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I prossimi mesi saranno una corsa contro il tempo per immunizzare la popolazione ed evitare una nuova ondata che potrebbe bloccare buona parte del Paese a inizio autunno.
Per chi segue le nostre analisi settimanali non è una sorpresa apprendere (e non sono necessari presunti report segreti o riservati per farlo) che entro fine luglio la variante Delta sarà prevalente e che i contagi giornalieri a fine agosto potrebbero arrivare a quota 11.000. Ne abbiamo parlato già la scorsa settimana (indicando un range di 10-12.000) perché i numeri ci portavano in modo inequivocabile proprio in questa direzione.
Ma nel prossimo futuro, oltre che alle infezioni quotidiane e alla loro dinamica di crescita, sarà fondamentale guardare alle ricadute cliniche della Covid-19, ovvero al numero dei ricoveri e dei decessi: che, se molto contenuti rispetto al passato, potrebbero rendere “accettabile” come sta accadendo in Inghilterra la convivenza con il Sars-CoV-2.
In questo momento l’Rt istantaneo, calcolato sulla base dei casi ufficiali con il metodo Kohlberg-Neyman, è a quota 1,3 e proietta un tempo di raddoppio dei casi nell’arco di 11 giorni. Su questo aspetto ci siamo confrontati, come spesso accade, con Stefano Bonetti (Università Ca’ Foscari di Venezia) ed è emerso il comune convincimento che in questa prima fase espansiva il tempo di raddoppio dei casi potrebbe anche essere più breve, perché la curva è in salita verticale e non si è ancora stabilizzata.
Si tratta di un valore molto vicino ai 14 giorni che hanno caratterizzato il tempo di raddoppio dei casi in Uk tra metà maggio e fine giugno: da un punto di vista epidemiologico, al momento, non ci sono ragioni evidenti per credere che in Italia l’epidemia possa avere uno sviluppo radicalmente diverso da quello inglese, soprattutto in senso migliorativo. Ne vedremo di seguito i motivi, delineando tre diversi scenari in vista del prossimo settembre e aggiungendo qualche informazione sulla reale efficacia dei vaccini, per chi avesse ancora dubbi in proposito.
Scenario 1: l’Italia come Uk.
Si tratta dell’ipotesi (insieme a quella di Scenario 3) che riteniamo più probabile ed è basata su una sostanziale corrispondenza della nostra curva epidemica e di quella del Regno Unito, con una sfasatura temporale di 45 giorni: ovvero i dati di metà maggio di Uk corrispondono a quelli di inizio luglio in Italia. Non in valori assoluti, perché i nostri contagiati giornalieri sono più bassi di quanto non fossero in Uk, ma come dinamica dell’infezione: con i primi segnali di una chiara ripresa legata alla diffusione della variante Delta.
La situazione dei due Paesi è molto più simile di quanto si potrebbe sospettare a prima vista: a metà maggio, quando le infezioni hanno ripreso a crescere in modo sostenuto mantenendo un tempo di raddoppio di14 giorni (come abbiamo visto in precedenza) la copertura vaccinale nel Regno Unito era così distribuita: 34% della popolazione protetta con ciclo vaccinale completo, al quale aggiungere un 22,9% parzialmente protetto con la somministrazione della sola prima dose.
In Italia a inizio luglio, al momento dell’inversione della curva epidemica, i valori erano praticamente sovrapponibili: il 34,5% della popolazione aveva completato il ciclo vaccinale, il 21,4% aveva ricevuto solo la prima dose. Come accade per l’espansione del contagio, si conferma anche per la campagna vaccinale uno sfasamento di 45 giorni circa tra Regno Unito e Italia.
