albertino. Per questo non solo i procedimenti in cui Berlusconi risultava imputato di reati vari, ma lo stesso fatto che si svolgessero indagini nei suoi confronti e che venissero effettuate intercettazioni indirette di Berlusconi quando parlava con Lavitola o altri malavitosi, sottoposti ad intercettazione, veniva denunziato come un atto di lesa maestà, compiuto da una magistratura infedele che non rispettava le prerogative costituzionali del Presidente, eletto dal popolo ed unto del Signore.
Il Procuratore della Repubblica di Palermo ha spiegato all’ex direttore di Repubblica, che aveva lanciato ai magistrati di Palermo gli stessi anatemi che i berluscones sono soliti scagliare nei con fronti dei magistrati quando si occupano di Berlusconi, che le intercettazioni indirette nei confronti di soggetti coperti da immunità, non necessitano di alcuna autorizzazione ed, oltretutto, non possono essere impedite – a priori – perché non sono prevedibili.
La mossa del Presidente Napolitano, che ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della Procura di Palermo per le intercettazioni indirette casualmente effettuate nei suoi confronti, desta perplessità perché si muove nella stessa logica che tende ad interpretare le prerogative degli organi costituzionali nell’ottica dello Statuto albertino, piuttosto che della Costituzione Repubblicana.
E’ sotto gli occhi di tutti che nella crisi della legalità che investe il nostro paese a più livelli, il problema non è quello di ridurre i controlli, ma di contrastare i comportamenti arbitrari e gli abusi di potere. I precedenti che abbiamo non sono edificanti. L’istituto del conflitto di attribuzione è già stato utilizzato in modo strumentale, sia dal Governo Prodi che dal Governo Berlusconi, per assicurare l’impunità ai dirigenti del servizio segreto militare implicati nel rapimento di Abu Omar e per creare uno sbarramento artificiale al controllo di legalità esercitato dall’autorità giudiziaria.
La democrazia ha bisogno di trasparenza e di equilibrio dei poteri, non certo di zone franche e di prerogative declinate come privilegi del sovrano.
* Magistrato, Corte di Cassazione

