mercoledì 18 novembre 2020

Financial Times: ecco come si combatte il complottismo che dilaga sul web. - Gillian Tett

 

Il 51% degli americani oggi crede almeno in parte ad almeno una delle principali teorie pericolose circolanti nel paese. Una ricerca spiega come possono agire i giganti di internet per fermarne la diffusione.

Nel 2016, durante la campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti, sui siti web di destra si è diffusa in modo virare una teoria del complotto nota come #Pizzagate. La sua tesi era che l’allora candidata democratica, Hillary Clinton, fosse coinvolta in un giro di pedofilia gestito da una pizzeria di Washington. All’apparenza sembrava una teoria ridicola, finché qualcuno non è entrato nel locale armato di un fucile d’assalto e ha cominciato a sparare.

Per fortuna nessuno si fece male in quell’occasione, ma l’episodio ha sollevato due interrogativi che rimangono attuali anche a quattro anni di distanza dai fatti, in un contesto di grande polarizzazione della politica statunitense. Perché il complottismo si diffonde così facilmente? Ed esiste un modo efficace per contrastarlo?

Le grandi aziende tecnologiche americane conducono da tempo studi molto approfonditi sul tema, di solito incrociando grandi flussi di dati e commissionando valutazioni psicologiche. L’anno scorso, invece, un team di ricercatori della controllata di Google Jigsaw ha provato a sviluppare un nuovo modello d’analisi unendosi agli etnografi della società di consulenza ReD. La loro idea era di condurre una ricerca qualitativa e mirata sugli atteggiamenti di 42 teorici del complotto nel Regno Unito e negli Stati Uniti, sostenitori di idee con vari gradi di pericolosità: dall’apparentemente innocuo terrapiattismo fino a teorie molto più pericolose come quella del genocidio bianco e quelle più recenti sulle pandemie.

Gran parte dello studio è tuttora riservato, ma è possibile farsi un’idea dei suoi interessanti risultati leggendo la sintesi che i ricercatori di Jigsaw e ReD hanno presentato qualche tempo fa a un gruppo di ricerca chiamato Ethnographic Praxis in Contest.

La questione centrale del complottismo è in che modo inquadrare il fenomeno. Joseph Uscinski, professore di scienze politiche dell’Università di Miami, ricorda in proposito che non è chiaro se oggi le teorie del complotto siano più diffuse di quanto fossero in passato, ma che senza dubbio “esistono forme di continuità”.

La particolarità della nostra epoca sta nella rapidità di propagazione che queste teorie hanno acquisito grazie a internet, e che le porta spesso sui media mainstream e nei discorsi dei politici. Le big tech provano a contrastare questa diffusione con una strategia che i vertici di YouTube hanno chiamano “quattro R”: rimuovere contenuti pericolosamente fuorvianti; relegare i contenuti complottisti agli ultimi posti dei risultati di ricerca; rilanciare i contenuti più affidabili sul tema; ricompensare le realtà che lottano contro la diffusione del complottismo (come per esempio l’interessante sito metabunk.org, creato dal divulgatore scientifico Mick West).

La strategia delle “quattro R” si fonda sulla separazione tra le teorie del complotto pericolose da quelle più innocue. Ma la ricerca di Jigsaw e ReD mostra che questo principio potrebbe non essere il più efficace.

Analizzando i comportamenti dei complottisti, infatti, il team di etnografi si è reso conto che quello che conta di più per loro non tanto è la pericolosità o meno delle teorie, quanto il grado di adesione che suscitano nelle persone. Insomma, “è più importante distinguere tra diverse tipologie di complottisti piuttosto che tra diverse tipologie di teorie del complotto”.

Il fatto è che una mente profondamente intrisa di complottismo ha la stessa probabilità di credere a teorie innocue o pericolose. Inoltre, i ricercatori sottolineano che non esiste “un complottismo innocuo di per sé” e che, all’opposto, anche nel caso delle teorie più pericolose è possibile convincere le persone ad attenuare le loro credenze in modo da renderle meno dannose.

Per questo motivo il team di ricerca propone una strategia articolata su più livelli. Chi è totalmente immerso nel complottismo non accetta controargomentazioni logiche, ma può per esempio rispondere a stimoli emotivi, quando gli vengono presentati con empatia e rispetto. I complottisti meno zelanti, invece, possono venire positivamente influenzati da interventi “a monte” come quello di portare in primo piano sui motori di ricerca i contenuti che sfatano le teorie del complotto.

I motivi che spingono qualcuno a sposare una teoria del complotto non sono solo psicologici (anche se i disturbi del sé giocano un ruolo importante), ma anche sociali. I ricercatori portano l’esempio di un’adolescente del Montana che ha abbracciato il complottismo per stare al passo con il suo gruppo di amici.

Inoltre, bisogna tenere conto di un certo numero di indici culturali, come il design dei siti web. Nel ventunesimo secolo, infatti, una persona mediamente colta e gli addetti ai lavori di internet tende a considerare più credibili le informazioni provenienti da siti esteticamente curati.

Al contrario, la ricerca di Jigsaw e ReD ha scoperto che i complottisti sono più propensi a credere ai siti dall’aspetto amatoriale, perché danno l’impressione di essere più “autentici”. Questo è un elemento che può sfuggire a uno sviluppatore di Google seduto nel suo ufficio di Mountain View, e non è il tipo di risultato che può emergere da un’analisi statistica dei flussi di dati, e tuttavia è un aspetto fondamentale del fenomeno complottista.

Occorre chiedersi se gli spunti emersi da questa ricerca siano ora utilizzabili dalle grandi aziende tecnologiche per evitare futuri #Pizzagate. Qualche piccolo successo c’è stato: lo studio riferisce per esempio di un utente di San Diego che ha abbandonato una teoria del complotto sulle scie chimiche dopo che Google ha messo in primo piano nel motore di ricerca contenuti alternativi sul tema.

Non sarà facile applicare questo metodo su larga scala e stare al passo con l’alta velocità di trasformazione delle teorie del complotto. Il #Pizzagate, per esempio, è ricomparso di recente sui social nonostante le numerose smentite, prendendo di mira il cantante Justin Bieber.

Il dato è allarmante se si considera che la ricerca del professor Uscinski ha messo in luce che il 51% degli americani oggi crede almeno in parte ad almeno una delle principali teorie del complotto circolanti nel paese. Senza parlare di tutte le occasioni che offre la pandemia di Covid-19 e la conseguente ricerca di un vaccino.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/16/financial-times-ecco-come-si-combatte-il-complottismo-che-dilaga-sul-web/6004909/

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