martedì 27 dicembre 2011

ARRIVA IL PANNELLO SOLARE CHE PRODUCE CALDO, FREDDO ED ENERGIA ELETTRICA IN PIENA AUTONOMIA. E IL BREVETTO E' ITALIANO




L'idea a Francesco Negrisolo è nata proprio con la classica illuminazione improvvisa, quella dell'eureka di Archimede. Ma da quando gli è piovuta nella testa ha continuato a svilupparsi, mese dopo mese e anno dopo anno, fino a coinvolgere altre persone che hanno cominciato a crederci come lui, fino a diventare un progetto e poi un prototipo, a convincerlo a lasciare il proprio lavoro per dedicarsi quasi solo al suo sviluppo fondando una società, fino a trovare il sostegno dei "business angels", gli angeli degli imprenditori che hanno deciso di finanziare la sua impresa e rischiare con lui. E adesso l'idea di Francesco Negrisolo sta per diventare un prodotto pronto per il mercato. 


Quello che ha inventato è un nuovo sistema per sfruttare l'energia solare, un pannello capace di concentrare i raggi della nostra stella per arrivare a temperature molto più alte (http://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com/2009/01/il-futuro-del-s.html) di quelle dei normali pannelli per la produzione di acqua calda. Però senza i complicati sistemi (http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2011-09-14/cuore-solare-archimede-diventa-184812.shtmldi cui hanno bisogno gli impianti del solare termodinamico tradizionale, quelli con i grandi specchi parabolici che seguono la posizione del sole e riflettono tutti i raggi verso un unico punto dove c'è una cisterna da portare a oltre 300 °C. Il calore assorbito dal pannello potrà poi facilmente essere trasformato in acqua calda per il riscaldamento e per lavarsi, in freddo per gli impianti di condizionamento, in energia elettrica. Meglio ancora, avrà un sistema di immagazzinamento che renderà ogni impianto completamente autonomo. Un palazzo, una villetta, una piccola impresa quando monteranno questo sistema non avranno, in teoria, nemmeno bisogno di allacciarsi alla rete elettrica e potranno davvero fare tutto da sé.


Quando Negrisolo ha cominciato a pensarci aveva da poco lasciato Pirelli Cavi, dove si occupava di progettare fibre e amplificatori ottici, forte di un'esperienza fatta alla Stet sempre dedicandosi a cercare di realizzare il miglior hardware per la trasmissione di segnali. Il suo mestiere era diventata la progettazione di impianti di energia per grandi aziende come Eni ed Enel. Ed è proprio dall'unione di tutte queste esperienze, racconta, che è nata l'idea del nuovo sistema, capace di trasformare un pannello che assomiglia moltissimo a quelli tradizionali termici in un piccolo impianto di solare termodinamico. Invece di scaldare una miscela di acqua fino a 80-100 °C, infatti, la temperatura del liquido che circola nel pannello può arrivare anche a 250 °C. «La luce viene in un certo senso raddrizzata, grazie a un sistema di specchi, ma non solo, ci sono tanti principi che lavorano insieme. Diciamo che il risultato è un sistema capace di catturare la luce ovunque sia il sole senza bisogno di inseguirlo con sistemi meccanici che spostino il pannello», racconta. E il pannello, proprio quelli termici tradizionali, è in grado di raccogliere anche l'energia diffusa, quella delle giornate nuvolose, e non solo la luce diretta. Accanto a lui siedono Maria Cristina Rosso, project manager della società che hanno fondato insieme dopo essersi conosciuti lavorando in Pirelli, e Roberto Campagnola, il loro "business angel". Anche Maria Cristina Rosso, ingegnere come Negrisolo, ha lasciato quello che stava facendo per credere in questa avventura «perché mi piacciono le sfide, la tecnologia e il futuro». È lei che ha scelto di chiamare la loro start up Ohikia, una parola greca che indica la casa, ma anche nel senso della propria famiglia e della propria stirpe: qualcosa che è destinato a durare e ad essere solido, insomma. Campagnola arriva da quel gruppo di scout delle nuove idee imprenditoriali che si sono dati il nome di Italian Angels for Growth (http://www.italianangels.net/layout/layout9.asp?ARE_ID=13): 89 soci che abbracciano quasi tutta l'Italia e che, quando trovano un progetto valido, decidono di aiutarlo a crescere investendo direttamente i propri soldi. In questo caso Campagnola è proprio entrato a far parte della nuova società.