La procura di Palermo nel mirino del Quirinale. - Lorenzo Baldo


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“Siamo sereni. Tutte le norme messe a tutela del Presidente della Repubblica riguardo a una attività diretta a limitare le sue prerogative sono state rispettate”. Il procuratore di Palermo Francesco Messineo ha replicato così ai lanci di agenzia di questa mattina che hanno riportato la nota del Quirinale. La notizia è rimbalzata immediatamente sui principali siti di informazione: Giorgio Napolitano ha affidato all'avvocato generale dello Stato l'incarico di rappresentare la presidenza della Repubblica nel giudizio per conflitto di attribuzione da sollevare dinanzi alla Corte costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo per le decisioni che questa ha assunto su intercettazioni di conversazioni telefoniche del capo dello Stato.
L’inchiesta sulla “trattativa” tra Stato e mafia agita sempre di più il sonno del presidente della Repubblica evidentemente molto timoroso che il contenuto delle intercettazioni di alcune telefonate dell’indagato Nicola Mancino non sia distrutto al più presto. Questa gravissima presa di posizione del Colle lascia di fatto intravedere il tentativo di bloccare con ogni mezzo un’indagine delicatissima che intende fare luce sul cuore nero dello Stato. Quello Stato-mafia che ha trattato con Cosa Nostra e che è complice di tutti i morti ammazzati nelle stragi del ‘92/’93. “Dalla motivazione – ha spiegato Messineo – si ricava che questa iniziativa è stata attivata perché le intercettazioni, anche se indirette, sono lesive delle prerogative del Capo dello Stato. Nel nostro caso ci troviamo in presenza di un'intercettazione occasionale, di un fatto imprevedibile che a mio parere sfugge alla normativa in esame. Non c’è stato alcun controllo sul Presidente della Repubblica”. “Ovviamente io e i colleghi della Procura abbiamo preso atto dell'iniziativa, ma non conoscendo la motivazione del ricorso alla Corte costituzionale non è possibile formulare alcuna ipotesi”. “I chiarimenti sono stati già dati all'Avvocatura dello Stato – ha ribadito quindi il procuratore di Palermo – . Mai la Procura avrebbe avviato una procedura mirata a controllare o comprimere le prerogative attribuite dalla Costituzione al Capo dello Stato”. “Se l'intercettazione non è rilevante per la persona che è sottoposta a immunità – ha specificato ulteriormente Antonio Ingroia – e lo è per un indagato qualsiasi, può essere utilizzata. Secondo la nostra posizione per altro confortata da illustri studiosi, se l'intercettazione è rilevante nei confronti della persona intercettata, allora è legittima. Non esistono intercettazioni rilevanti nei confronti di persone coperte da immunità. E per quelle non coperte da immunità non c’è bisogno di alcuna autorizzazione a procedere”. Il procuratore di Palermo ha ribadito oggi quanto da lui già esposto nei giorni scorsi in risposta ad un paio di editoriali di Eugenio Scalfari. Una settimana fa il fondatore di Repubblica aveva definito “un illecito” le intercettazioni delle telefonate tra l’ex ministro Nicola Mancino (indagato per falsa testimonianza nell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia) e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “Nell'ordinamento attuale – aveva successivamente dichiarato Messineo - nessuna norma prescrive o anche soltanto autorizza l’immediata cessazione dell'ascolto e della registrazione quando, nel corso di una intercettazione telefonica legittimamente autorizzata, venga casualmente ascoltata una conversazione fra il soggetto sottoposto ad intercettazione ed altra persona nei cui confronti non poteva essere disposta alcuna intercettazione”. Il procuratore di Palermo aveva evidenziato come erano state avanzate nei confronti della polizia giudiziaria e della Procura di Palermo “gravi quanto infondate accuse di avere commesso persino ‘gravissimi illeciti’ violando non meglio specificate norme giuridiche”.  