giovedì 11 febbraio 2010

Meno male che Silvio c'è - Peter Gomez


Giovanni, Mario, Nino e gli altri: quegli uomini d’onore in prima fila per la nascita di Forza Italia in Sicilia

Adesso negano tutti. Quelli che c’erano e quelli che non c’erano. Nega
Gianfranco Micciché, nel 1994 coordinatore di Forza Italia nella Sicilia occidentale, che dice: "Mai nessun mafioso ha avuto contatti, né rapporti con me". Nega Sandro Bondi che all’epoca aveva appena lasciato Fivizzano per approdare in quel di Arcore. E nega Giancarlo Galan, che c’era, ma che stava in Veneto. Tutti sono d’accordo. Massimo Ciancimino è un calunniatore manovrato: tra la Forza Italia delle origini e Cosa Nostra non c’è mai stato alcun rapporto.

Ha ragione il sindaco di Palermo,
Diego Cammarata, che, in qualità di dirigente, ricorda come le adesioni al partito avvennero "senza concedere mai alcuno spazio a personaggi che fossero in qualche modo anche lontanamente assimilabili ad ambienti collusi con la criminalità organizzata".

La storia però è tutta diversa. E a raccontarla non sono solo i processi, ma persino le collezioni dei giornali. Infatti se è sbagliato dire che Berlusconi vinse le elezioni del ‘94 (solo) grazie all’appoggio della mafia o che Forza Italia è nata per (esclusivo) volere di
Bernardo Provenzano, altrettanto errato è affermare che Cosa Nostracon il movimento del Cavaliere non c’entra.

Anche perché già il 12 aprile del ‘94, il presidente della Commissione antimafia
Tiziana Parenti, appena eletta nelle fila del partito del Cavaliere, denunciava a chiare lettere il "rischio di infiltrazioni mafiose.
In quei giorni si era spenta da poco l’eco della campagna elettorale. In Sicilia come nel resto del Paese erano nati centinaia di club azzurri. E visto che per fondarli bastava inviare un
fax con cinque firme alla sede del partito, dentro ci si trovava di tutto.

Così, a Capaci, il paese della strage, una settimana prima delle elezioni, una bandiera di Forza Italia viene piazzata sul balcone della palazzina del boss locale, in quel momento in carcere.

A Misilmeri, invece, il responsabile del club cittadino, l’incensurato
Giovanni La Lia si sente spesso per telefono con uno degli autori della strage dei Georgofili, a Firenze. Mentre ad Altofonte, coccarde e volantini sono distribuite da Mario Gioè, fratello di Nino, l’uomo d’onore morto suicida in carcere dopo essere stato arrestato per la bomba a Falcone. Angelo Codignoni, il responsabile nazionale dei club, smentisce che Gioè abbia ufficialmente fatto parte del movimento, ma per ironia della sorte, il 5 febbraio 1994, presenta Forza Italia ai siciliani nelle sale delSan Paolo Palace, l’albergo di un imprenditore condannato come prestanome, dei fratelli Graviano, i due boss di Brancaccio ora sospettati di essere in rapporti conMarcello Dell’Utri e Berlusconi.

E il club viene poi chiuso da Micciché. A Villabate, intanto, la fa da padrone
Nino Mandalà, amico ed ex socio di Renato Schifani e Enrico La Loggia, che di li a poco prenderà in mano la locale famiglia mafiosa. Mentre il movimento politico di Sicilia Libera, fondato per volontà del cognato di Riina, Leoluca Bagarella, vede una serie di suoi aderenti confluire negli azzurri.

Decine di pentiti sono concordi nell’affermare che nel ‘94 arrivò l’ordine di schierarsi col Polo. Dice, per esempio, Pasquale Di Filippo, genero del boss della Kalsa
Tommaso Spadaro: "Mi ricordo che mio suocero mi disse: 'Dovete votare per Berlusconi'. Tutta Palermo sapeva che doveva votare Berlusconi".

