Il guaio del dibattito sulla prescrizione, come su ogni aspetto della giustizia, è che i politici e gli opinionisti che se ne occupano sono per lo più dei totali incompetenti. L’altra sera, a Dimartedì, mi sono permesso di ricordare che la legge Bonafede riguarda la prescrizione durante il processo: infatti la blocca dopo la sentenza di primo grado, per evitare che scatti in appello o in Cassazione. E la prescrizione nel processo riguarda i colpevoli, non gli innocenti: se il giudice ritiene l’imputato innocente, ha l’obbligo di assolverlo, non di prescriverlo. Apriti cielo! Ieri mi sono beccato le lezioncine del Foglio, convinto che io pensi che gl’innocenti “sono tutti colpevoli non ancora scoperti”. Ma anche del Riformatorio, con la rediviva Maiolo. E di quel variopinto carrozzone di garantisti all’italiana formato da ignoranti patentati, come forzisti, leghisti, pidini, renziani e radicali liberi, e da competenti in malafede, che sanno benissimo come stanno le cose ma preferiscono ignorarlo per motivi di bottega, come molti esponenti dell’avvocatura. Tutta gente che non merita risposte: come diceva Arthur Bloch, “non discutere mai con un idiota, la gente potrebbe non notare la differenza”. Ma queste scemenze girano per il web e arrivano all’orecchio dei nostri lettori, che poi sono gli unici che m’interessano: un chiarimento mi pare obbligato.
La prescrizione nel processo è diversa da quella nelle indagini preliminari. Qui il pm investiga sull’esistenza del reato e sulla sua attribuzione agli indagati, prima di esercitare l’azione penale (cioè di chiedere il rinvio a giudizio). Se poi, mentre indaga, il reato si prescrive, molla lì e chiede l’archiviazione per prescrizione, senz’accertare o attribuire il reato. Tant’è che l’indagato prescritto non può rinunciare alla prescrizione. Se invece il pm chiede il rinvio a giudizio e il giudice lo accorda, l’indagato diventa imputato nel processo. E lì (art. 129 comma 2 del Codice di procedura penale), “quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta”. Cioè: anche se il reato è prescritto, se il giudice è convinto che l’imputato sia innocente, ha l’obbligo di assolverlo.
Se invece dichiara la prescrizione, è perché ritiene che sia colpevole o non esistano motivi sufficienti per assolverlo. Ancor più stringente è l’accertamento di colpevolezza di una prescrizione in appello o in Cassazione.
È quella che, grazie alla legge Bonafede, non esiste più. E riguarda indubitabilmente i colpevoli: se la Corte d’appello o la Cassazione dichiarano la prescrizione, condannano pure l’imputato a risarcire il danno all’eventuale parte civile e a pagare le spese processuali. Può mai esistere un innocente condannato alle spese e al risarcimento delle vittime? Ma vittime di chi e di cosa, se fosse innocente? Infatti la giurisprudenza della Consulta e della Cassazione è piena di sentenze che dichiarano la colpevolezza dell’imputato prescritto. Ultimo caso, la sentenza della Cassazione del 28.3.2019 n. 28911: “Come affermato dalla Corte costituzionale, tra le sentenze di proscioglimento che possono rivestire un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell’imputato che, ‘ancorché privo di effetti vincolanti’, è idoneo a pesare comunque ‘in senso negativo su giudizi civili amministrativi o disciplinari connessi al medesimo fatto’ ben può rientrare anche la sentenza di prescrizione”. Tanto più quando scatta per l’effetto dimezzante delle attenuanti generiche (riservate al colpevole: l’innocente non ha nulla da attenuare). Non solo: la vittima può usare la sentenza di prescrizione per fare causa civile all’imputato e farlo condannare a risarcire gli altri danni. Perciò l’imputato può sempre rinunciare alla prescrizione, per essere giudicato oltre i termini nella speranza di essere assolto. E può ricorrere contro la prescrizione per ottenere l’assoluzione nel merito.
Lo sapevano persino i due prescritti più famosi d’Italia: Berlusconi e Andreotti. Il primo, nove volte prescritto, si spacciava ogni volta per assolto, ma intanto sapeva benissimo di non esserlo: infatti non rinunciava mai alla prescrizione (mica fesso), ma impugnava regolarmente le sentenze di prescrizione per essere dichiarato innocente (sempre respinto con perdite). Il secondo, assolto in primo grado e mezzo prescritto in appello per associazione per delinquere con Cosa Nostra, mentre l’avvocata Bongiorno berciava “Assolto! Assolto! Assolto!”, la invitava amorevolmente a ricorrere in Cassazione per ottenere l’assoluzione: lo sapeva anche lui che prescrizione e assoluzione sono l’una l’opposto dell’altra. E l’aveva letta anche lui la sentenza d’appello sul “reato commesso fino alla primavera del 1980”. Purtroppo, anche per lui, la Cassazione confermò la prescrizione: cioè la sua colpevolezza di mafioso doc fino al secondo incontro col boss Bontate per discutere del delitto Mattarella. Persino lui, padre costituente, ricordava quello strano articolo 54 che impone a chi ricopre pubbliche funzioni “il dovere di adempierle con disciplina e onore”. E sapeva benissimo che non c’è alcun onore nel prendere la prescrizione per reati infamanti come la mafia. Infatti, se un magistrato accetta la prescrizione per un reato grave anziché rinunciarvi, viene subito sottoposto a procedimento disciplinare per esser punito almeno dal Csm. La qual cosa dovrebbe valere anche per i politici. Che invece si aggrappano alla prescrizione come se non fosse un’onta indelebile, ma un diritto inalienabile ed esclusivo. Vergogniamoci per loro.