In merito alla distruzione delle intercettazioni Messineo aveva aggiunto ancora che  “si procede esclusivamente previa valutazione della irrilevanza e con l’autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, sentite le parti. Ciò è quanto prevedono le più elementari norme dell'ordinamento che sorprende non siano state tenute in considerazione”. Evidentemente le dichiarazioni del procuratore di Palermo non sono bastate a placare l’irritazione del Capo dello Stato. “Non esiste alcuna motivazione giuridica che giustifichi un atto del genere – ha commentato l’on. Sonia Alfano. Il Presidente Napolitano sta commettendo l’ennesimo scempio, rendendosi di fatto complice dell’isolamento dei magistrati palermitani che stanno indagando sulla trattativa Stato-mafia. Una manovra tanto più squallida, perché compiuta alla vigilia del ventennale della strage di via D’Amelio, che fa da sfondo a quella nefasta negoziazione”. “E’ ormai evidente che bisogna difendere la democrazia e la Repubblica dalle gesta sconsiderate di Napolitano che, come colpito dalla stessa sindrome che caratterizzò gli ultimi mesi del settennato di Cossiga, sta scadendo nel golpismo e nell'attentato alla Costituzione: solo questo sarebbe il presunto conflitto di attribuzioni che il Quirinale preannuncia, in contrasto con la Carta Costituzionale, le leggi e il buon senso. Spero che le forze democratiche valutino se non ricorrano gli estremi per la messa in stato d'accusa del Presidente Napolitano”. Secondo l’art. 38 della legge 87/1953 la Corte costituzionale  “risolve il conflitto sottoposto al suo esame dichiarando il potere al quale spettano le attribuzioni in contestazione e, ove sia stato emanato un atto viziato da incompetenza, lo annulla”. Ai giudici della Corte spetterà quindi l’ultima parola. La partita è in pieno svolgimento. In campo troviamo un pugno di magistrati integerrimi che cerca di riportare alla luce una verità totale e definiva sul biennio stragista ‘92/’93. Mai come in questo momento questi magistrati stanno finendo per essere isolati e delegittimati. Sullo sfondo appare sempre più nitido un sistema di potere criminale pronto a sacrificare i servitori più fedeli dello Stato-Stato.
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Otto anni di carcere. È questa la condanna che il pm Nino Di Matteo ha chiesto durante la sua requisitoria per l'ex ministro dell'Agricoltura Saverio Romano, sotto processo a Palermo per concorso in associazione mafiosa. Un procedimento che, dopo due richieste di archiviazione da parte della Procura e un’imputazione coatta ordinata lo scorso anno dal Gip Giuliano Castiglia, è ora alle battute finali di fronte al gup Ferdinando Sestito, che il 17 luglio prossimo dovrebbe emettere la sentenza.
Secondo le accuse Romano avrebbe “stipulato un patto politico-elettorale-mafioso con Cosa nostra”,”contribuendo al rafforzamento dell'organizzazione” criminale siciliana. I fatti descritti in aula dal pm Di Matteo hanno toccato come primo punto l’incontro con Angelo Siino nel 1991 quando il politico, allora consigliere provinciale di Palermo, andò a casa dell’ex ministro dei lavori pubblici di cosa nostra, insieme a Salvatore Cuffaro, per chiedere un coinvolgimento maggiore nella spartizione degli appalti delle imprese di Belmonte Mezzagno.
Di Matteo sottolinea più volte la consapevolezza del politico rispetto al profilo mafioso di Siino richiamando il dato che Cuffaro si servì proprio del mafioso, all’epoca semplice consigliere comunale, per farlo arrivare niente di meno che “primo degli eletti a Palermo”. “Romano e Cuffaro – ha detto il pm – sapevano benissimo che peso avesse Siino dentro Cosa Nostra: in un primo momento Romano volle incontrarlo per chiedergli di tenere in considerazione nel sistema degli appalti anche gli imprenditori di Belmonte Mezzagno, suo paese d’origine. Poi all’incontro partecipò anche Cuffaro e l’oggetto del colloquio diventò quindi la richiesta di sostegno elettorale per le consultazioni regionali del 1991, in cui lo stesso Cuffaro era candidato”.
Il sostegno elettorale di Villabate e Belmonte Mezzagno
