venerdì 24 agosto 2012

1-1, cioè 2-0. - Marco Travaglio




Nella pagina dei commenti di Repubblica, che negli ultimi giorni ha visto fronteggiarsi a distanza Zagrebelsky e Scalfari sul conflitto attivato da Napolitano contro la Procura di Palermo, ieri comparivano due articoli speculari che, almeno dal titolo, parevano dare l’uno ragione e l’altro torto al Quirinale. “Le parole incaute del Colle” di Franco Cordero e “I meriti del Presidente” di Giuseppe Maria Berruti, giudice di Cassazione.
Cordero, sul lato sinistro, sbeffeggia col consueto sarcasmo intriso di sapienza giuridica le pretese di “cabalistica inviolabilità” del capo dello Stato e le “tante ugole di accompagnamento”, compresa quella di Monti, “l’economista chiamato a salvare l’Italia” che straparla di “abusi gravi” dei pm: “Nell’Italia postfascista non s’era mai visto tanto plumbeo mimetismo”.
Sulla destra, per fare 1-1, risponde lo squillo Berruti: inchini e salamelecchi al Presidente, che dice sempre “cose difficili” ma sacrosante e intende solo preservare la sua “funzione costituzionale”. Poi però viene al dunque, cioè al dilemma se la Procura dovesse distruggere subito le telefonate di Napolitano intercettate sul telefono di Mancino, senza passare dal gip, né ascoltarle né tantomeno valutarle (come pretende Napolitano); o se invece dovesse ascoltarle, valutarle, decidere sulla loro rilevanza e accantonarle in vista dell’udienza davanti al gip per l’eventuale distruzione, previo ascolto degli avvocati (come dice l’art. 269 del Codice di procedura e come ha fatto la Procura di Palermo).
Berruti parla di “grande opinabilità tecnica sul punto. È difficile applicare direttamente la norma costituzionale dell’art. 90 (irresponsabilità del Presidente per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni, salvo che per attentato alla Costituzione e alto tradimento, ndr) a un caso non previsto. Vi sono peraltro argomenti anche per escludere la distruzione immediata. E al momento mi pare difficile che il giudice possa disporla”. Cioè non c’è scritto da nessuna parte che la Procura dovesse (e potesse) subito distruggere o far distruggere dal gip le telefonate. Proprio quel che sostiene la Procura e il contrario di quel che sostiene il Quirinale. Come fa Berruti a dare ragione a Napolitano, visto che gli ha appena dato torto?
Con l’argomento usato dai corazzieri nelle ultime settimane, quando si son resi conto che la mossa di trascinare la Procura dinanzi alla Consulta s’è rivelata impopolare e sospetta, isolando vieppiù i pm che indagano sulla trattativa Stato-mafia: ma che sarà mai, non c’è nessuno “scontro”, “il conflitto di attribuzioni – è Berruti che scrive – è un rimedio fisiologico a una dialettica tra grandi istituzioni”, “un gesto importante ma non drammatico” per dirimere una controversia giuridica.  Ergo “è sbagliato affermare che la Corte può dare torto o ragione ai magistrati di Palermo”.
Eh no, troppo comodo. Nel decreto che si è scritto il 16 luglio per attivare il conflitto con i pm, Napolitano li accusa di “lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione”: cioè, in parole povere, di aver attentato alla Costituzione. Un’accusa gravissima, che se fosse confermata dalla Corte getterebbe una macchia indelebile sulla loro reputazione e carriera, con conseguenze disciplinari e anche penali. Napolitano non chiede alla Consulta di sciogliere un nodo di “opinabilità tecnica”: ma di dare torto marcio alla Procura di Palermo, affermando che essa, nelle indagini sulla trattativa, ha compiuto una sorta di colpo di Stato contro il supremo rappresentante della Nazione. Il tutto per non avere fatto ciò che lo stesso Berruti ammette che “al momento” i pm non possono fare: incenerire, con un bel falò nel loro ufficio, le bobine con The Voice.
È confortante, per chi l’ha detto fin dal primo giorno, leggere che ormai anche i difensori di Napolitano cominciano a dargli torto. Ora manca soltanto che lo invitino a darsi torto da solo.
Il Fatto Quotidiano, 23 Agosto 2012

ZAMPARINI:"Non investo più nel calcio,ma arabi.."



