martedì 19 luglio 2011

La chiesa come la Casta, in Grecia monta la rabbia contro le gerarchie ortodosse. - di Lettera22 per il Fatto.


Dalla Rete è nata una petizione per chiedere l'abolizione dei privilegi concessi ai religiosi: a cominciare dallo stipendio dei 9000 preti, pagato dalle casse statali fino all'immenso patrimonio immobiliare, nemmeno sfiorato per uscire dalla crisi economica.

La crisi economica investe anche la Chiesa ortodossa greca. Non tanto perché ne colpisce le rendite e gli assets, ma piuttosto per la rivolta popolare scoppiata, in tempi di austerity e sacrifici, proprio contro i vantaggi fiscali di cui gode la potente Chiesa ortodossa greca (la chiesa nazionale).

Il tam tam che sta investendo i vertici ecclesiastici, considerati dei “ricchi egoisti” è iniziato su Facebook: un pagina creata da alcuni giovani, che chiede “uguaglianza” e “il taglio dei privilegi”, ha raggiunto in poche ore oltre 100mila “amici”. Ne è nata ben presto una petizione per chiedere al governo una legge di iniziativa popolare che elimini tutti i benefici speciali, che rendono di fatto la Chiesa immune dall’impatto della recessione, oggi spettro per 11 milioni di cittadini.

Si parla di un’istituzione che detiene l’1,5% della azioni sella Banca Nazionale della Grecia, che è l’ente privato con maggiori possedimenti terrieri (seconda solo al demanio), che dà lavoro a migliaia di persone ma che, secondo gli osservatori, versa una quota di tasse irrisoria rispetto ai beni detenute.

Va detto che, prima della protesta pubblica, il “balletto Chiesa-stato” è durato alcuni mesi: in un primo tempo l’arcivescovo di Atene Ieronymos II, dopo un colloquio con il ministro delle Finanze ellenico,Evangelos Venizelos, aveva manifestato la disponibilità della Chiesa ortodossa a cedere parte del suo vasto patrimonio immobiliare per aiutare il paese a contrastare la crisi. Sembrava una mossa per condividere i sacrifici della popolazione. Ma, arrivati al punto di mettere in pratica le buone intenzioni, le proprietà della Chiesa ortodossa greca sono state escluse dalla lista dell’Ufficio per la valorizzazione della proprietà dello Stato, l’ente statale incaricato di attuare il programma delle privatizzazioni. Dunque, la Chiesa è uscita indenne dal piano.

Gli stipendi ai circa 9.000 preti attivi (oltre a quelli in pensione) continueranno ad essere pagati dallo Stato (con un esborso di 286 milioni di euro l’anno), mentre la nuova legge fiscale in preparazione dovrà avere il beneplacito ecclesiastico prima di giungere in Parlamento. Ieronymos e il ministro Venizelos hanno poi deciso, con un escamotage, di creare un ente speciale (in partnership stato-chiesa) per vendere parti esigue delle proprietà ecclesiastiche, destinando gli introiti a opere di beneficenza.

L’annuncio dell’esenzione, pur ammorbidita dal progetto futuribile di una limitata alienazione dei beni, per una fantomatica beneficenza (tutta da definire), ha scatenato la rivolta popolare. Che oggi investe le gerarchie e che ha trovato un sponda politica nell’ex ministro delle finanze Yannis Papantoniou.

Va detto che la Chiesa ortodossa in Grecia ha una antica storia di privilegi sul suo status, in un paese dove registra il 90% dei fedeli ed è costituzionalmente la “preferita”, unico gruppo religioso sostenuto finanziariamente dallo stato. E il Partito socialista del Premier George Papandreou, al governo ad Atene, non sembra volerne intaccare seriamente il potere, temendone la capacità di mobilitazione delle coscienze e dunque delle masse.