Per affermare il contributo consapevole di Romano a Cosa Nostra più volte in aula è stata citata la sentenza di cassazione a carico dell’ex presidente della regione siciliana Salvatore Cuffaro, due politici che hanno fatto strada insieme al punto che sarà poi Romano ad accompagnare l’ex Governatore al carcere romano di Rebibbia al momento del suo arresto. “Cuffaro e Romano – ha spiegato Di Matteo- hanno condiviso le stesse clientele mafiose. Esiste un patto tra politica e mafia, un patto già accertato dalle sentenze definitive che condannano Cuffaro; un patto a cui ha partecipato anche attivamente lo stesso Romano”.
Entrambi politicamente fecero il loro salto di qualità nel 2001, Cuffaro alla Regione e Romano al Parlamento. Quest’ultimo, secondo la ricostruzione della Procura, sarebbe stato eletto nel collegio di Bagheria grazie al supporto elettorale della famiglia mafiosa di Nino Mandalà e quella di Belmonte Mezzagno, capeggiata all’epoca dal boss Francesco Pastoia, per anni responsabile della protezione della latitanza del superboss Bernardo Provenzano (morto suicida in carcere dopo la cattura del 2004). 
Ad affermarlo erano stati i pentiti Giacomo Greco (genero di Pastoia) e Francesco Campanella, l’ex presidente del consiglio del comune di Villabate che falsificò la carta d’identità di Provenzano per poter recarsi a Marsiglia ed effettuare il suo intervento alla prostata. Fu lo stesso Romano che in un pranzo romano in una trattoria a campo dei fiori alla presenza del dott. Sarno, Cuffaro e Franco Bruno affermò che Campanella, seppur di partito opposto al suo, avrebbe dovuto votarlo facendo riferimento alla loro partecipazione “alla stessa famiglia”. “Franco Bruno – aveva affermato Campanella ai pm -  conosceva perfettamente il mio cattivo rapporto con l’onorevole Romano, e scherzando a tavola disse: Saverio, tu sei candidato nel collegio di Bagheria dove c’è anche Villabate, ma lo sai che Francesco non ti vota, perché voterà per il centrosinistra? Stizzito  Romano si alzò e pronunciò una frase che mi resterà sempre impressa: No, Francesco mi vota, perché siamo della stessa famiglia. E poi girato verso di me aggiunse: scinni a Villabate e t’informi. Franco Bruno poi mi disse: è un pazzo che dice ‘ste cose con un magistrato in giro. Tornato poi a Villabate affrontai l’argomento, proprio come lui mi aveva chiesto in quella battuta, con Mandalà, il quale mi confermò che Saverio Romano era stato indicato dalla famiglia mafiosa di Belmonte Mezzagno”.
Le Candidature di Miceli e Acanto
In cambio di quel sostegno elettorale Saverio Romano pagò quindi il suo pegno inserendo nella lista del Cdu e in quella del biancofiore due candidature volute da cosa nostra, quella di Mimmo Miceli e Giuseppe Acanto.
“La candidatura di Miceli e di Acanto – ha affermato Di Matteo – è una delle rate che Romano e Cuffaro devono pagare per mantenere i patti con Cosa Nostra. Miceli infatti rappresenta gli interessi del boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro, uno che già all’epoca era stato condannato per mafia. La candidatura di Acanto viene invece chiesta dalla famiglia mafiosa di Villabate e dal boss Nino Mandalà: del resto sappiamo che quando Acanto arrivò all’Assemblea regionale una parte del suo stipendio da deputato regionale finiva a Mandalà, come riconoscimento per l’aiuto elettorale ricevuto”. Secondo Di Matteo una delle provae più importanti del contributo offerto da Romano a cosa nostra e quindi del conseguente rafforzamento all’organizzazione si trova nelle intercettazioni ambientali registrate già dai primi mesi del 2001 a casa del boss Giuseppe Guttadauro. Dai discorsi di via de Cosmi 15 non solo emerge la corresponsabilità di Romano e Cuffaro nell’inserimento in lista di Miceli per accontentare i desiderata del capomadamento di Brancacciio ma il tentativo di Romano di incontrare in via riservata Guttadauro, in vista delle elezioni politiche, sapendo che tipo di ‘collaborazione’ ciò gli avrebbe portato.
Di Matteo ha quindi posto l’accento sul contributo politico offerto a Cosa Nostra dall’ex ministro delle Politiche Agricole, un “apporto concreto e rilevante” per la candidatura di Miceli, “concorrente con Cuffaro”, mentre “decisivo e preponderante” nella candidatura Acanto.    