Questa particolare situazione ci permette di ipotizzare, sulla base dei dati di Uk, la stima che avevamo già avanzato la scorsa settimana di 10-12.000 nuove infezioni giornaliere entro l’ultima decade di agosto: che coincide con quella (11.000) che inizia a circolare da parte del ministero della Salute. Ma, ripetiamo, prima di farci condizionare dal numero totale dei contagiati manteniamo i nervi saldi e verifichiamo l’impatto reale del virus sulla popolazione (lo vedremo in dettaglio più avanti).
Considerando l’analogo livello di protezione vaccinale possiamo utilizzare i dati Uk per arrivare a una possibile proiezione dei ricoverati: una volta stabilizzata la crescita dell’epidemia, anche in Italia dovremmo avere un rapporto “nuovi ricoverati/positivi giornalieri” vicino al 2% (in ulteriore calo con il progressivo incremento delle infezioni) che per fine agosto ci proietterebbe a 200-240 ricoveri giornalieri. Valori che rappresentano un quinto circa dei livelli raggiunti nelle precedenti fasi di massima espansione del Sars-CoV-2.
Ricordiamo, per completezza, che il calcolo del rapporto “nuovi ricoverati/positivi giornalieri” deve essere eseguito dividendo i ricoveri di un determinato giorno per i positivi individuati una settimana prima: considerando quindi la sfasatura dei tempi di cui abbiamo parlato più volte tra infezione, rilevazione della positività, eventuale ricovero ed eventuale decesso (tra la prima e l’ultima voce passa in media un mese).
A proposito dei decessi, proprio considerando questo aspetto, ricaviamo che gli attuali 24 decessi di media giornaliera per settimana mobile in Uk (periodo consolidato con dati ufficiali 28 giugno - 4 luglio) ai fini del calcolo corretto della letalità nel periodo non devono essere confrontati con i positivi individuati nell’ultima settimana mobile, bensì in quella 29 maggio - 4 giugno: ovvero 5.844 di media giornaliera. Il tasso di letalità così calcolato è dello 0,4%: molto più basso rispetto al 2,4% rilevato da inizio epidemia, e probabilmente destinato a un ulteriore ribasso nelle prossime settimane per il progressivo aumento di un denominatore (i positivi individuati) in gran parte costituito da soggetti giovani e a bassissimo rischio.
La spiegazione di questo minore impatto della variante Delta (sebbene più diffusiva e pericolosa) è legata a due aspetti principali:
1) La protezione degli individui vaccinati, anche se contagiati, contro gli effetti clinici più gravi della malattia. Ovvero di individui che rientrano nella casistica dei positivi, ma non in quella dei ricoveri e dei decessi.
2) La circolazione attuale del virus tra le fasce più giovani della popolazione, che sono da sempre scarsamente toccate dalla malattia in forma grave e ancor meno dal rischio di morte.
In Italia il tasso di letalità da inizio epidemia è leggermente più alto di quello di Uk (2,9% contro 2,4%) ma i valori sono tutto sommato compatibili e la differenza si giustifica soprattutto con i 45 giorni di sfasamento che abbiamo visto prima: l’ultimo mese e mezzo ha visto Uk con un’esplosione dei casi (quindi con un aumento del denominatore) mentre in Italia fino al termine di giugno abbiamo attraversato un periodo di costante riduzione dei casi quotidiani (il denominatore è cresciuto pochissimo).
Usando come base di partenza l’attuale tasso di letalità che l’epidemia manifesta in Uk possiamo quindi stimare che in Italia i 10-12.000 contagiati di media giornaliera di fine agosto potrebbero tradursi un mese più tardi, a fine settembre, in 40-48 decessi di media giornaliera. Anche in questo caso saremmo su valori distanti dai picchi registrati nelle prime ondate, che ci hanno portato a sfiorare i mille decessi quotidiani.
Scenario 2: l’Italia meglio di Uk.
Non è lo scenario più probabile, ma merita di essere preso in considerazione. Le possibilità che si verifichi una situazione di questo tipo sono legate essenzialmente a due aspetti:
1) La nostra capacità di contenere il contagio dosando correttamente le misure di mitigazione, incluse eventuali zone rosse ove necessarie.