Anche perchè la Chiesa oggi respinge al mittente le accuse, rimarcando che nel 2010 il Santo Sinodo ha pagato all’erario la ragguardevole cifra di 1,3 milioni di euro. Il punto è che, attualmente, è impossibile controllare e stimare con precisione l’entità dei beni posseduti, in quanto ci si dovrebbe addentrare in un labirinto in cui ogni singola chiesa (che nel mondo ortodosso è autocefala) è responsabile per le tasse che paga. Le immense proprietà terriere, ricordano i leader religiosi, sono eredità del periodo della dominazione ottomana, quando i cittadini preferivano donarle alla Chiesa piuttosto che rischiare l’esproprio da parte di turchi. Ma oggi, mentre il paese soffre per disoccupazione galoppante, calo del potere di acquisto e nuove sacche di povertà, la giustificazione fa acqua. E un altro ex ministro delle Finanze, Sefanos Manos, reclama più trasparenza, invocando “un censimento indipendente delle proprietà ecclesiastiche”, chiedendo che, almeno per pagare i religiosi, si possano utilizzare le rendite relative a quei beni.

Proprio nell’autunno scorso, in messaggio distribuito in tutte le chiese, il sinodo della Chiesa ortodossa greca denunciava “la carenza di leadership e di senso etico” della classe dirigente, che “ha perso la propria indipendenza”. E bacchettava anche “un impoverimento morale della società, attirata solo dalla facile ricchezza e dal benessere”, esortando alla “solidarietà verso i bisognosi”.

Oggi, mentre la rabbia monta, quello che la chiesa potrebbe pagare, in questa fase difficile per la nazione, è un costo politico, di immagine, e di credibilità che potrebbe ferirla al cuore e generare un’emorragia di fedeli.

di Sonny Evangelista




Strage di Bologna, richiesta choc del Pdl “Esercito in piazza per l’anniversario”. - di Antonella Beccaria


Il deputato del centrodestra Garagnani: "C'è pericolo per l'ordine pubblico". Ma i membri del governo non ci saranno comunque. Libero Mancuso: "Il vero problema è psichiatrico". Cevenini: "E' procurato allarme". Merola: "Parole a vanvera". Paolo Bolognesi: "Ci prendono in giro".


Mai si era toccato così il fondo. Un deputato del Pdl che chiede l’esercito a Bologna. E non in un giorno qualsiasi, ma per le commemorazioni del 2 agosto, anno 1980, giorno in cui la città conobbe l’orrore. Non è bastata l’assenza di ogni rappresentante del governo per il trentennale della strage e che quest’anno si ripeterà, cosa di per sé già sconcertante. No, il Pdl va oltre e vuole che in piazza delle Medaglie d’Oro, davanti alla stazione, insieme ai familiari delle vittime, alle autorità e ai cittadini ci sia anche l’esercito.

A chiederlo è Fabio Garagnani, deputato del Pdl, per il quale ci sarebbe un “problema di ordine pubblico” da tenere sotto contro manu militari il prossimo 2 agosto. Di fatto, il parlamentare già da qualche giorno vedeva ipotetiche minacce scaturite da un “clima di permanente ideologizzazione”. Secondo lui lo dimostrerebbero un po’ le monetine lanciare poco tempo fa contro Manes Bernardini, in lizza per il centro destra per la poltrona di sindaco. Accadeva lo scorso 27 giugno, nel pieno delle contestazioni no tav.

E ancor prima – era la primavera scorsa – ci sono state le indagini per atti vandalici e attentati esplosivi contro le sedi bolognesi l’Ibm e l’Eni. Fatti attribuiti al fronte anarchico più radicale e che avevano portato ad arresti di persone che provengono da quell’ambiente. A ruota, durante le contestazioni in Val di Susa, anche esponenti emiliano-romagnoli di quell’ala politica si erano fatti qualche giorno di galera finendo poi ai domiciliari.

Garagnani, tra tutti questi eventi, vede un filo che li collega e che, in base alle dichiarazioni che ha rilasciato, non risparmierebbero nemmeno le cerimonie (ufficiali, dato che vedono la partecipazione del sindaco di Bologna, Virginio Merola, e di altri rappresentanti delle istituzioni) per una strage che fece 85 vittime e oltre 200 feriti. E poi torna su un leit motiv più tradizionale, nell’ottica polemiche pre-manifestazioni: per lui, sono “interpretazioni strumentali di comodo che hanno sin qui caratterizzato la suddetta ricorrenza” le sentenze che hanno condannato esecutori e depistatori. E che attribuiscono la responsabilità materiale all’estrema destra e i tentativi di sviare le indagini aservizi segreti militari e P2.