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Ricordiamo, con molto rammarico, che Napolitano accettò la sua nomina a ministro anche se con riserva. 

Passera, l’Opus Dei e le azioni di Campus Biomedico in famiglia. - Vittorio Malagutti

Il ministro dello Sviluppo Corrado Passera


Il ministro spiegò, in una lettera al Corriere, di aver tagliato i ponti (devolvendo le partecipazioni) con l'ospedale nato su iniziativa e con i soldi dei fedeli del fondatore dell'Opera. Il nuovo fortunato proprietario delle azioni si chiama Raffaele Nappi e ha tutta l'aria di far da "parcheggio" per i titoli.

Il ministro Corrado Passera in società con l’Opus Dei? Macché. Nessun conflitto d’interessi. “Ho donato le mie azioni nel Campus Biomedico a una delle persone più impegnate nel progetto”. Con queste parole, in una lettera al Corriere della Sera del 31 dicembre scorso, l’ex banchiere aveva annunciato la scelta di tagliare i ponti con l’ospedale nato a Roma su iniziativa (e con i soldi) dei fedeli del beato Josemaria Escrivá, fondatore dell’Opera. “Azioni donate”. Già, ma a chi? Intervistato in tv da Report, nel maggio scorso il ministro dello Sviluppo ha svelato l’arcano senza in realtà svelare alcunché. Il nuovo fortunato proprietario delle azioni ex Passera si chiama Raffaele Nappi. Un signor nessuno, almeno a prima vista. Non è un imprenditore, né un professionista, tanto meno un banchiere. Nativo di Napoli, una sessantina d’anni, Nappi non fa parte della cerchia di amici, neanche di quella allargata, dell’ex banchiere passato al governo nella squadra dei tecnici diMario Monti.
E allora perché mai Passera ha scelto proprio lui, Nappi, quando si è trattato di individuare un acquirente, seppure a titolo gratuito, di quel pacchetto di titoli, pari allo 0,11 per cento del capitale, della società che gestisce il Campus Biomedico? Estrazione a sorte? Oppure qualcuno ha indicato al ministro il nome di un possibile nuovo socio? A maggio, davanti alle telecamere di Report il ministro se l’era cavata spiegando che Nappi è una delle persone “più impegnate nel progetto dell’ospedale”. A occhio non sembra esattamente così, perché secondo quanto Il Fatto Quotidianoha potuto ricostruire, la persona beneficiata da Passera è, più semplicemente, un dirigente, neppure di primissima fila, di un’altra iniziativa romana dell’Opus Dei. Nappi lavora infatti come libero professionista al centro Elis, un’altra associazione che fa parte della galassia dell’Opera. La scelta di Nappi pare proprio essere stata il frutto di un suggerimento da parte della prelatura, ovviamente interessata a parcheggiare in mani amiche le azioni di cui Passera voleva disfarsi. Nel suo profilo personale reperibile in rete, Nappi si definisce “vicedirettore presso Elis.org   che poi sarebbe un centro di formazione professionale targato Opus.
Nei mesi scorsi questa sigla è salita alla ribalta delle cronache per lo scandalo delle assunzioni facili all’Ama, l’azienda municipalizzata per la nettezza urbana di Roma. Nel 2011, il pm Alberto Caperna ha aperto un’inchiesta per indagare sulle modalità con cui la società reclutò ben 900 dipendenti. La formazione dei neoassunti era stata appunto affidata al Consorzio Elis, il cui presidente, Sergio Bruno, è finito nella lista degli indagati, assieme ai vertici dell’Ama, tra cui l’ex amministratore delegato Franco Panzironi. Il Consorzio dell’Opus Dei, che si è ovviamente sempre chiamato fuori da ogni irregolarità legata alle assunzioni facili, resta comunque una delle più importanti realtà nella Capitale nel campo della formazione professionale, con importanti agganci negli enti locali. Partendo da Elis, con il biglietto regalato dal ministro, Nappi è così riuscito ad avere accesso al parterre degli azionisti del campus Biomedico. Un parterre molto selezionato, a cui negli anni scorsi si erano conquistati un posto imprenditori e manager, banche e fondazioni. Certo, tutto per pure “finalità filantropiche”, come a suo tempo spiegò anche Passera. Il socio più famoso della lista si chiama Francesco Totti, di anni 36. Sì, proprio lui, il pupone, il capitano della Roma, con una quota di 527 azioni, quasi pari a quella di Passera. Ma nel capitale dell’ospedale romano, che riceve anche importanti finanziamenti pubblici, troviamo compartecipazioni ben più rilevanti, anche grandi istituti di credito come il Monte dei Paschi di Siena e il veronese Banco Popolare, l’ex europarlamentare di Forza Italia Luisa Todini e il deputato Pd Matteo Colaninno, l’ente previdenziale dei medici (Enpam) e quello degli architetti (Inarcassa), il banchiere Carlo Salvatori e Carlo Monorchio, già ragioniere generale dello Stato. Insomma, quando l’Opus Dei chiama difficile non rispondere all’appello. Tutto per pure finalità filantropiche. Ovviamente.
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lunedì 16 luglio 2012

La Procura di Milano intercettò Scalfaro, ma dal Quirinale nessuna iniziativa. - Giovanna Trinchella

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Era il febbraio del 1997 quando scoppiò il caso dell'intercettazione delll'allora presidente della Repubblica. ''Il Giornale'' pubblicò il testo di un colloquio tra il capo dello Stato e un banchiere. Alle varie interpellanze rispose l'allora ministro della Giustizia Flick e il Csm archiviò la pratica aperta su ordine del Plenum.