2) Il mantenimento della capacità di tracciamento dei nuovi casi sul territorio, e dei relativi contatti: al fine di isolare i nuovi focolai, intervenire in modo tempestivo in presenza di cluster e interrompere le catene di trasmissione virali.
Mentre per il primo punto non esistono limiti teorici (nella pratica sappiamo che non tutte le misure sono accettate e accettabili) per il secondo il limite esiste e lo conosciamo molto bene: le nostre attività di contact tracing vanno in affanno quando raggiungono la soglia dei 50 casi settimanali per 100.000 abitanti, che possiamo tradurre per maggior comprensione in una media giornaliera di 4.300 nuove infezioni.
Al di sopra di questo livello iniziamo a perdere il controllo della presenza del contagio sul territorio e il virus può iniziare ad accelerare: sopra i 10.000 casi al giorno le attività di contact tracing hanno un peso residuale e non riescono a modificare, frenandola, la curva del contagio. È importante tenere presenti questi 3 diversi livelli di attenzione:
1) Sotto i 4.300 nuovi casi giornalieri controlliamo il virus.
2) Tra 4.300 e 10.000 casi giornalieri la nostra capacità di controllo si riduce in modo progressivo.
3) Sopra i 10.000 casi giornalieri il virus circola senza risentire dei nostri sforzi di tracciamento.
Italia meglio di Uk, dicevamo: ma quanto? Considerando la rapidità diffusionale della variante Delta è difficile considerare ipotesi troppo generose, e dobbiamo limitarci a una riduzione massima del 20% dei nuovi casi stimati per fine agosto: arrivando quindi a una media di 8.000-9.600 contagi giornalieri.
Sarebbe un grande risultato, perché ci permetterebbe di rientrare nei parametri del secondo livello di attenzione relativo al tracciamento (come abbiamo visto compreso tra 4.300 e 10.000 casi di media giornaliera) e di frenare almeno parzialmente la corsa del Sars-CoV-2. Permettendo alla campagna vaccinale di raggiungere numeri crescenti senza la piena sovrapposizione (come sta accadendo in Uk) con la fase di massima espansione dell’epidemia.
Scenario 3: l’Italia peggio di Uk.
A questa ipotesi dobbiamo assegnare (con la speranza di sbagliare) una probabilità almeno uguale a quella dello Scenario 1. I motivi sono presto detti:
1) La nostra campagna di testing è largamente insufficiente: eseguiamo una media di 169.513 tamponi al giorno (dato riferito alla settimana epidemiologica 3-9 luglio) contro 1.042.018 di Uk (ultimo dato ufficiale consolidato relativo al periodo 29 giugno - 5 luglio). Impossibile non sospettare che, a parità di test eseguiti, i nostri numeri sarebbero molto diversi di quelli registrati quotidianamente. Per capire quanto sia basso il nostro livello di testing possiamo anche guardare ai 59.800 tamponi di media giornaliera del Belgio: pochi, a prima vista, ma in rapporto alla popolazione residente per pareggiare questo dato dovremmo farne 310.000.
2) Non conosciamo il reale dimensionamento del bacino di replicazione virale, ovvero degli “attualmente positivi”. Lo ricaviamo infatti dai casi emersi con i numeri ufficiali, che abbiamo visto essere quasi certamente sottostimati a causa del basso numero di test eseguiti. È su questo bacino, e non sui positivi quotidiani, che il Sars-CoV-2 fa leva per diffondersi sul territorio: e la sua azione risulta tanto più efficiente quanto più elevato è il numero di soggetti positivi non individuati, che non vengono isolati e possono trasmettere liberamente l’infezione.
Un bacino di replicazione più ampio di quanto finora stimato avrebbe 3 immediate conseguenze:
1) La generazione di un numero di casi (anche sintomatici) più elevato rispetto a quelli ipotizzabili sulla base della dinamica espansiva attuale.