NOTIZIE PALERMO, CALCIOMERCATO, CONFERENZE STAMPA E AGGIORNAMENTO LIVE 24 SU 24.

Il calcio italiano sta vivendo un periodo di ridimensionamento tecnico ed economico. Il tema della gestione delle risorse, in un momento di profonda austerity per il movimento, viene trattato dal presidente rosanero Maurizio Zamparini nel corso di un´intervista concessa al Giornale di Sicilia: " C´è stato un chiaro cambio di rotta nel nostro mondo. Anche le big del nostro calcio si sono ridimensionate. Io non investiro più un euro sul Palermo, gli investimenti nel calcio sono soltanto a perdere. I tifosi devono capire che non ci sarà più un mecenate che metterà i soldi ogni volta che ce ne sarà bisogno. Ho cercato di coinvolgere investitori arabi, ma nel nostro paese non vogliono venire, poiché non hanno nessuna garanzia. Preferiscono altre nazioni, tipo l´Inghilterra". 


http://palermorosaneronelcuore.blogspot.it/2012/08/zamparininon-investo-piu-nel-calcioma.html?spref=fb

E come dargli torto? In Italia la corruzione è ovunque.

giovedì 23 agosto 2012

Finmeccanica, l’ex numero uno: “Sindacati e partiti, tutti vogliono una poltrona in Cda”. - Giorgio Meletti


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Intervista all'ex presidente della compagnia Pierfrancesco Guarguaglini, indagato per false fatturazioni nell'inchiesta sugli appalti Enav, che svela: "Non c'era solo Milanese, la quota di minoranza del consiglio era lottizzata per prassi". Sulle tangenti: "A volte i mediatori chiedono percentuali alte, non so poi cosa ne facciano, ero preoccupato che i soldi non tornassero nelle tasche dei manager".