Di qui, l’invito al governo, se mai dovesse partecipare all’evento (eventualità ormai piuttosto improbabile, come raccontato dal Fatto Quotidiano pochi giorni fa), di portare “informazioni utili sulle piste percorse da terroristi di varia matrice”. In altre parole, la sollecitazione di Garagnani è di riportare l’attenzione sulle cosiddette “piste alternative”, che di volta in volta tirano in ballo i terroristi palestinesi, Carlos Lo Sciacallo (alias Ilich Ramírez Sánchez, leader Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina all’ergastolo in Francia) o i libici, come è tornato a fare Carlo Giovanardi, nella sua “verità” su Ustica riesuma la smentita tesi della bomba a bordo del Dc 9 dell’Itavia nella catastrofe del 27 giugno 1980.

Nessuna di queste piste, allo stato attuale, ha mai raccolto elementi utili per arrivare ad incriminazioni. Proprio da qui parte Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage alla stazione, nel replicare al deputato Pdl. “Ci sono sentenze passate in giudicato che hanno tenuto di fronte ad attacchi come quelli di Garagnani”, dice Bolognesi. “Dunque le strade sono due: o Garagnani porta prove tali per cui quelle sentenze vengano smentite oppure sta dando fiato a problemi che con la strage non c’entrano nulla”.

E il presidente dell’associazione vittime rincara la dose: “Questo governo o suoi rappresentanti non hanno alcun diritto a fare affermazioni del genere perché non sono credibili. Lo scorso 9 maggio, giorno di commemorazione di tutte le vittime del terrorismo, il presidente del consiglio Silvio Berlusconi aveva detto di aprire gli armadi della vergogna sugli anni di piombo, ma non mi risulta che i magistrati bolognesi siano stati sommersi di carte. Inoltre – e ancora più grave – a oggi non è ancora stata applicata la legge 206 del 2004 sulle pensioni di invalidità ai feriti del terrorismo. E questo nonostante le rassicurazioni di Berlusconi e di Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del consiglio. Dunque questa maggioranza ha preso in giro senza ritegno le vittime”.

Caustico anche il commento di Libero Mancuso, il magistrato che indagò sulla strage alla stazione rappresentando la pubblica accusa nel processo di primo grado e che è stato assessore nella giunta di Sergio Cofferati diventando poi un esponente di Sel. “Qui non si tratta di un problema di ordine pubblico”, afferma, “ma di un problema di ordine psichiatrico. Affermare che il 2 agosto serve l’esercito per strada è un’affermazione che non merita alcun commento”.

Per Maurizio Cevenini, consigliere comunale e regionale, “le manifestazioni che commemorano la strage hanno sempre visto una grande partecipazione pubblica e le contestazioni si sono sempre limitate ai fischi in piazza contro i referenti del governo. Quei fischi li ho sempre condannati, ma non sono in alcun modo un segno di violenza. Parlare di esercito e di pericoli non meglio definiti è di cattivo gusto, ma soprattutto è un procurato allarme. Che rifletta, lo schieramento di centro destra, sui fatti del 2 agosto 1980, dato che il governo qualche porta ancora chiusa la dovrebbe aprire”.

Una risposta secca anche da parte del sindaco, Virginio Merola. “Garagnani ha perso un’occasioneper stare zitto perché sono parole a vanvera”, ha dichiarato in serata. “Spero che quelle frasi sconsiderate non vengano tenute in considerazione da nessuno”
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Murdoch, trovato morto ex giornalista che fece esplodere lo scandalo Coulson

Si dimette anche il numero due di Scotland Yard. Cameron accorcia visita in Africa. Libera su cauzione Rebekah Brooks.


ROMA - Lo scandalo intercettazioni continua a terremotare la Gran Bretagna. Oggi si è dimesso anche il numero due di Scotland Yard, mentre spunta quello che potrebbe essere un cadavere eccellente, un ex cronista di News of the World trovato morto in casa. Intanto Rebekah Brooks è stata liberata ieri sera su cauzione. «Posso confermare che è stata liberata ieri sera su cauzione fino ad ottobre», ha detto il portavoce della polizia David Wilson. Ieri il capo di Scotland Yard, Sir Paul Stephenson, si è dimesso a causa dei suoi rapporti con Neil Wallis, ex vicedirettore di News of the World, che tra l'altro gli avrebbe pagato un soggiorno di 20 giorni in un centro benessere.