Ma cosa succede al calore raccolto dai nuovi pannelli, che più correttamente vengono chiamati "collettori solari"? Qui c'è la seconda novità. Il calore viene immagazzinato in una "batteria termica" che ha le dimensioni di un grosso frigorifero. Le batterie di questo genere esistono già, non le ha inventate Negrisolo. Lui però ha trovato una miscela molto semplice del liquido con cui funzionano che può lavorare bene tra 100 e 200 °C. Le batterie, come i pannelli, sono un sistema modulare: a seconda delle esigenze ciascuno può scegliere quante installarne. Per una famiglia, una dovrebbe essere sufficiente: meno di 2 metri cubi di batteria possono accumulare energia termica pari a 75 kWh. «Per l'uso domestico limiteremo anche la temperatura a 160 °C. Ma la cosa più importante è che la nostra batteria si può adattare facilmente a diverse temperature di utilizzo».
Questo, spiega l'ingegnere, è un po' il cuore del sistema Ohikia. Perché è da qui che parte il vero sfruttamento dell'energia assorbita. Il primo uso è ovviamente quello del riscaldamento: non solo quello domestico, ma anche il riscaldamento che può servire a laboratori o piccole industrie come i birrifici o gli impianti di essicazione, per esempio. Oppure il calore può essere trasferito a un "chiller", ossia un apparecchio che trasforma il caldo in freddo, per rifornire impianti di condizionamento oppure frigoriferi grandi e piccoli, come quelli di un supermercato. Infine, il calore può passare a un generatore di corrente elettrica. Ma non un generatore tradizionale, né una turbina «che si romperebbe in fretta e avrebbe comunque un'efficienza bassissima». Ohikia si è rivolta a un partner specializzato nei sistemi di generazione per mettere a punto una versione particolare di un generatore che lavora con gas che si espandono a pressione costante. 

di Paolo Magliocco - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/Pp6L4


https://www.facebook.com/notes/partigiani-del-terzo-millennio/arriva-il-pannello-solare-che-produce-caldo-freddo-ed-energia-elettrica-in-piena/267125406682881

Monti ha aumentato anche la tassa sulla tv spazzatura.


da TWITTER : Microsatira Alberto 
il canone RAI sale a 112 euro. Monti ha aumentato anche la tassa sulla tv spazzatura.



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Spread, una parola lunga un anno. - di Matteo Cavallito



Solo nel 2006, quando la crisi era ancora lontana, il differenziale con i titoli tedeschi si fermava a 24 punti base, e il termine era una sintesi per addetti ai lavori. Prima di Natale la distanza dai bund si attestava intorno a quota 500. Ma non è solo il numero ad essere cambiato. Con l'economia mondiale, gli italiani hanno imparato a fare i conti con la finanza, e con il rischio di insolvenza del nostro Paese. Che per il 2012 si annuncia tutto tranne che scomparso.


Una parola sola che dice tutto ciò che c’è da sapere. Sei lettere diventate un incubo, e non solo per gli operatori. Spread, ovvero ampiezza, divario, differenziale. Per antonomasia, almeno per il pubblico italiano, il premio richiesto dagli investitori per acquistare Btp a dieci anni invece degli omologhi tedeschi, i solidissimi e rispettabilissimi Bund. In altre parole la misura del rischio d’insolvenza del nostro Paese nel sempre più impietoso confronto con la prima economia del Continente. Insomma, per chi ancora avesse dei dubbi è semplicemente la parola dell’anno.