Anche se l’ex braccio destro di Provenzano,
Nino Giuffrè, spiega: "Forza Italia non l’abbiamo fatta salire noi. Ma il popolo stanco della Dc. E noi furbi abbiamo preso la palla al balzo. Tutti Forza Italia".
Così, tra chi sostiene e fa campagna per il cavaliere, ecco anche il commercialista di Totò Riina,
Pino Mandalari, un potente massone, già arrestato negli anni Settanta, e poi condannato a dieci anni di carcere.

In quei giorni i telefoni di Mandalari sono sotto controllo. La polizia lo sente lamentarsi perché a una riunione Micciché non lo ha fatto salire sul palco, ma poi lo ascolta mentre chiama
Michele Fierotti e Filiberto Scalone di An e mentre parla con la segreteria di La Loggia che chiama pure a casa chiedendo di Enrico.

Certo, una volta interrogati tutti, a partire da Mandalari, negano (La Loggia) o minimizzano. Ma l’impressione che non si sia andati troppo per il sottile, resta. E diventa più evidente con il passare del tempo. Nel 1995, per esempio, entra in Forza Italia,
Giovanni Mercadante, senza che nessuno dica niente sulla sua stretta parentela con il boss di Prizzi (legato a Provenzano), Tommaso Cannella. Il risultato è che Mercadante passa dal comune alla regione e infine approda nelle patrie galere.

Selezione della classe dirigente? Nessuna. Tanto che nel ‘96, diventa addirittura presidente della regione l’ex commercialista della moglie di
zio Bino. Si chiama pure lui Provenzano (Giuseppe, ma è un’omonimia), è stato in prigione, poi però l’hanno prosciolto per insufficienza di prove. Per la politica quasi una medaglia. Per la mafia, che certamente ha frainteso tutto, l’ennesimo segnale.

da il Fatto Quotidiano del 10 febbraio



Insider trading e aggiotaggio: la mafia in Borsa


di Aaron Pettinari - 9 febbraio 2010
Milano.
Non solo edilizia. L'infiltrazione mafiosa nell'economia legale ha diverse forme di espletamento e di certo non sfuggono gli investimenti in borsa. I finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Milano, con un'operazione partita 4 anni fa, hanno indagato 18 persone, alle quali martedì è stato notificato l'avviso di conclusione indagini, che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio.


La complessa indagine denominata "Texada" costituisce lo stralcio di una più vasta inchiesta che ha visto protagonisti gli affiliati alla nota famiglia mafiosa dei Rizzuto, con base a Montreal (Canada), nei cui confronti sono stati già effettuati arresti nell'ottobre 2007 (operazione "Gold Moustache"). I reati contestati sono di associazione per delinquere finalizzata all'insider trading e all'aggiotaggio, con l'aggravante della transnazionalità. 
Secondo l'accusa i 18 indagati italiani, tra cui figurano anche promoter finanziari e dipendenti di società di intermediazione mobiliare, operavano sui mercati regolamentati italiani e stranieri, tramite sofisticate tecniche di Borsa, con lo scopo di truffare i risparmiatori. In pratica gonfiavano e sgonfiavano artificiosamente i prezzi dei titoli sul mercato, un metodo chiamato “market abuse”. 
In particolare i promotori “promuovevano” investimenti sugli andamenti del titolo “Infinex”, quotato all'Over the counter della Borsa statunitense e al mercato regolamentato di Brema e Berlino. A passare le “dritte” erano i boss Roberto e Antonio Papalia, soci della Infinex Ventures Inc. Le informazioni, talora false, servivano a pilotare la movimentazione dei titoli, «anche servendosi di banche svizzere», ai danni sia degli stessi istituti di credito, sia dei risparmiatori.
Tra queste informazioni sensibili - si legge nel documento di chiusura delle indagini firmato dal pm Bruna Albertini - c'è “nel giugno - luglio 2004 l'imminente uscita di notizie che avrebbero fatto salire il titolo Infinex quali la prossima distribuzione di un dividendo consistente in una azione ogni 10 possedute, per il quale la società stava predisponendo gli incartamenti da presentare alla Sec e successivamente avrebbe annunciato tale fatto attraverso gli organi di informazione”. E ancora è presente la notizia che nell'ottobre 2004 ci sarebbe stato “un imminente aumento di capitale della società Infinex Ventures per circa 100 milioni di dollari, grazie all'ingresso di un nuovo socio con disponibilità patrimoniale quantificata da Roberto Papalia in 22 alberghi tra cui uno a Pompei, 2 casinò oltre a sviluppi immobiliari in Spagna e Santo Domingo”.
Nel 2006 gli indagati hanno quindi contribuito a divulgare l'informazione privilegiata, poi rivelatasi falsa, che la società Infinex “avrebbe acquisito il 50% dei diritti appartenenti a tale Francesco Rodolfo, di estrazione di oro in una grossa miniera in territorio cileno”.
Il profitto accumulato dagli indagati e dai loro mandanti, nei quattro anni di manipolazione del titolo “Infinex”, ammonta a circa 15 milioni di euro, veicolati - attraverso l'apertura di conti correnti in Svizzera - nelle casse canadesi dei boss. Tra gli indagati figurano alcuni personaggi già noti alle cronache per avere in passato abusivamente sollecitato il pubblico risparmio su alcuni investimenti rivelatisi in seguito truffaldini. È stato altresì tentato, senza riuscirvi, di acquisire il controllo di una Società di intermediazione mobiliare (Sim) milanese.