Oggi si è dimesso anche il numero due di Scotland Yard, John Yates. Anche queste dimissioni sono legate al ruolo di Neal Wallis. In mattinata sembrava che la Metropolitan Police fosse orientata a sospendere Yates fintanto che sono in corso le inchieste sulle intercettazioni dei tabloid di Rupert Murdoch e sui pagamenti ai poliziotti in cambio di informazioni. Il sindaco di Londra, Boris Johnson, ha parlato oggi al telefono con il ministro dell'interno, Theresa May, sulla crisi di Scotland Yard.

Tre alti funzionari di polizia presero mazzette dai tabloid di Rupert Murdoch, scrive il rivale Daily Mirror citando un ex dipendente di News of the World finito tra gli indagati. Secondo il Mirror il filone dell'inchiesta rischia di provocare la crisi più grave per Scotland Yard dalla fine degli anni Settanta quando 400 agenti della Met Police persero il posto nell'operazione Countryman anti-corruzione.

Sen Hoare, l'ex giornalista di News of the World che per primo aveva collegato Andy Coulson alle intercettazioni del tabloid di Murdoch, è stato trovato morto. Hoare era un ex giornalista di spettacolo del Sun e di News of the World licenziato per problemi di droga e alcol. L'ex reporter è stato trovato morto nella sua casa di Watford. La polizia dell'Hertfordshire non ha confermato la sua identità ma ha detto che l'uomo è spirato poco dopo l'arrivo dei soccorsi. «Le causa della morte al momento non sono state ancora accertate, ma il decesso non appare sospetto. Le indagini di polizia sono in corso», dicono le forze dell'ordine.

Hoare aveva fatto il nome di Coulson al New York Times. Nell'intervista, che aveva riaperto lo scandalo delle intercettazioni lo scorso settembre, l'ex giornalista aveva detto che non solo Coulson sapeva delle intercettazioni, ma che aveva incoraggiato il suo staff a violare i cellulari delle celebrità alla ricerca di esclusive. In una successiva intervista con la Bbc, Hare aveva detto che Coulson gli aveva personalmente chiesto di intercettare telefoni. E aveva aggiunto che l'insistenza dell'allora portavoce di Downing Street nel negare di essere a conoscenza della pratica delle intercettazioni era una «menzogna, semplicemente una menzogna».

Il primo ministro britannico David Cameron ha accorciato una visita in Africa per tornare domani in Gran Bretagna e gestire l'inchiesta sullo scandalo intercettazioni. Il primo ministro andrà solo in Sudafrica e Nigeria, saltando Sudan e Ruanda. Domani tornerà a Londra per completare l'organizzazione dell'inchiesta sulla vicenda del Lord Justice Leveson. Tutta la stampa inglese scrive stamani che le dimissioni del capo di Scotland Yard, Sir Paul Stephenson, rendono più difficile la posizione di Cameron, già nell'occhio del ciclone per aver scelto come portavoce un ex direttore di News of the World, Andy Coulson, quando era già sospettato di intercettazioni illegali. Coulson si era dovuto dimettere dall'incarico di portavoce ed è stato poi arrestato.

Il parlamento britannico potrebbe riunirsi in seduta straordinaria il prossimo mercoledì per discutere degli sviluppi dello scandalo intercettazioni, ha detto Cameron a Pretoria. «Potrebbe essere opportuno che il parlamento si riunisca mercoledì di modo che io possa intervenire nuovamente per aggiornare le camere sulla parte finale dell'inchiesta giudiziaria e rispondere alle domande che dovessero emergere tra oggi e domani», ha detto Cameron.