Pierfrancesco Guarguaglini, 75 anni di cui cinquanta nell’industria di Stato, poi un’uscita di scena tra i fischi. In questa calda estate da pensionato nella sua Castagneto Carducci, come si sente? “Come uno che è sempre stato onesto e qualche volta bischero”. Bischero come rafforzativo di onesto? “No, bischero come rafforzativo di bischero”.
Partiamo dalla fine. Lei viene messo alla porta il primo dicembre scorso dopo un anno e mezzo di bufera sulla Fin-meccanica. Perché non ha mollato prima?
Non avevo fatto niente.
La Finmeccanica stava tutti i giorni sui giornali, con sua moglie Marina Grossi, manager della controllata Selex Sistemi Integrati, indagata. L’azienda non ne soffriva? L’azienda funzionava. Nel 2010 abbiamo preso ordini per 21 miliardi di euro.
Ma alla fine se n’è andato. Mi hanno tolto la delega sulle strategie. Giuseppe Orsi, il mio successore alla presidenza, lavorava da mesi per questo obiettivo. Quando si è insediato il governo tecnico, sono andato a parlare con il sottosegretario Catricalà. Ho detto: “Mettetemi per iscritto che me ne devo andare e me ne vado”. Lui ha detto che sentiva il premier, poi mi richiama e mi dice: “Fai quello che vuoi”.
E lei ha trattato la buonuscita da 5 milioni di euro. Erano 4 milioni, ma non ho trattato niente, quei soldi mi erano dovuti per contratto. Poi c’era un milione e mezzo per il patto di non concorrenza di un anno, e quelli era meglio se non li prendevo, guadagnavo di più con le consulenze che ho dovuto rifiutare.
Ha ancora mercato? Come ingegnere sono bravino.
Laureato a Pisa. Al collegio Pacinotti, stava in piazza dei Cavalieri, di fronte alla Scuola Normale.
Piazza ben frequentata. Mi ricordo Giuliano Amato, i fratelli Cassese, Tiziano Terzani, il matematico Giorgio Letta, padre di Enrico, Remo Bodei. Si studiava. Per vedere un po’ di ragazze andavamo a sorbirci le lezioni d’italiano di Luigi Russo. Dopo la laurea presi il Phd all’University of Pennsylvania. Poi sono andato alla Selenia.
Mai aziende private. Ma ho sempre difeso la mia autonomia di pensiero continuando a studiare, a tenermi aggiornato. Quando alla Selenia è arrivato Michele Principe non ho accettato che si dicesse “quelli non si fanno lavorare perché sono comunisti”.
Lei è, o era, di sinistra? No, ma ho fatto tutti gli scioperi dell’autunno caldo.
Perché lasciò la Selenia? Le ho detto, non mi piacevano le interferenze politiche. Ricordo bene, 15 novembre 1983, mi dimisi da direttore generale. C’era Marisa Bellisario che doveva sbaraccare uno stabilimento Italtel dell’Aquila, e decisero con Gianni De Michelis di portare lì per compensazione una produzione di nostri missili Aspide. Era un’assurdità. Tutti gli altri dirigenti Selenia abbassavano la testa. Io no.
Disoccupato per tre mesi. Poi direttore generale alla Galileo, mille persone contro 8 mila di Selenia.
All’Efim, carrozzone peggio dell’Iri. E non c’erano interferenze politiche? Certo, ma si fermavano al capo, Sergio Ricci. Ci faceva da scudo. Anche quando ero alla Oto Melara, dentro Finmeccanica, il capo, Fabiano Fabiani, ci diceva “con i politici parlo io”. Ho sbagliato a non farlo finora, ma adesso lo ringrazio per avermi creduto nei momenti difficili.
Mentre Fabiani parlava con i politici lei parlava con Chicchi Pacini Battaglia. Mi propose affari con il Kuwait. Ma per vendere armi in un Paese devi conoscerlo profondamente, non basta essere amico dell’ambasciatore.
Già, lei nel frattempo era diventato venditore di armi. Difficile, con clienti che temono che a metà dell’opera scatti l’embargo. Durante la guerra del Golfo bloccammo una fornitura a Dubai, schierato contro Saddam, perché la legge italiana vieta di armare un Paese belligerante. Anche se è tuo alleato. A Dubai non ci credevano.
Per vendere armi si pagano tangenti? Può accadere, come per qualsiasi prodotto. Io non l’ho mai fatto, mi piace essere corretto.
Un mondo di onesti? No. Ci sono le mediazioni pagate in modo ufficiale: a volte i mediatori chiedono percentuali alte, non so poi che cosa ne facciano.
Ci sono anche i manager che chiedono indietro al mediatore, estero su estero, una parte della provvigione. Hai voglia. La mia più grande preoccupazione è proprio che i mediatori offrano soldi indietro a chi glieli dà.
E con Pacini Battaglia che cosa avete combinato? Nulla, né in Kuwait né altrove. In compenso finii per dieci giorni ai domiciliari per traffico d’armi. Nulla a che fare con tangenti o simile. Mi hanno intercettato che parlavo di “blindati per la Bosnia” e “navi irachene”. Gli ho spiegato che parlavo dei blindati per l’esercito italiano che operava in Bosnia, e delle famose navi vendute all’Iraq, ma già bloccate.
E Pacini Battaglia? Mi chiamava per dirmi “si va dalla Susanna”, nel senso di Agnelli, che era ministro degli Esteri. Diceva di volermi mettere al posto di Fabiani alla Finmeccanica. Chiacchiere.
E com’è arrivato al vertice Finmeccanica? Diversi anni dopo, mi telefonò il direttore generale del Tesoro, Domenico Siniscalco. Per essere chiaro, allora non conoscevo Gianni Letta, e neppure il livornese Altero Matteoli.
Ma lei era in quota socialista. Battezzato socialista negli anni 80, perché ero uscito dalla Selenia, in mano ai democristiani.
In Finmeccanica c’è un gran casino o sono invenzioni dei giornali? La verità è che la holding sta troppo in alto per vedere tutto. Con centinaia di società in giro per il mondo, per tenere tutto sotto controllo devi fidarti della squadra di manager.
E lei s’è fidato troppo? Qualcuno mi ha detto, dopo, che si pente di non avermi raccontato certe cose. Ma con Cola sono stato bischero.
Lorenzo Cola, il faccendiere al centro delle inchieste. Faceva il puro, mi metteva in guardia. Due volte è venuto ad accusare miei manager, con aria scandalizzata. Nulla di vero. Però lui passava per l’onestissimo. E io bischero a cascarci.
Marco Milanese, braccio destro di Tremonti, è accusato di essersi venduto le poltrone nei vostri consigli d’amministrazione. Funzionava così: se, per esempio, i membri erano sette, quattro li nominavamo noi tra gli uomini Finmeccanica, ed esisteva un iter interno che garantiva la gestione secondo le linee concordate con la holding. Gli altri tre posti li decideva la politica.
Codice civile alla mano, dovevate nominarli tutti voi. Ma la prassi era questa. La quota di minoranza dei consigli era lottizzata, e io nemmeno me ne occupavo, era il lavoro di Lorenzo Borgogni che si sobbarcava una laboriosa mediazione. Non c’era mica solo Milanese, c’era l’opposizione, i sindacati… Ma i manager chiave li ho sempre scelti io, senza interferenze.
E le sono rimasti grati? Tutta la squadra aveva la maglietta “Guarguaglini”. Qualcuno ci ha messo sopra il nome del mio successore, ed è comprensibile. Qualcuno si è sfilato la mia maglietta, l’ha gettata a terra e l’ha calpestata. Debolezze.
Lei è indagato per utilizzo di false fatturazioni. I magistrati non mi hanno mai chiamato, so solo il nome del reato. Nessuno mi ha mai contestato un fatto, non so di quali fatture si parli. Tutto quello che so l’ho letto sui giornali. Il mio avvocato ha chiesto l’archiviazione. Ho fiducia nella magistratura e aspetto.
da Il Fatto Quotidiano del 23 agosto 2012

