Sotto i ghiacci (o quello che rimane) del Polo Nord è intrappolato un potente gas serra. Intrappolato ancora per poco perché il metano, è di questo che si tratta, sta per fuoriuscire del tutto, con la sua mole 25 volte più dannosa della CO2.
A lanciare l’allarme è un nuovo studio pubblicato su Science Advances, che parte da un dato: all’incirca un terzo del carbonio presente sul Pianeta, intrappolato nel Mar Glaciale Artico sotto forma di metano e CO2, è sul punto di liberarsi in atmosfera.
Se il permafrost si scioglie a causa del riscaldamento globale è proprio questa la conseguenza che ci dovevamo attendere: il metano intrappolato in bolle al suo interno esce fuori, entra in atmosfera e accresce in un circolo vizioso ulteriormente l’effetto serra.
“Tuttavia il rilascio avviene a ritmi non significativi per impensierirci davvero, per il momento”, dice a News Week Brett Thornton, del Dipartimento di Scienze Geologiche dell’Università di Stoccolma, coordinatore dello studio.
Il permafrost si sta sciogliendo.
Nel Mar Glaciale Artico, il riscaldamento climatico sta sciogliendo il permafrost: la temperatura media annua nel circolo polare artico è passata dai -2°C del 1880, ai circa +1.75°C di fine 2019.
Bloccato sotto quella specie di copertura si trova una delle maggiori riserve naturali di metano del Pianeta prodotto dalla decomposizione anaerobica di materia organica, “prevalentemente radici, altre parti vegetali o resti animali che, sotto l’azione degli agenti atmosferici e dei millenni, si sono decomposte e sono rimaste imprigionate sotto strati di ghiaccio profondi fino ad 80 metri”, come dice Kevin Schaefer, del National Snow & Ice Data Center (Nsidc).
Per capire a cosa l’Artico in questo momento stia andando incontro, gli studiosi hanno usato le misurazioni dei flussi di metano atmosferico acquisite durante la spedizione scientifica internazionale Swerus-C3: la nave rompighiaccio svedese Oden ha percorso circa 6mila chilometri attraverso il Mar Glaciale Artico, partendo dalla città di Tromsø nell’estremo Nord della Norvegia, per arrivare a Barrow, in Alaska.
Lungo il viaggio, i ricercatori hanno dimostrato l’esistenza di alcuni hotspot in cui le emissioni di metano hanno picchi fino a 25 volte più elevati rispetto alla media, in aree ben localizzate nei Mari di Laptev, dei Ciukci e della Siberia orientale.
Si tratta di posti in cui delle “bolle di metano” esplodono in atmosfera man mano che vengono portate in superficie dallo scioglimento del ghiaccio: è il cosiddetto termocarsismo, che però secondo gli scienziati non è ancora rilevante a livello globale e a un ritmo non ancora elevato.
Methane bubbles rising from #arctic seafloor emit little greenhouse gas to #atmosphere, according to a new study. Learn more: fcld.ly/716fd88
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Ma quello stesso termocarsismo, sta provocando, secondo studio pubblicato su Nature Geosciences, dei grandi buchi appaiono nel terreno, provocando frane e facendo cascare alberi. Pensiamo che la tundra ne sia priva, ma in realtà l’area è coperta da foreste boreali. E il panorama sta cambiando drasticamente nel giro di mesi.
Le superfici si bucherellano e somigliano a quelle che si trovano nelle regioni carsiche: nel momento in cui il ghiaccio che tratteneva il terreno si scioglie, il suolo subisce un collasso e si formano veri e propri buchi che si riempiono d’acqua (alimentando lo scioglimento).
©Nature Geosciences
Tutto ciò, secondo i dati, poco più di un secolo fa accadeva solo in una superficie di 905 chilometri quadrati, il 5% della regione artica e, secondo gli studiosi, se non cambierà nulla il termocarsismo potrà triplicare e i chilometri potranno diventare 1,6 milioni entro il 2100 e 2,5 entro il 2300. L’Artico diverrà così un autentico colabrodo.
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