EUna portavoce del Serious Fraud Office (Sfo) ha dichiarato che l'ente britannico anti-frode darà «piena considerazione» alla richiesta dei parlamentari di lanciare un'inchiesta su News Corporation. A chiedere un'indagine è stato il parlamentare Tom Watson, che da tempo si sta concentrando sulle intercettazioni del News of the World. Secondo quanto riferisce oggi il Financial Times, Watson ieri ha scritto al direttore dell'ente anti-frode Richard Alderman, indicando le sue preoccupazioni nei confronti dei versamenti per un totale di 700.000 sterline fatti da News International a Gordon Taylor, il direttore della Professional Footballers' Association, uno degli intercettati. «Questo accordo includeva una clausola di confidenzialità», ha detto Watson, aggiungendo: «Questo ha impedito a prove sulla sistematicità delle intercettazioni di divenire pubbliche. Posso soltanto concludere che questo sia stato fatto per comprare il silenzio di una vittima di un crimine». Watson vuole inoltre che l'Sfo esamini una possibile violazione dei doveri fiduciari nei confronti degli azionisti da parte di News International, che ha utilizzato soldi ella società per pagare le spese legali di Andy Coulson - ora in libertà vigilata fino a ottobre - Glen Mulcaire e Clive Goodman, condannati nel 2007.

Il Dipartimento della Giustizia americano ha chiesto consulenza informale all'Sfo su come indagare sulle accuse che il News of the World avrebbe pagato agenti di polizia per ottenere informazioni. News Corporation è registrata negli Usa e secondo il Foreign Corrupt Practices Act è illegale per una società statunitense corrompere funzionari di Paesi esteri. Il Dipartimento non ha ancora lanciato un'inchiesta ma i suoi contatti con l'Sfo indicano quindi che ci sta pensando seriamente.


Manovra ok, Silvio ko. - di Marco Damilano


Passato il pacchetto Tremonti, finisce la tregua che la settimana scorsa ha tenuto insieme la maggioranza. Ora a rischiare il default è Berlusconi, mai debole come in questi giorni. E per lui si parla di un 'salvacondotto'.

Fino a che punto possono spingersi le larghe intese? In tempi di assalto della speculazione internazionale, di crisi di governo strisciante, di inchieste giudiziarie che fanno tremare il Palazzo, la ricerca spasmodica di inedite alleanze e di nuove protezioni può espandersi fino a diventare intese larghissime, onnicomprensive, a comprendere personaggi, settori, ambienti che in situazioni di normalità sarebbero inconciliabili. Per accorgersene bastava capitare domenica scorsa a Spoleto, all'Eremo delle Grazie, in occasione della cene finale del festival dei Due mondi, con l'orchestra del teatro San Carlo di Napoli in trasferta e un bel pezzo della città che conta ad accompagnarla. E osservare i commensali del tavolo d'onore, curato personalmente dal commissario del San Carlo Salvo Nastasi, che è anche capo di gabinetto del ministro della Cultura e devoto di Gianni Letta. Ed ecco, sorpresa, seduti uno accanto all'altro, di fronte al sindaco Luigi De Magistris, il sottosegretario Letta e il procuratore capo di Napoli Giandomenico Lepore, guida della procura più temuta e più incontrollabile d'Italia, da cui passano le inchieste sulla P4 e sul braccio destro di Giulio Tremonti, Marco Milanese. Al tavolo accanto, il pm Francesco Curcio, titolare dell'inchiesta sul grande amico di Letta, Luigi Bisignani. Tutti insieme, intenti a elogiare il menù tricolore, in onore dei 150 anni dell'Unità nazionale.

Massì, stringiamoci a coorte o almeno al desco e viva l'Italia, in questa settimana di paura, con il terrore del default che fa il miracolo, il Parlamento che vota in quattro giorni la manovra finanziaria, con l'intera opposizione Pd-Udc-Idv disposta ad accelerare i tempi di approvazione e con il ministro Tremonti che ne loda il senso dello Stato, unico precedente possibile la giornata più drammatica della storia repubblicana, il 16 marzo 1978, quando dopo il rapimento di Aldo Moro le Camere votarono in un pomeriggio la fiducia al governo presieduto da Giulio Andreotti.

Ma qui finiscono le somiglianze: perché nessuna unità nazionale è possibile attorno all'uomo del Crack, Silvio Berlusconi. E infatti nella stretta decisiva di lunedì 11 luglio, con la Borsa di Milano che si inabissava al meno 4 per cento, il premier si chiudeva nel silenzio e faceva perdere le tracce, impegnato probabilmente in una riunione familiare per decidere la strategia da adottare sul risarcimento di 560 milioni di euro da consegnare alla Cir di Carlo De Benedetti dopo la sentenza di Milano sul lodo Mondadori. E in assenza del presidente del Consiglio il governo della crisi finanziaria passava nelle mani del Quirinale, da Giorgio Napolitano, in collegamento con Letta a Palazzo Chigi.