2) La generazione di un numero di ricoveri superiore a quanto ipotizzabile sulla base dei dati Uk (per via del diverso denominatore, ossia dei casi totali individuati).
3) La generazione di un numero di decessi superiore a quanto ipotizzabile sulla base dei dati Uk, per lo stesso motivo esposto in precedenza.
Come abbiamo rilevato all’inizio dell’analisi, inoltre, attualmente il nostro tempo di raddoppio dei casi a livello nazionale è di 11 giorni, ma in alcune Regioni (per esempio in Veneto) si riduce a 7 giorni.
Nell’ambito di questo terzo scenario concordiamo con le stime avanzate da Sergio Abrignani, immunologo dell’Università Statale di Milano e membro del Cts, che spinge i numeri del contagio fino a 30.000 giornalieri entro fine agosto.
La discontinuità data dall’efficacia dei vaccini
I tre scenari che abbiamo visto sono relativi ai numeri del contagio, ovvero al criterio che abbiamo sempre seguito, in passato, per capire come la Covid-19 stesse impattando sulle nostre vite. Un approccio corretto, in assenza di difese efficaci che non fossero le misure di mitigazione, lockdown inclusi.
La situazione attuale è profondamente modificata dall’arrivo dei vaccini, che finora reggono benissimo l’urto anche contro la variante Delta. Per averne conferma possiamo utilizzare i dati italiani, recentemente diffusi dall’Istituto superiore di Sanità relativamente al periodo 21 giugno - 4 luglio.
In particolare segnaliamo:
1) Il ciclo completo di vaccinazione (doppia dose o vaccino monodose) protegge dal rischio di infezione con valori compresi tra il 79,8% e l’81,5% in base alla fascia di età (sono state considerate quelle 12-39; 40-59; 60-79 e over 80).
2) Il ciclo completo di vaccinazione ha un’efficacia variabile contro il rischio di ricoveri nei reparti di medicina generale, sempre in base alla fascia di età, tra il 91,0% e il 97,4%. La protezione maggiore è stata rilevata tra i 40 e i 59 anni.
3) Il ciclo completo di vaccinazione ha un’efficacia del 100% contro il rischio di ricovero in terapia intensiva nelle fasce di età fino ai 59 anni. Ma si mantiene ancora elevatissimo (96,6%) anche tra gli over 80.
4) Il ciclo completo di vaccinazione ha un’efficacia del 100% contro il rischio di morte al di sotto dei 59 anni; del 98,7% nella fascia 60-79 anni e del 97,2% tra gli over 80.
Ci soffermiamo su quest’ultimo dato per rilevare come la scelta dell’Iss di considerare categorie diverse da quelle suddivise per fasce decennali, solitamente utilizzate per il calcolo della letalità e degli altri principali parametri (si veda il Bollettino epidemiologico settimanale), complichi il calcolo del reale impatto sulla popolazione.
Possiamo però tentare una spiegazione semplice e comprensibile considerando la fascia di età 60-79 anni, dove si concentra ancora oggi una quota importante di soggetti non vaccinati nonostante il rischio elevato di contrarre forme gravi della malattia.
Rileviamo innanzitutto che, nel calcolo della letalità, parlare di fascia 60-79 anni significa comprendere individui con un rischio molto diverso: se infatti scorporiamo come da rilevazione Iss (si veda il Bollettino epidemiologico a pagina 15) la fascia 60-69 anni da quella 70-79 anni troviamo un tasso di letalità da inizio epidemia rispettivamente del 2,8% e del 9,4%. L’indicazione di una riduzione del rischio di morte del 98,7% per la fascia unica 60-79 implica quindi un valore inevitabilmente sbilanciato a sfavore dei soggetti con età compresa tra i 60 e 69 anni: che, considerati separatamente, avrebbero come riflesso una maggiore riduzione del rischio.