La prescrizione nel processo è diversa da quella nelle indagini preliminari. Qui il pm investiga sull’esistenza del reato e sulla sua attribuzione agli indagati, prima di esercitare l’azione penale (cioè di chiedere il rinvio a giudizio). Se poi, mentre indaga, il reato si prescrive, molla lì e chiede l’archiviazione per prescrizione, senz’accertare o attribuire il reato. Tant’è che l’indagato prescritto non può rinunciare alla prescrizione. Se invece il pm chiede il rinvio a giudizio e il giudice lo accorda, l’indagato diventa imputato nel processo. E lì (art. 129 comma 2 del Codice di procedura penale), “quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta”. Cioè: anche se il reato è prescritto, se il giudice è convinto che l’imputato sia innocente, ha l’obbligo di assolverlo.
Se invece dichiara la prescrizione, è perché ritiene che sia colpevole o non esistano motivi sufficienti per assolverlo. Ancor più stringente è l’accertamento di colpevolezza di una prescrizione in appello o in Cassazione.
È quella che, grazie alla legge Bonafede, non esiste più. E riguarda indubitabilmente i colpevoli: se la Corte d’appello o la Cassazione dichiarano la prescrizione, condannano pure l’imputato a risarcire il danno all’eventuale parte civile e a pagare le spese processuali. Può mai esistere un innocente condannato alle spese e al risarcimento delle vittime? Ma vittime di chi e di cosa, se fosse innocente? Infatti la giurisprudenza della Consulta e della Cassazione è piena di sentenze che dichiarano la colpevolezza dell’imputato prescritto. Ultimo caso, la sentenza della Cassazione del 28.3.2019 n. 28911: “Come affermato dalla Corte costituzionale, tra le sentenze di proscioglimento che possono rivestire un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell’imputato che, ‘ancorché privo di effetti vincolanti’, è idoneo a pesare comunque ‘in senso negativo su giudizi civili amministrativi o disciplinari connessi al medesimo fatto’ ben può rientrare anche la sentenza di prescrizione”. Tanto più quando scatta per l’effetto dimezzante delle attenuanti generiche (riservate al colpevole: l’innocente non ha nulla da attenuare). Non solo: la vittima può usare la sentenza di prescrizione per fare causa civile all’imputato e farlo condannare a risarcire gli altri danni. Perciò l’imputato può sempre rinunciare alla prescrizione, per essere giudicato oltre i termini nella speranza di essere assolto. E può ricorrere contro la prescrizione per ottenere l’assoluzione nel merito.
Lo sapevano persino i due prescritti più famosi d’Italia: Berlusconi e Andreotti. Il primo, nove volte prescritto, si spacciava ogni volta per assolto, ma intanto sapeva benissimo di non esserlo: infatti non rinunciava mai alla prescrizione (mica fesso), ma impugnava regolarmente le sentenze di prescrizione per essere dichiarato innocente (sempre respinto con perdite). Il secondo, assolto in primo grado e mezzo prescritto in appello per associazione per delinquere con Cosa Nostra, mentre l’avvocata Bongiorno berciava “Assolto! Assolto! Assolto!”, la invitava amorevolmente a ricorrere in Cassazione per ottenere l’assoluzione: lo sapeva anche lui che prescrizione e assoluzione sono l’una l’opposto dell’altra. E l’aveva letta anche lui la sentenza d’appello sul “reato commesso fino alla primavera del 1980”. Purtroppo, anche per lui, la Cassazione confermò la prescrizione: cioè la sua colpevolezza di mafioso doc fino al secondo incontro col boss Bontate per discutere del delitto Mattarella. Persino lui, padre costituente, ricordava quello strano articolo 54 che impone a chi ricopre pubbliche funzioni “il dovere di adempierle con disciplina e onore”. E sapeva benissimo che non c’è alcun onore nel prendere la prescrizione per reati infamanti come la mafia. Infatti, se un magistrato accetta la prescrizione per un reato grave anziché rinunciarvi, viene subito sottoposto a procedimento disciplinare per esser punito almeno dal Csm. La qual cosa dovrebbe valere anche per i politici. Che invece si aggrappano alla prescrizione come se non fosse un’onta indelebile, ma un diritto inalienabile ed esclusivo. Vergogniamoci per loro.