Con le opposizioni, a partire dal Pd di Pier Luigi Bersani e dall'Udc di Pier Ferdinando Casini, avvistato nei giorni successivi a braccetto con Antonio Di Pietro in pieno Transatlantico, a dare il via libera per l'approvazione a tempo record, sia pure continuando a votare contro. "Se non lo avessimo fatto", ragiona il bersaniano Andrea Orlando, "Berlusconi avrebbe rovesciato addosso a noi la responsabilità della speculazione. Dopo l'approvazione della manovra, però, dovremo riprendere ad alzare la voce".

La voglia di unità nazionale provocata dagli attacchi in Borsa mal si concilia con un quadro politico sempre più sfilacciato. La tregua sembra destinata a durare il tempo di dare ai mercati l'impressione di un Paese compatto: una volta passata la manovra in Parlamento la tensione è destinata a risalire. Nel mirino, più di tutti, c'è Giulio Tremonti. Isolato nella maggioranza, abbandonato dalla Lega, sfiorato dall'inchiesta giudiziaria che coinvolge pesantemente il suo uomo di fiducia Marco Milanese. Sull'orlo di una crisi di nervi, al punto di sentire il dovere di scusarsi con i senatori dell'opposizione a Palazzo Madama: "Non dormo da due giorni". Difficile che il ministro possa tornare a sonni tranquilli nei prossimi giorni. Dopo la tempesta economica sta per abbattersi su di lui quella politico-giudiziaria. "Prima si diceva che i mercati crollavano perché Tremonti minacciava di dimettersi. Ora si afferma che i mercati vanno giù perché Tremonti minaccia di restare", sintetizza un deputato della maggioranza. "Su Tremonti noi del Pd non abbiamo detto una parola per senso di responsabilità. Ma ora bisognerà prendere posizione", avverte Orlando. Angosciante lo spettacolo che arriva dall'inchiesta di Napoli: il potente ministro dell'Economia racconta ai pm di un tentativo di intimidazione ai suoi danni organizzato all'interno della maggioranza e del governo ("Dissi a Berlusconi di essere refrattario al metodo Boffo"), descrive la trama di un complotto ai suoi danni che parte dal Pdl e da Palazzo Chigi. Mentre nel gruppo parlamentare azzurro già calcolano a decine i colleghi pronti a votare per l'arresto di Milanese quando la richiesta arriverà in aula.



lunedì 18 luglio 2011

San Raffele, suicida il vice di don Verzè Il suo avvocato: “Non era indagato”.

Mario Cal si è sparato nel suo ufficio presso l'ospedale milanese, di cui era il massimo responsabile finanziario. Pochi giorni fa era strato sentito dal pm che indaga sul buco da un miliardo di euro nei conti dell'ente. "Ma non era indagato", afferma il suo avvocato. Il manager era stato coinvolto in due inchieste ai tempi di Mani pulite.


L’ex vicepresidente del SanRaffaele, Mario Cal, si è suicidato con un colpo di pistola nel suo ufficio all’interno dell’ospedale milanese, dove lavorava da circa trent’anni. Trevigiano, 71 anni, nei giorni scorsi era stato ascoltato dalla procura di Milano in relazione al buco da oltre un miliardo di euro nei conti del gruppo. Il numero due del fondatore don Luigi Verzè è stato negli ultimi anni l’anima finanziaria del San Raffaele e della Fondazione Monte Tabor, il protagonista di investimenti milionari in tutto il mondo, a volte azzardati. Pochi mesi fa, don Verzè lo aveva definito “un amico fraterno”.

“Cal non era indagato, i magistrati milanesi lo hanno sentito soltanto come persona informata sui fatti”, ha detto il suo avvocato Rosario Minniti, “e il San Raffaele non è coinvolto in alcuno scandalo finanziario”. Secondo Minniti, il colloquio con il pm Luigi Orsi ha riguardato semplicemente “la crisi finanziaria” dell’ente ospedaliero.