Nonostante questo, e accettando l’inevitabile distorsione statistica, in termini semplici possiamo dire che ogni 100 decessi registrati tra i 60 e i 79 anni, con il vaccino teoricamente disponibile da inizio epidemia ne avremmo contati 2,5.
Utilizzando questo parametro scopriamo come tra i 60 e 69 anni, invece di 13.078 deceduti, ne avremmo avuti 327; e tra i 70 e 79 anni, invece di 31.990, solo 800. Difficile, davanti a questi numeri del tutto simili a quelli contenuti in studi analoghi condotti a livello mondiale, continuare ad avere dubbi sull’efficacia del vaccino: ma tutto è possibile, in un mondo dove esistono movimenti che difendono tenacemente la forma piatta (e non sferica) della Terra.
Rispettando in modo totale la libertà di pensiero, sottolineiamo l’importanza di avere a disposizione dati italiani: perché riflettono l’esatta situazione della nostra popolazione, senza le inevitabili per quanto modeste distorsioni che derivano dalla valutazione dei dati raccolti in altri Paesi (legate a differenze demografiche, comportamentali o, negli ultimi mesi, a un diverso livello di protezione ottenuta con le vaccinazioni).
Come si valuta un’epidemia.
In assenza di un vaccino, o di un farmaco in grado di curare la malattia, come abbiamo fatto in passato ci dobbiamo affidare alla valutazione costante del numero delle infezioni: solo limitandole, infatti, possiamo ridurne in modo proporzionale le conseguenze cliniche, in particolare ricoveri e decessi.
La discontinuità indotta dal vaccino ci porta tuttavia a introdurre nuovi criteri di valutazione:
1) Il numero dei ricoveri (in area medica e in terapia intensiva).
2) Il numero dei decessi.
Possiamo capirne il motivo prendendo come esempio una classica epidemia influenza del periodo pre-Covid (come sappiamo in presenza del Sars-CoV-2 il virus influenzale è quasi scomparso nel 2020-21).
Se guardiamo i dati italiani della stagione 2019-20 scopriamo che al momento di massima diffusione virale (quinta settimana 2020) l’influenza aveva generato 761.500 casi: una media giornaliera di 108.785, capace di far impallidire qualsiasi dato finora registrato con la Covid-19.
E che, più in generale, i casi stimati di sindromi influenzali nella stagione 2019-20 sono stati 7.594.500 in poco più di sei mesi: per pareggiare il conto con la Covid-19 (giunta al 17esimo mese consecutivo di diffusione) dovremmo parlare oggi di 20.884.000 casi rilevati, contro i 4.272.163 ufficializzati il 12 luglio 2021.
Perché l’influenza, con numeri molto più elevati, non ha bloccato le nostre attività quotidiane mentre la Covid-19 sta mettendo in ginocchio il mondo? La risposta, anche se triste, è nel numero dei decessi: circa 8.000 ogni anno in Italia per l’influenza, con una letalità dello 0,1%, contro i quasi 128.000 attuali della Covid-19, con una letalità del 2,9% da inizio epidemia.
E anche nel numero dei ricoverati per complicanze dell’influenza, che non sono in numero sufficiente per mettere in crisi il sistema ospedaliero (nemmeno al tradizionale picco di gennaio-febbraio per la terapie intensive), né richiedono procedure di isolamento come quelle adottate per contenere le infezioni da Sars-CoV-2.
Il motivo per cui in Uk stanno riaprendo il Paese è essenzialmente questo: ritengono, grazie al livello di protezione raggiunto con la campagna vaccinale (52,2% della popolazione vaccinata con ciclo completo, oltre a un 16,6% con dose singola) di aver piegato i numeri della Covid-19 a livelli paragonabili a quelli dell’influenza stagionale. Con un numero di decessi ritenuto fisiologico, o in modo più spietato “accettabile”, anche se come detto più volte nessun decesso è accettabile in coscienza per chi ha studiato con l’obiettivo di salvare vite umane.