De Luca, l'Idv e l'acclamazione barzelletta - Peter Gomez


Il voto per acclamazione con cui i delegati dell'Idv hanno deciso di appoggiare la candidatura di Vincenzo De Luca alla presidenza della regione Campania è un errore politico che costerà molto caro al movimento di Antonio Di Pietro. D'ora in poi, e con piena ragione, chiunque potrà ricordare quanto è avvenuto a Salerno e affermare che l'Italia dei Valori applica il sistema dei due pesi e delle due misure. Se De Luca corre per la poltrona di governatore con due processi in corso, perché non deve poter governare o candidarsi chi è nella sua stessa situazione? Detto in altre parole: qual è la differenza tra De Luca, Berlusconi o Fitto?

Badate bene, qui non si tratta di discutere di etica, di giustizialismo, di selezione delle classi dirigenti demandata (sbagliando) alla magistratura, o di altro. Il problema invece è la coerenza. Anche perché in politica vincono i
messaggi semplici. E quello lanciato con la standing ovation al congresso dell'Idv in favore di De Luca, lo è.
Tanto che, questa volta, viene difficile dar torto al vice-capogruppo dei senatori del Pdl, Gaetano Quagliariello, quando parla di decisione "barzelletta".

Dopo la
svolta di Salerno, l'Italia dei Valori finirà insomma per pagare pegno. E lo farà persino se De Luca dovesse sconfiggere il suo scialbo (ma formalmente immacolato) avversario. È noto, infatti, che quello Di Pietro è prima di tutto un movimento che raccoglie il voto di opinione. Per questo va generalmente male alle elezioni amministrative, mentre recupera terreno alle politiche o alle europee. Il caso De Luca fa adesso correre seriamente il rischio che il movimento di opinione alle spalle dell'Idv si disperda o finisca per rivolgersi una volta ancora al Partito Democratico o a quello che ne resta. Ne valeva la pena? Pensiamo di no.

È vero, la scelta di sostenere De Luca era quasi ineluttabile. Di altri candidati in Campania non ce n'erano. Anche perché in questi mesi né il Pd, nè l'Idv si sono dati troppo da fare per trovarli. E
Luigi De Magistris, l'unica persona che presentandosi all'ultimo momento avrebbe messo in crisi il gioco pro De Luca, non lo ha fatto. Finendo così per caricarsi sulle spalle, a causa dei suoi tatticismi e della sua mancanza di coraggio, una parte rilevante della responsabilità dell'accaduto. Ma, in ogni caso, c'è modo e modo per appoggiare una candidatura del genere.