Il manager si è sparato con una calibro 38 regolarmente detenuta, dopo essere arrivato in ufficio per raccogliere gli effetti personali, visto che era dimissionario. Dopo aver salutato la segretaria, ha chiuso la porta e si è sentito il colpo. L’ex vice presidente ha lasciato due lettere, una destinata alla moglie e una alle sue segretarie. Poche righe ciascuna in cui non ci sarebbe riferimento, secondo le prime informazioni, alle vicende dell’ospedale, ma solo parole di commiato.

Sembrano destinati a diradarsi, invece, i dubbi sul ritrovamento della pistola, rinvenuta in un sacchetto di plastica lontano dal corpo di Cal. Secondo la prima ricostruzione, a spostare l’arma sarebbe stato un inserviente della struttura. L’uomo sarà sentito dai pm.

Poche parole intanto sono arrivate dalla struttura medica: “Mario Cal è deceduto alle ore 10.57 presso il pronto soccorso dell’ospedale San Raffaele, dove era stato portato alle ore 10.21″, afferma in un comunicato il primario dell’emergenza Michele Carlucci. “E’ stato immediatamente rianimato”, continua, “le sue condizioni sono apparse subito critiche ci sono stati periodi di stabilizzazione dei parametri vitali, tuttavia Cal è deceduto”.

“Non era preoccupato per l’inchiesta giudiziaria, ma per i debiti accumulati dal San Raffaele, che non aveva mezzi per far fronte al pagamento dei creditori”, ha dichiarato l’avvocato Minniti. Anche se pochi giorni fa è entrato in carica un nuovo consiglio d’amministrazione, guidato da Giuseppe Profitidel Bambin Gesù di Roma, sostenuto dal Vaticano e da un nutrito pool di banche.

Negli anni Novanta, Mario Cal era stato coinvolto in due inchieste del filone Mani pulite: quella sui terreni venduti sottocosto dall’ente assistenziale Ipab, guidato dal socialista Matteo Carriera, e per una storia di corruzione alla Guardia di finanza, per ordine dell’allora magistrato Antonio Di Pietro.



Costi di casta, ogni nuovo gruppo parlamentare vale tre milioni di euro. - di Thomas Mackinson


Le formazioni - tra Camera e Senato ce ne sono tredici - hanno personale proprio e spese di segreteria che incidono per il 69,5% sui costi di funzionamento. Montecitorio spende 35,3 milioni di euro all'anno.


Casta, stipendi parlamentari e privilegi a non finire. Dopo la manovra che non taglia niente ai parlamentari ma impone pesanti sacrifici ai cittadini scatta una nuova ondata anti-casta con l’Italia intera che attraverso la rete invoca a gran voce una rivoluzione totale. Ma attenzione perché forse è meglio che nulla cambi, che tutto continui all’insegna della “l’immobilità parlamentare”. Perché ogni lite, ogni discussione o distinguo rischia solo di generare nuovi costi sulle spalle dei contribuenti. Lo rivela Il Sole24Ore che ha messo sotto la lente il costo dei Gruppi parlamentari e delle singole formazioni che ne fanno parte.

Il conto è salatissimo. I gruppi pesano sulle tasche degli italiani 35,7 milioni di euro e ogni volta che ne nasce uno nuovo arriva a costare da solo tre milioni di euro. Ogni gruppo, infatti, ha un suo personale, sue spese di segreteria che incidono complessivamente per il 69,5% sui costi per il funzionamento. Per ospitare un nuovo gruppo bisogna trovare nuovi uffici o adibire i vecchi a nuovi “ospiti”: sposta di qua, trova nuovi spazi di là, non è stupefacente il fatto che solo per l’affitto di uffici al centro di Roma Montecitorio spenda 35,3 milioni di euro all’anno. Alla fine dei conti la sola Camera spende ogni anno 57mila euro a deputato, aggiuntivi rispetto alle indennità e ai rimborsi vari. La loro conflittualità, infatti, costa cara ai cittadini. Resta una domanda di fondo: ma la legge elettorale non doveva mettere un freno alla proliferazione di partiti, sigle e partitini? Doveva, in teoria. Alle ultime politiche, infatti, i gruppi a Montecitorio erano solo cinque ma neanche due anni dopo sono diventati tredici. Con un costo aggiuntivo di 24 milioni di euro per i cittadini.