A ben vedere la storia è tutta qui. E che storia, verrebbe da dire. La variazione di rendimento tra i nostri titoli di Stato e quelli di Berlino ha letteralmente invaso la vita quotidiana dell’ultimo semestre. Nell’ordine: ha scatenato la crisi nel Paese, ha cambiato la percezione della stessa presso i cittadini, ha contribuito a far cadere un governo e, particolare importante, ha alimentato in Italia un interesse mai sperimentato prima per le vicende finanziarie. Spread come termometro della crisi, spread come psicosi collettiva, spread come chiacchiera da bar, manco fosse il bel tempo, il gossip o la moviola. Insomma, è stata una rivoluzione. Pagata a caro prezzo.

L’indicatore era un tempo materia per gli esperti. Un dato significativo per gli operatori, forse, ma non certo per i cittadini. E non è difficile capire il perché. Nel 2006, quando la crisi era ancora lontana, il differenziale Btp/Bund segnava 24, trascurabilissimi, punti base. In pratica, i nostri titoli rendevano lo 0,24% in più rispetto ai Bund dimostrandosi addirittura più sicuri, nella percezione degli investitori, di due mostri sacri come i bond statali britannici (82 punti base in più rispetto agli omologhi tedeschi) e i Treasuries di Washington (87 punti). Ma in fondo stiamo parlando della preistoria, un’epoca felice in cui la Grecia vantava un rating da serie A e l’ipotesi di una crisi debitoria sovrana europea appariva fantascienza pura. Poi, improvvisamente, l’apocalisse.

In pochi se ne accorgono, ma nel 2008 il processo di deterioramento è già in atto. Lo spread Btp/Bund passa a quota 92 punti, con i titoli italiani al 4,59%, quasi l’1% in più rispetto ai tedeschi. Nel 2010 si sale a 160 ma il peggio deve ancora venire. Il 23 dicembre di quell’anno, i dati sui titoli sovrani sono già un mezzo bollettino di guerra: i bund salgono di prezzo trasformandosi in bene rifugio con un calo dei rendimenti sotto quota 3%. Lo spread italiano viaggia a 176 punti base, quello irlandese a 621, contro il 377 del Portogallo, il 251 della Spagna e il 932 della Grecia. A distanza di un anno, e siamo ai giorni nostri, il peggioramento risulta a dir poco mostruoso: 667per l’Irlanda, 347 per la Spagna, 1.120 per il Portogallo, 500 per l’Italia. Fino all’astronomica cifra di 3.682 punti base che separa i rendimenti del bund da quelli dei titoli di Stato della Repubblica Ellenica. Un autentico disastro. Ma, almeno per l’Italia, non si tratta del risultato peggiore.

200 punti a fine giugno, 300 a inizio luglio, 400 ad agosto, addirittura 500 ai primi di novembre.L’andamento dei differenziali Italia/Germania assume toni raccapriccianti. Da una parte c’è la crescente sfiducia verso la solvibilità del debito italiano, dall’altra la corsa al rifugio sicuro dei titoli berlinesi. Fatto sta che di fronte alla soglia del 7% che caratterizza i rendimenti del decennale italiano qualcuno inizia a parlare di costi insostenibili per un Paese chiamato a rifinanziare quello che in valore assoluto resta il terzo debito pubblico del mondo (dopo quelli di Stati Uniti eGiappone). Il 9 novembre del 2011 è una data storica, e non solo perché vi cade il 22esimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. Nel corso delle contrattazioni, lo spread di casa nostra tocca i 575 punti, ennesimo disastroso record dall’introduzione della moneta unica. “Siamo sull’orlo del baratro” dichiarerà la presidente degli industriali Emma Marcegaglia. Il giorno dopo, lo stesso quotidiano della Confindustria, il solitamente pacato Sole 24 Ore, titolerà con due sole parole: “Fate presto”. Citazione dichiarata alla storica prima pagina che il quotidiano napoletano Il Mattino dedicò al devastante terremoto in Irpinia nel lontano 1980.