Un partito lo può fare dimostrando a tutti che sta ingoiando un rospo. Che si sta muovendo solo per dovere di coalizione dopo che con il Pd è stato raggiunto un accordo a livello nazionale. Oppure può evitare, o quasi, il dibattito. Può risolvere tutto in mezza giornata, per poi andare gioiosamente, e
tra il tripudio di delegati e dirigenti, verso uno degli errori più clamorosi della sua breve storia.

mercoledì 10 febbraio 2010

Marcello Dell'Utri: Io senatore, per non finire in galera

Viaggio in treno con Dell’Utri: spiega racconta, si confida. Un bilancio

"A me della politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera”.
Frecciarossa Milano-Roma. Marcello Dell’Utri, senatore del Pdl condannato in primo grado a nove anni per mafia, si addormenta, seduto al suo posto, dopo aver mangiato un panino nella carrozza ristorante. Con lui, una guardia del corpo. Poi squilla il telefono e Dell’Utri – faccia dimessa – si sveglia e parla volentieri, a voce bassa.

Senatore, lei è su tutti i giornali per le dichiarazioni di Massimo Ciancimino.

Due sono le opzioni: o mi sparo un colpo di pistola, o la prendo sul ridere. Di certo farò un’interpellanza parlamentare per capire cosa c’è dietro queste calunnie.

Ma cosa ci guadagna Ciancimino a dire queste cose?

Guadagna molto: intanto gli sconti di pena. La sua condanna a cinque anni, dopo le sue prime dichiarazioni, è stata scontata a tre anni. Non è poco: tra indulti e cose varie non avrà nessuna pena. Poi ci guadagna la salvezza del patrimonio che il babbo gli ha lasciato. Sta tutto all’estero.

E chi è il regista che ha interesse a favorire Ciancimino perchè faccia i vostri nomi?

Sicuramente chi lo gestisce è lo stesso pubblico ministero che era il mio accusatore nel processo di primo grado: questo Ingroia.
Antonio Ingroia è un fanatico, visionario, politicizzato. Fa politica, va all’apertura dei giornali politici, ha i suoi piani. Ciancimino padre io non l’ho mai visto né conosciuto, non ho preso il suo posto, quindi non c’è nulla: è tutto montato. Qui c’è un’inquisizione. C’è una persecuzione: Torquemada non mollava la sua preda finché non la vedeva distrutta.

Però è difficile sostenere che Ciancimino, Spatuzza e tutti i pentiti che l’hanno accusata nel corso del suo processo, siano manovrati.

Ma questo non è un problema, Andreotti ne aveva anche di più di pentiti che l’accusavano.

Infatti Andreotti è stato riconosciuto colpevole del reato di associazione a delinquere (mafiosa) fino al 1980.

Ma la faccenda di Andreotti è complessa, io non l’ho capita bene, bisognerebbe studiarla. Questi, i miei accusatori, sono preparati. C’è una cordata che non finisce più, una cordata infinita.

Secondo Ciancimino il frutto della trattativa tra mafia e Stato fu proprio Forza italia, una sua creatura.

Questo Ciancimino è uno strano. Lo sanno tutti, a Palermo. È il figlio scemo della famiglia Ciancimino.

Non ha l’aria tanto scema.

Non scemo, diciamo che è uno particolarmente labile. Ha un fratello, a Milano, che è una persona dignitosissima, infatti non parla neanche. Tutti sanno invece che questo [Massimo Ciancimino, ndr] è un figlio un po’ debosciato: gli piacciono le macchine, i soldi. E’ capace di fare qualunque cosa.

Anche il pentito Gaspare Spatuzza dice che tra lei, Berlusconi e i fratelli Graviano è stato raggiunto un accordo.

Ma di che parliamo? Falsità, calunnie. Sono tutte persone che hanno davanti anni di galera, è da capire. Salvano la loro pelle.

Paolo Borsellino parla di lei e di Berlusconi nell’ultima intervista che ha rilasciato prima di essere ucciso.