Il perché è presto detto. La legge elettorale ribattezzata “Porcellum” che porta la firma di Roberto Calderoli ha imposto sbarramenti al 4% dei voti a livello nazionale alla Camera e all’8% su base regionale al Senato. La legge ha quindi bloccato la “mobilità in entrata”, lasciando sulla soglia del Parlamento le minoranze e con esse buona parte della rappresentanza del Paese (ad esempio tutta la sinistra e la destra radicale). Ma non quella interna all’aula che si traduce in una proliferazione senza freni di nuove formazioni da parte degli eletti. Deputati e senatori, una volta occupato il loro legittimo scranno su mandato degli elettori, decidono di sedere su un altro. Così, complici i cambi di maggioranza, le scissioni si assiste al walzer dei gruppi e alla nascita di nuove sigle e siglette. Ogni gruppo ha un suo personale, sue spese di segreteria che incidono complessivamente per il 69,5% sui costi per il funzionamento. In pratica la Camera spende ogni anno 35,7 milioni di euro per il funzionamento dei gruppi: si tratta di 57mila euro a deputato, aggiuntivi rispetto alle indennità e ai rimborsi vari.

Storia di costi ulteriori, perché per ospitare un nuovo gruppo bisogna trovare nuovi uffici o adibire i vecchi a nuovi “ospiti”: sposta di qua, trova nuovi spazi di là, non è stupefacente il fatto che solo per l’affitto di uffici al centro di Roma Montecitorio spenda 35,3 milioni di euro all’anno. Ma questo pare interessare poco gli eletti, che non si lasciano imbrigliare dai costi e perseguono (ad ogni costo) i loro principi. Infatti i casi di scissione e nuova formazione sotto altre spoglie sono numerosi e stanno a destra e manca. Prima l’esodo di singoli nel Gruppo Misto, poi la diaspora dei finiani in Futuro e libertà e la nascita dei Responsabili, rispettivamente causa ed effetto del voto pro Berlusconi del 14 dicembre. A questi però vanno aggiunti i sottogruppi del misto (all’interno ci sono, per esempio, i Repubblicani azionisti e Liberaldemocratici) che comprendono anche l’Api di Francesco Rutellifuoriusciti dal Pd.

Se il quadro nazionale è questo bisogna poi verificare gli effetti a valle delle scissioni a monte. Perché se a Roma nasce un nuovo gruppo, facilmente questo si ritroverà a sedere su altre poltrone anche in regioni e province. Con effetti “moltiplicatori” dei costi che spesso sono stupefacenti. Sempre il quotidiano di Confindustria stigmatizza la situazione della Basilicata dove la popolazione conta circa 600mila abitanti (metà di quella milanese) e in consiglio regionale siedono in 30, divisi però in ben 11 gruppi. Uno, in particolare, segna il massimo della coesione interna: Popolari Uniti, infatti, sono uniti davvero perché il loro gruppo è composto da un solo consigliere che è ovviamente capogruppo e lo stesso accade a Io amo la Lucania, a Per la Basilicata, oltre a Sel, Idv, Psi, Api ed Mpa. Così gli 11 capigruppo ai 6.529,49 euro al mese che compongono l’indennità e i rimborsi del consigliere senza stellette possono aggiungere 667 euro al mese per il grado di capogruppo. Più generoso l’extra dei capigruppo nel Lazio (813 euro), e in Piemonte e Veneto (mille euro). La riprova che a trainare le scissioni e i nuovi gruppi sia il vil denaro arriva dal Molise dove non sono ammessi per statuto extra per i capigruppo. Qui il tempo si è fermato: la geografia dei gruppi è rimasta la stessa del 1994 con i gruppi di Forza Italia, Alleanza Nazionale, i Ds, la Margherita, lo Sdi e l’Udeur. Nel consiglio regionale molisano ci sono ancora tutti, e convivono serenamente con le ultime novità in fatto di partiti (c’è il Fli, oltre all’Mpa) e con le sigle locali (Per il Molise, Progetto Molise e Molise Civile).