Il resto è cronaca. L’atteso “effetto Monti” non si è visto, se non per un breve intermezzo. Il peso della crisi europea e la carenza di risposte tanto da parte della Bce quanto da i leader europei continua a condizionare negativamente la fiducia del mercato. Una cosa è comunque certa: i vecchi livelli di differenziale non torneranno mai più. D’altra parte quell’Europa del passato in cui investire in bund o in titoli ellenici faceva relativamente poca differenza è naufragata con l’idea stessa di un’eurozona capace di rispondere tempestivamente alla crisi con contromisure degne di questo nome. Ridurre la tensione sui mercati alleggerendo il peso dei rifinanziamenti sui debiti, pur nel contesto di un’Europa a rischio variabile, resta oggi il massimo obiettivo possibile. E il fatto che il 2012 si annunci già come un anno di diffusa recessione non aiuterà di certo. Insomma, buon spread Europa. Ne hai veramente bisogno.

lunedì 26 dicembre 2011

L'Italia è una repubblica "basata" sui cittadini...



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Quelli che dicono no all’Italia dei corrotti. -



Il caso del calciatore del Gubbio, Simone Farina, che ha rifiutato 200mila euro (per truccare una partita di Coppia Italia) non è un episodio isolato. Dal dirigente Enav che ha detto no a una tangente fino al sindaco Angelo Vassallo, sono molti gli esempi positivi che non cedono alla corruzione. Ma non chiamateli eroi.


Quelli che dicono no conoscono poche parole. Non si raccontano nemmeno. Non predicano, fanno. Quelli che dicono no, spesso, stanno in basso. E se puntano in alto, cercano la strada più giusta e corretta. Onesta, semplicemente. Quelli che dicono no si fermano prima di una tentazione, di un calcolo matematico, di un fruscìo di banconote. S’incazzano. Quelli comeSimone Farina, difensore di Serie B, cinque anni nel Gubbio, rispondono offesi a chi cerca di corromperli: “Io queste cose non le faccio”. E basta. Senza tormenti di coscienza, senza ripensamenti. A Farina offrivano 200 mila euro per truccare una partita di Coppa Italia col Cesena: perdere una gara quasi inutile per far felice lamalavita che col calcio sporco ci campa (e di lusso). Farina gioca, a volte male, a volte bene. Ha un buono stipendio per la Serie B di zona retrocessione, né ricco né povero. E 50 mila euro, imprevisti, fanno la differenza. Ma Farina ha detto no perché mai avrebbe detto sì: “No ai soldi sporchi”. Quelli che dicono no come Simone Farina (e denunciano un ex compagno al capitano e all’allenatore), che mai vincerà un Mondiale, lo fanno per se stessi e per quello che fanno. Non sono tanti, però si fanno sentire. Sono piccoli ingranaggi che fanno saltare sistemi di corruzione studiati, rodati, quasi scientifici. Si mettono di traverso per istinto. No, non per gloria. No, non per apparire. Si fanno ricordare per un giorno, poi tornano lì dove volevano restare. Con la faccia e le mani pulite, qualche sguardo di troppo, qualche domanda stupida cui rispondere. Quelli che dicono no scelgono solo due lettere per stare meglio: no.

Vernamonte e Antonelli – funzionari delle Entrate. I nomi di Francesco Vernamonte eGiuseppe Antonelli dicono poco. Le cronache veloci di agenzie e quotidiani nemmeno li hanno citati . Eppure i due funzionari dell’Agenzia delle Entrate hanno rifiutato una mazzetta di 10 mila euro e 2 sterline d’oro nascoste in una scatola di cioccolatini. Un commercialista romano voleva ammorbidire gli accertamenti fiscali sulla Brunelli Sud spa [estranea al tentativo di corruzione, ndr], un’azienda casearia laziale che ha evaso 5 milioni e 600 mila euro. Vernamonte e Antonelli hanno subito denunciato il tentativo di corruzione. E il commercialista è stato arrestato.