Intervento del MAGISTRATO INGROIA - Palermo: 19 luglio 2012 "Via D'Amelio strage di Stato"

Toro Seduto.



"Si dice spesso che il crimine non paga.
Se non paga chi lo fa... figuriamoci chi lo subisce."
(Ermanno Bartoli - Barlow)


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Berlusconi, ”mister unpercento”

minterunpercento Berlusconi, mister unpercento

Le concessioni radiotelevisive costano al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi l’uno per cento del fatturato che ne ottiene. Avete letto bene. Lo Stato italiano regala da anni alla Mediaset, attraverso RTI, il 99% degli introiti che ne ottiene. Solo l’uno per cento rimane allo Stato.
Le frequenze su cui Mediaset trasmette sono dello Stato italiano che le può dare in concessione a qualunque società ritenga. Mediaset o altre. La logica vorrebbe che la concessione porti principalmente soldi alle casse dello Stato, non ai privati. La ricchezza del signor Berlusconi, dell’imprenditore Berlusconi, deriva da una “graziosa” concessione ottenuta prima da Craxi con un una tantum annua ridicola e poi dal Governo D’Alema nel 1999, con la legge un per cento (pagina 32: legge 488, art.27 comma 9, del 23 dicembre 1999). Legge mai messa in discussione dagli altri Governi che lo hanno seguito, tra cui ovviamente i suoi.
Il signor unpercento è ricco e continua a incrementare le sue ricchezze in virtù di una legge che gli regala letteralmente le frequenze radiotelevisive. Paga l’un per cento dei ricavi. Ma quale cittadino può avere in concessione un bene dello Stato pagando solo l’un per cento dei ricavi? Nessuno, se non Berlusconi. La legge che regolamenta le concessioni radiotelevisive va cambiata immediatamente. E’ una legge parassitaria che toglie agli italiani, a tutti gli italiani, un reddito enorme, di loro competenza, per donarlo al presidente del Consiglio. Una vera rapina a norma di legge.
Il Gruppo Mediaset vive alle spalle degli italiani. Nel 2007 ha fatturato oltre 4 miliardi di euro, di cui 2.5 miliardi derivanti da pubblicità delle Reti Mediaset. Invertiamo le percentuali: allo Stato il 99%, a Mediaset l’un per cento. L’Italia dei Valori presenterà un’interrogazione parlamentare su questo vero esproprio di reddito degli italiani da parte di Silvio Berlusconi.
P.s. Risultato Operativo 2007 del Gruppo Mediaset (EBIT): 1,49 miliardi di euro.


http://www.antoniodipietro.it/2009/01/berlusconi-mister-unpercento

Sud Africa - La POLIZIA SPARA sui MINATORI IN SCIOPERO - STRAGE 36 gli UCCISI 16-08-2012



Allucinante, una scena raccapricciante. Quanto poco vale la vita dell'uomo per i potenti. Dovremmo fargli fare la stessa fine.