Era il febbraio del 1997 quando scoppiò il caso dell’intercettazione delll’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Il 27 febbraio ”Il Giornale” pubblicò il testo di un colloquio, registrato dalla Guardia di Finanza il 12 novembre 1993 tra il  capo dello Stato e l’allora amministratore delegato della banca popolare di Novara, Carlo Piantanida. La conversazione era stata depositata agli atti dell’inchiesta per la bancarotta della finanziaria svizzera Sasea, a Milano, che faceva capo a Florio Fiorini. Il finanziere, coinvolto in diverse inchieste dell’epoca di Mani Pulite, presentò un esposto nel quale si accusava il pm di Milano Luigi Orsi proprio per non aver proceduto nei confronti di Scalfaro. Ma dal Quirinale, però, non arrivò nessuna iniziativa, nessuna lamentela e soprattutto nessun conflitto di attribuzione sollevato davanti alla Corte Costituzionale. 
Il caso Scalfaro. E sì che Scalfaro al telefono conversava con Carlo Piantanida, ex amministratore delegato della banca Popolare di Novara (città natale dell’ex presidente, ndr) di un “ricambio” al vertice della banca dopo una conversazione con il “governatore”, presumibilmente di Bankitalia. Parole prive di qualsiasi “rilevanza penale” come disse l’allora capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borelli rispondendo agli attacchi politici e anche alle diverse interpellanze parlamentari, una delle quali presentata dall’ex inquilino del Quirinale Francesco Cossiga. Alle interpellanze risposero al Senato (di cui era presidente Nicola Mancino) il premier Romano Prodi e il ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick. Sul caso erano intervenuti anche i consiglieri del Consiglio Superiore della Magistratura, di cui il presidente della Repubblica è capo, Franco Fumagalli e Gianvittorio Gabri (laici ex Lega), chiedendo un’indagine del consiglio sul perché il contenuto di quella conversazione non fosse stato distrutto, ma allegato ad atti pubblici. “E’ spiacevole che il nome del Presidente della Repubblica compaia in una intercettazione, peraltro del tutto legittima, fatta su altra utenza” disse Borrelli, confermando l’irrilevanza penale. 
Per il presidente emerito e senatore a vita Cossiga quell’intercettazione non poteva essere effettuata. Ma non solo; una volta fatta non poteva essere trascritta, né poteva essere depositata agli atti dell’inchiesta. Cossiga chiese all’allora Guardasigilli quali misure intesse “adottare a tutela delle prerogative del presidente della Repubblica poste a protezione della sua indipendenza e libertà fisica, giuridica e morale”.  Una interpellanza alla quale Flick aveva risposto fornendo una spiegazione ambigua: da una parte aveva rimproverato il pool sostenendo che la procedura non era stata “in linea” con il sistema di garanzie assicurate dalla costituzione al presidente della Repubblica (che gode dell’immunità e può essere incriminato solo per alto tradimento, ndr), ma poi aveva osservato che la sua spiegazione a sua affermazione era la conseguenza di una “interpretazione sistematica” della Costituzione che non trovava “riferimenti letterali nei codici”. Insomma risposta aveva messo in evidenza l’esistenza di leggi che non consentivano l’adozione di provvedimenti. Le conclusioni alle quali giunse Flick a Palazzo Madama furono acquisite dalla Commissione del Csm che aveva aperto un’istruttoria – su ordine del Plenum - che fu archiviata.Anche all’epoca era in discussione un disegno di legge materia di intercettazioni telefoniche su cui proprio Flick doveva dare un parere. 
L’intercettazione. Ecco di seguito parte della trascrizione tra Scalfaro e Pintanida. Il presidente non viene nominato o identifica. Il banchiere (P) lo chiama “presidente” o “eccellenza”; le Fiamme gialle, secondo la prassi, “interlocutore” (I).