Giovanni Parascandola – l’appuntato. Adesso è tornato a fare il piantone, tre anni fa, l’appuntato Giovanni Ladonea Parascandola girava la Campania e monitorava la discarica diVillarica. Il carabiniere documentava il ciclo dei rifiuti, che tante inchieste giudiziarie e tanti milioni di euro hanno bruciato. Parascandola faceva il suo mestiere, senza spirito ambientalistico, ma perché faceva parte del nucleo a disposizione dei Commissario speciale. Arrivò Guido Bertolasoe sciolse il gruppo. Un maresciallo voleva punirlo. L’appuntato, più che semplice, disse: “Ho fatto solo il mio dovere. Noi carabinieri abbiamo un solo credo, la legalità”.

Raphael Rossi – l’ingegnere dei rifiuti. Nome comune, gesto raro. Raphael Rossi è un giovane ingegnere italiano. È stato vicepresidente dell’Amiat, l’azienda municipale di Torino che si occupa di rifiuti. È stato cacciato perché ha impedito che fosse acquistato un macchinario inutile di 4,2 milioni di euro. E ha fatto arrestare chi voleva corromperlo con una mazzetta di 100 mi-la euro. Il Comune di Torino, sindaco Sergio Chiamparino, non si è nemmeno costituito parte civile nel processo. La storia di Raphael ha un lieto fine. Il sindaco Luigi De Magistris l’ha chiamato a Napoli per dirigere l’Asia, l’azienda del comune che gestisce la raccolta dei rifiuti.

Ambrogio Mauri – l’imprenditore pulito. Ambrogio Mauri ha cominciato con una piccola officina a Desio, in Brianza. Poi è diventato uno dei maggiori costruttori di autobus. Fin quando a Milano, prima di Mani Pulite, lavoravi soltanto se pagavi: se staccavi assegni ai partiti. Mauri non ha mai pagato per lavorare e si è trovato con l’azienda in crisi. Le inchieste di Tangentopoli accesero una speranza, Mauri ci credeva, andò a testimoniare spontaneamente. Prima di suicidarsi, il 21 aprile del ‘97, scrisse una lettera: “Auguro, a chi continua a resistere, di avere maggiore fortuna”.

Fausto Simoni – il dirigente Enav. Le inchieste giudiziarie su appalti e commesse diFinmeccanica hanno svelato un sistema ben oliato di tangenti. Anche una società del gruppo, Enav, è stata coinvolta. Ma un dirigente, che preferisce i toni lievi (“Non sono un eroe”), per tre anni ha rifiutato soldi e respinto pressioni. Fausto Simoni ha spiegato il sistema ai magistrati e si è raccontato con parole semplici: “Non sono né un eroe né una rockstar. Non cedere alle pressioni di chi mi offriva una tangente è stato naturale, ovvio direi. Perché non saprei lavorare diversamente da come faccio abitualmente. Con onestà”.

Nino De Masi – mai il pizzo alla ‘ndrangheta. Titolare di un’azienda di macchine agricole fondata nel 1954 nella Piana di Gioia Tauro, da 20 anni, seguendo il cammino del padre Giuseppe, si oppone pubblicamente alle richieste di pizzo della ‘ndrangheta, lottando non solo contro i clan e una società abituata allo staus quo del potere criminale, ma anche contro le banche, portate in giudizio a causa di tassi d’interesse che spesso hanno sfiorato, quando non oltrepassato, il limite dell’usura. De Masi non ha mai chiuso e continua a produrre in Calabria:“Assumo il rischio consapevolmente – ha dichiarato a Report – perché in discussione non ci sono i soldi, ma la libertà mia e dei miei figli”.

Angelo Vassallo – il sindaco anti-camorra. Primo cittadino di Pollica, in provincia di Salerno, assassinato il 5 settembre 2010. Secondo gli investigatori il delitto sarebbe di matrice camorristica. Il “sindaco pescatore” si sarebbe opposto agli appetiti dei clan suscitati dalle opportunità di sviluppo turistico della località cilentana, che Vassallo, noto per il suo impegno ambientalista, aveva saputo valorizzare e rilanciare. Fu ucciso in auto, mentre rincasava, in una strada poco battuta. Il finestrino era aperto, segno forse che il sindaco aveva riconosciuto la persona che lo aveva fermato, e aveva discusso con lui.