In realtà Uk, numeri attuali alla mano, sta prendendo un rischio maggiore: il tasso di letalità attuale della Covid-19 è come abbiamo visto dello 0,4%, e non dello 0,1% come l’influenza. Ma le proiezioni della campagna vaccinale, con un numero sempre maggiore di soggetti con protezione totale, potrebbero portare in tempi rapidi (entro fine agosto, secondo le nostre stime attuali) a una condizione sovrapponibile a quelle dell’influenza stagionale.
Anche i 100.000 contagi al giorno per Covid-19, se privati della loro componente di ricoveri e decessi, potrebbero quindi risultare una normalità legata ad alcuni periodi dell’anno, esattamente come accade per le sindromi influenzali.
Alta circolazione del virus, un rischio da non correre.
L’epidemia deve essere valutata sotto vari aspetti, che spesso ci portano a risultati molto diversi tra loro. Come abbiamo visto possiamo accettare un altissimo numero di contagiati giornalieri, come facciamo per altre patologie, a patto di non avere ricadute cliniche importanti sulla popolazione.
Ma in presenza di un virus nuovo, come il Sars-CoV-2, non possiamo limitarci a considerare solo questi aspetti: esiste infatti un risvolto legato alla virologia, come abbiamo sottolineato più volte in questi mesi, che ci porta a valutare il rischio legato alla capacità di mutazione del virus. Il Sars-CoV-2, rispetto a molti virus a Rna, non presenta un tasso di mutazione particolarmente elevato: ma quando muta, almeno finora, lo fa trovando soluzioni ad altissima efficienza (per lui).
Ne abbiamo prova con la comparsa continua di nuove varianti caratterizzate da una maggiore capacità diffusionale rispetto alle precedenti: è accaduto con la DG614 che ha colpito l’Occidente nel 2020, e che era un’evoluzione del ceppo originario di Wuhan; con la variante Alfa (ex inglese) che a fine 2020 ha soppiantato la DG614; con la variante Delta (ex indiana) che sta spazzando dalla scena dell’epidemia quella Alfa.
Senza dimenticare le altre varianti al momento al centro dell’attenzione da parte dell’Oms per le possibili implicazioni future sia dal punto di vista della diffusione dell’infezione, sia per la possibile maggiore gravità clinica, sia per l’eventuale capacità di eludere la risposta immunitaria.
Tutti questi rischi aumentano in modo direttamente proporzionale al numero dei casi sul territorio: perché i virus, non solo il Sars-CoV-2, quando infettano un nuovo soggetto si replicano. E nel farlo commettono, con frequenza differente, un certo numero di errori: quelli che sono alla base delle mutazioni, spesso ininfluenti ma talvolta in grado di garantire un vantaggio al virus con la nascita di nuove varianti.
Esporre il virus alla risposta immunitaria del vaccino, in particolare nei soggetti protetti solo parzialmente con singola dose, espone al rischio di selezionare varianti resistenti (in quanto sopravvissute) alla risposta immunitaria. Per questo motivo, secondo le regole dell’epidemiologia, le condizioni ideali per una rapidissima campagna vaccinale coincidono con le fasi di bassa circolazione del virus.
Non ce lo possiamo permettere, come sappiamo, e dobbiamo fare di necessità virtù cercando di vaccinare a tappeto (come accade in Uk) in un periodo di alta circolazione virale.
Ma non possiamo nemmeno permetterci di fingere di non sapere che far circolare liberamente il Sars-CoV-2, seppur all’interno di una popolazione più giovane e quindi meno esposta al rischio di ricovero e di decesso, è una pessima idea. Per questo motivo dobbiamo cogliere eventuali nuove restrizioni, o agevolazioni per i soli vaccinati, come l’ultimo miglio da compiere per non rovinare quanto fatto finora nel contrasto a un’epidemia che ha messo e sta ancora mettendo in ginocchio il mondo intero.
IlSole24Ore