I: Buonasera, probabilmente sono notizie che voi già avete. Mi ha chiamato il governatore e mi ha detto che ha avuto le relazioni (o che) non so se ha già mandato a dire queste cose. P: No, per ora. I: Indubbiamente la banca, gli hanno scritto nella (parola incomprensibile) ha una sua forza, sarebbe bene pero’ data questa situazione, che non ci fosse, come era stato detto all’inizio, tutto il ’94 P: Ho capito. I: Ma, dice, sarebbe bene che alla prossima scadenza tecnica ci fosse un po’ di ricambio. P: Ho capito. I: Lui parlava di Boroli che prendesse la presidenza e poi dice che lui ha sentito dire che li’ da voi sarebbe ben visto Caletti, io non lo conosco. P: Sì (…) è da inserire con calma però (…) è un giovane. I: Cioè me lo ha detto come dire che…P: C’è bisogno di inserire qualcuno. I: E’ una persona stimata. P: Sì, certo. I: Però ha ripetuto che non mi pare opportuno attendere tutto il ’94, alla prossima scadenza arrivarci più rapidamente. P: Ho capito. I: Io penso che forse varrà la pena di fare una chiacchierata da lui. P: Sono stato convocato per l’altro martedì. I: Ah, va bene (….) P: Io tra l’altro stasera avevo telefonato al Nino per fare sapere che ieri siamo stati interrogati. Direi che è andata bene, cioè credo che abbiano capito la posizione mia e di Venini. Insomma, sembra che le cose si mettano bene. I: Questo potrebbe aiutare forse questo discorso. P: Certo, penso di sì. I: Per una prosecuzione più tranquilla. 
L’interrogazione del senatore Ceccanti. Diversa la lettura dei fati del 1997 da parte del costituzionalista e senatore del Pd, Stefano Ceccanti che ricorda che “nel dibattito parlamentare svoltosi in Senato il 7 marzo ’97 emerge in modo sostanzialmente unanime, a partire da alcune interrogazioni e da un puntuale intervento dell’allora ministro Flick, che intercettazioni anche casuali nei confronti del Presidente della Repubblica siano totalmente illegittime sulla base dell’art. 90 della Costituzione e dell’’art. 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219. Gli articoli 90 e 96 della Costituzione valgono anche per la procura di Palermo”. Per Cennati “la decisione della presidenza della Repubblica a tutela della funzione presidenziale e non di un privilegio personale era a questo punto inevitabile”. “Come chiarito in un’interrogazione parlamentare depositata poco fa insieme al collega Sanna, e rivolta al ministro della Giustizia per conoscere valutazioni ed eventuali iniziative del Governo già l’inchiesta in linea generale, come chiaramente esposto dal professore Onida, rientra nell’ambito dei reati ministeriali  - osserva il senatore – di cui all’articolo 96 della Costituzione, per cui la suddetta Procura avrebbe pertanto dovuto fermarsi ‘omessa ogni indagine’, trasmettendo gli atti al Tribunale dei ministri“. 

Vent’anni di trattativa. Episodio Uno 30 gennaio-30 maggio 1992




Mafiosi, uomini dello Stato, figure di confine. Sono i protagonisti della “trattativa”, il presunto patto segreto tra potere politico e Cosa nostra che, secondo un’inchiesta della Procura di Palermo, fu stretto tra il 1992 e il 1993. I corleonesi avrebbero cessato le stragi e le ritorsioni contro i politici siciliani considerati “infedeli”, lo Stato avrebbe garantito benefici processuali e carcerari, a partile dall’alleggerimento del famigerato 41bis. Il giudice Paolo Borsellino potrebbe essere stato ucciso anche perché si sarebbe sicuramente opposto a qualunque accordo con i boss che avevano ammazzato, neppure due mesi prima, Giovanni Falcone (continua…)
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http://tv.ilfattoquotidiano.it/2012/07/16/ventanni-trattativa-episodio-gennaio-maggio-1992/201696/

Onore al merito!



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A quanto pare si tratta di balle, per rendersene conto leggere questo articolo:
http://attivissimo.blogspot.it/2012/07/i-miracoli-dhollande.html