Patricio Enriquez Loor – il ribelle di Sesto. Docente di Urbanistica al Politecnico di Milano, Patricio Enriquez Loor è stato membro dello staff dirigenziale del sindaco di Sesto San Giovanni. Se ne andò sbattendo la porta quando capì che le decisioni sull’area all’area ex-Falk, di cui avrebbe dovuto occuparsi come urbanista, venivano prese altrove. “Cercai di oppormi mi hanno accusato pubblicamente di essere un sabotatore, poi il sindaco mi fece capire che se mi fossi adeguato avrei avuto il giusto premio economico”. Ha rinunciato all’incarico nell’estate 2009 e, assieme a un gruppo di cittadini, ha impugnato il piano generale del Territorio di Sesto di fronte al Tar prima della tangentopoli sestese.

Maria Grazia e Savina Pilliu – la mafia non intimidisce. A Palermo, in piazza Leoni, c’è un palazzo di nove piani, abusivo, costruito dalla mafia senza rispettare le distanze con alcune casette vicine. Le avevano ereditate le sorelle Savina e Maria Grazia Pilliu e il costruttore aveva bisogno di abbatterle. Ma le sorelle non hanno mai ceduto alle intimidazioni di Cosa Nostra. Una storia con molti protagonisti: da Paolo Borsellino, che raccolse le confidenze delle sorelle poco prima di morire, al presidente del Senato Renato Schifani, che da avvocato difese il costruttore Lo Sicco contro le Pilliu, fino al professor Pitruzzella, oggi capo dell’Antitrust su nomina di Schifani-Fini, che ha difeso il palazzo dopo il passaggio nelle mani dello Stato.

da Il Fatto Quotidiano del 21 dicembre 2011
a cura di Stefano Caselli e Carlo Tecce

L'italiota non perdona. - di Rita Pani

Rita Pani


Siamo un popolo che non perdona, soprattutto i morti. La morte del Partigiano Giorgio Bocca lo ha ricordato meglio di quanto forse avrei desiderato. Fortuna vuole che almeno non sia stato accusato di pedofilia, o di strage. Tutto il resto ci sta, in quest'era di ignoranza o di cultura un tanto al kilo, assunta attraverso la wiki storia che fa risparmiare i libri e premia la pigrizia dei cervelli.

Una volta ebbi uno scambio epistolare col grande Giorgio Bocca, e quando finimmo gli promisi che nella prossima vita lo avrei cercato e gli avrei chiesto di fidanzarsi con me. Mi piace immaginare che abbia sorriso.

Questo il ricordo personale. Il ricordo della figura la lascio a chi ha più strumenti, più memoria e più emozioni da raccontare.

Sì siamo un popolo che non perdona nessuno, tranne sé stessi. Bocca non era un comunista, questa pare essere la colpa più grave. E che importa se fino a ieri, l'accusatore magari accusava me di esserlo ancora, nonostante tutto, nonostante la storia che - dicono - ci ha cancellati?

Ha fatto e non ha fatto, ma soprattutto quel che non si perdona a Bocca è quel che ha detto. In un Italia di muti accondiscendenti, ignavi e pusillanimi, è davvero paradossale; ma è tanto, tanto, italiano.

Il Partigiano Bocca si è speso. In una lotta che ha liberato questo paese e che con tutta l'ingratitudine, e l'arroganza dell'ignoranza, l'ha poi consegnato al ventennio berlusconiano che probabilmente stiamo già scordando. Si è speso fino alla fine per consegnare alla storia la verità negata da chi della verità ha fatto burletta. Ha avuto il coraggio delle sue azioni, dei suoi pensieri, dei suoi scritti, guadagnandosi il diritto di essere libero di dire.
Questo non ha capito chi non è in grado di imparare, di leggere e di pensare. Questo non comprende, chi non è abbastanza uomo da dire grazie, o chiedere scusa, o semplicemente riconoscere i limiti della propria esistenza.