Era un’intervista manomessa, manipolata. Quando l’abbiamo vista per intero [nel dvd allegato al Fatto Quotidiano, ndr] abbiamo capito come stavano le cose. Risulta chiaro che Vittorio Mangano non c’entrava niente: quando parlava di cavalli, intendeva cavalli veri.

Però secondo Borsellino quando si parlava di cavalli ci si riferiva a partite di eroina.

Nel gergo può essere, ma in quella circostanza si trattava di cavalli veri. Ho fornito le prove: era un cavallo, con un pedigree, che si chiamava Epoca.

Mangano però parlava anche di un cavallo e mezzo...

Questo era un linguaggio che aveva con altri, con un certo
Inzerillo, non con me. Lì "un cavallo e mezzo" era evidentemente una partita di droga.

Capisce che alla gente può sembrare strano che lei dia dell’eroe a uno che, anche a suo dire, trafficava eroina?

Certo, come no, capisco tutto. Ma io non ho detto che è un eroe in senso assoluto. È il mio eroe!

E lei ha mantenuto i contatti con Mangano anche dopo che è uscito di galera, quando erano ormai noti i reati che aveva commesso.

Ho tenuto i contatti, certo, l’ho detto. La mia tranquillità nasce dal fatto che non ho niente di cui vergognarmi.

Berlusconi è arrabbiato con lei?

No, perché? Mi conosce bene.

Neanche un po’ infastidito da tutti i problemi che gli causa?

Io? Che c’entro io? L’ha voluta lui Forza Italia. Io ho solo eseguito quello che era un disegno voluto dal presidente Berlusconi. Non posso arrogarmi meriti che non ho.

Non sente una responsabilità, visto il suo ruolo politico?

Io sono un politico per legittima difesa. A me della politica non frega niente. Mi difendo con la politica, sono costretto. Quando nel 1994 si fondò Forza Italia e si fecero le prime elezioni, le candidature le feci io: non mi sono candidato perché non avevo interesse a fare il deputato.

Poi, nel 1995, l’hanno arrestata per false fatture.

Mi candidai alle elezioni del 1996 per proteggermi. Infatti, subito dopo, è arrivato il mandato d’arresto.

E la Camera l’ha respinto. Ma le sembra un bel modo di usare la politica?

No, assolutamente. È assurdo, brutto. Speriamo cambi tutto al più presto! Ma non c’era altro da fare...

Perché non si difende fuori dal Parlamento?

Mi difendo anche fuori.

Perché non soltanto fuori?

Non sono mica cretino! Mi devo difendere o no? Quelli mi arrestano!

Se arrestano me cosa faccio, mi candido anch’io?

Ma a lei perché dovrebbero arrestarla? E poi a lei non la candida nessuno, quindi non si preoccupi. Io potevo candidarmi e l’ho fatto.


Ha fatto anche i circoli del Buon governo.

Si figuri che non abbiamo neanche più i telefoni perché non avendo più risorse per pagarli sono stati, diciamo, tagliati.

Voi non avete più risorse?

Sì, sì. Così è. Adesso lasciamo l’affitto della sede di via del Tritone a Roma perché non riusciamo più a mantenerlo.

E il Pdl non vi sovvenziona?

Il Pdl è avverso ai circoli: è fatto di persone che hanno preso il potere e hanno paura di chiunque sia migliore di loro.

Che fa se la condannano in appello?

Vado in Cassazione!

Non si dimette?

Ma sta scherzando?

E se la condannano in Cassazione?

Eh lì vado in galera. A quel punto mi dimetto.

Da
il Fatto Quotidiano del 10 febbraio


martedì 9 febbraio 2010

"Qui? Peggio della galera". Immigrati, video choc dal Cie di Bari (GUARDA)



Bari - (Adnkronos) - Il racconto di alcuni clandestini nel filmato girato all'interno Centro di identificazione ed espulsione tra dicembre e gennaio. Uno di loro: "Veniamo trattati male peggio dei cani. Per favore fate qualcosa...."

Possiamo definirci un paese civile?