Ogni volta che muore un partigiano, noi perdiamo l'occasione di risvegliarci, di far memoria, di imparare per poter poi insegnare a chi verrà cosa è stato, e cosa non dovrà più essere.

Ma seguendo col cuore stretto il linciaggio alla memoria di un uomo per bene, di un Partigiano, del giornalista Giorgio Bocca mi è venuto più chiaro in mente quanto siamo italiani, e per quanto tempo ancora dovremo esserlo ... Pavidi e stupidi. Poveri. Tornerà berlusconi, magari avrà la gonna, e le tette, ma tornerà berlusconi, perché in fondo troppa gente ancora se ne merita un po'.

Rita Pani (APOLIDE)


Gli insulti postumi al partigiano Bocca. - di Andrea Scanzi.






Non ho mai amato i coccodrilli sempre belli, i ricordi puntualmente agiografici del caro estinto. La penso, anche qui, come Giorgio Gaber: una persona resta “la faccia che era“, da morta come da viva. Non cambio opinione, anche “se gli ha sparato un brigatista“.

Raramente ho però provato fastidio e disgusto, oltre che imbarazzo e rabbia, per la quantità di insulti e battutacce seguite alla morte di Giorgio Bocca. E’ gente che non ha minimamente la mia stima e con cui non voglio avere nulla a che fare.

Mi si dirà che è “solo una minoranza“, e già qui non so quanto sia d’accordo. Rischiate di sopravvalutare, ancora, l’Italia. Mi si dirà che Bocca ha scritto anche fesserie (per fortuna, altrimenti sai che palle). Certo che ne ha scritte, e in questo senso gli scritti di Giuliano Ferrara e del pansiano osservante Luca Telese sono esempi di giornalismo se volete un po’ autocelebrativo e civettuolo, ma onesto e pertinente.  E mi si dirà pure che, con la Rete, ciò che prima era chiacchiericcio ora diviene cosa pubblica. Facebook, Twitter, blog, forum. Vero anche questo. L’italiota non perdona, come ha scritto Rita Pani.

Eppure, dopo pochi minuti, la morte di Bocca è servita per dare sfogo alle bassezze più invereconde. Molti napoletani hanno tirato fuori la chiacchierata di Bocca a Fazio nel 2008, per scrivere cose tipo “Noi napoletani vogliamo ricordarti così. Per millenni ci siamo decomposti noi, ora decomponiti tu!”, “Fascista e razzista”, “Ho piacere che sei morto”.
Chi ha esultato, chi ha sghignazzato, chi ha recitato la vetusta parte dell’alternativo che si smarca dagli altri e fa il figo (risultando, come sempre, ridicolo).

Nessuno desidera santificare Giorgio Bocca. Lui sarebbe stato il primo a detestare un approccio simile. Nessuno – almeno qui – insegue la lacrima acritica. Qui però non parliamo di un Cossiga. Qui parliamo di uno dei più grandi giornalisti italiani. Di un intellettuale veroanche negli spigoli. Di un Maestro. Di una perla rara e preziosa.

Ha qua e là sbagliato, tra una contraddizione e un abbaglio (“Le Brigate Rosse non esistono“), ma esultare per la sua morte – o anche solo soffermarsi unicamente sulle eventuali sbavature – è delirante, fuoriluogo e offensivo. Tutto lo zozzume che siamo stati costretti a leggere, è stato deplorevole.

Giorgio Bocca non era perfetto. Era molto di più: era vero. Anche nelle stronzate. Largamente minoritarie rispetto al tanto (tantissimo) di bello che ci ha regalato. Lascia un paese incarognito, volgare e pavido. Probabilmente senza speranza. Con qualche avamposto di Resistenza. Ultimi passeri, ma senza rami sopra cui stare.




http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/12/26/insulti-postumi-partigiano-bocca/179949/