venerdì 30 aprile 2010

Bavaglio e cattivi pensieri - Antonio Padellaro



29 aprile 2010
Davanti a Palazzo Madama, ieri mattina, a protestare contro la legge bavaglio sulle intercettazioni sul punto di essere definitivamente approvata dal Senato, eravamo una cinquantina e non di più. Eravamo, perché mi ero recato anche io sul posto convinto che la mobilitazione sarebbe stata, come si dice, massiccia e combattiva. Non era forse in gioco la nostra libertà di raccontare i fatti senza dover rischiare la galera e pene pecuniarie pesantissime? Tuttavia, poiché massicce erano le accaldate carovane di turisti a zonzo per piazza Navona e di combattivo c’erano solo le dichiarazioni rese alle tv da alcuni dirigenti sindacali e dell’opposizione, sono stato colto da un dubbio fastidioso. Non sarà per caso che la maggioranza dei giornali e dei giornalisti italiani considera queste norme un male tutto sommato accettabile?

Quanti (ho pensato) avranno pensato: vale davvero la pena beccarsi da sei mesi a quattro anni e sborsare decine di migliaia di euro per lo sfizio di pubblicare un verbale o un’intercettazione? Sì, certo, sono documenti che dimostrano le nefandezze degli sciacalli che esultano sui terremoti e dei rapaci delle cliniche che distruggono corpi umani in serie per accrescere il fatturato. Vorrà dire che per pubblicarle si aspetteranno i processi. Occorreranno degli anni? Meglio: si fornirà dei fatti un’analisi più meditata.

E i lettori? Si abitueranno. Ha senso per uno scoop mettersi in cattiva luce presso i propri editori, fare rischiare loro l’osso del collo in un periodo così difficile per l’editoria? Senza contare che potresti sempre inciampare in uno
Schifani che ti chiede 720 mila euro sull’unghia solo perché ti occupi dei suoi trascorsi palermitani. Viste così le cose, l’assenza davanti al Senato di tanti bravi colleghi e di tanti illustri direttori mi è apparsa come una scelta di necessaria prudenza in tempi così calamitosi. La libertà di stampa è una bella cosa. Ma se confortevole, è ancora più bella. Solo cattivi pensieri?

Da
il Fatto Quotidiano del 29 aprile


Agcomiche - Marco Travaglio



29 aprile 2010
Ieri, come ha detto Fini che sta pure diventando spiritoso, il fratello dell’editore del Giornale ha espresso "la più convinta solidarietà a Fini per gli attacchi personali che quest’oggi il Giornale gli ha mosso" a proposito degli appalti Rai alla suocera di Fini perché "la critica politica, anche più severa, non può trascendere in aggressioni ai familiari e su vicende che nulla hanno a che fare con la politica". Stiamo parlando di Silvio Berlusconi. Da non confondere con Paolo che, com’è noto, è l’editore de Il Giornale talmente geloso dell’indipendenza della testata che – assicura Silvio – non permette a nessuno, meno che mai a Silvio, di influenzarne la linea. Infatti Silvio, rispondendo l’altro giorno a Fini, ha comunicato dolente che "io non parlo col direttore del Giornale e sul Giornale non ho alcun modo di influire", ma se Fini volesse influire un po’ "potrebbe far entrare nella compagine azionaria un imprenditore suo amico", perché lui, Silvio, pur non avendo alcun modo di influire, ha "convinto un mio familiare (una zia? Un cugino? Un nipotino? Il solito fratello Paolo?, ndr) a mettere in vendita il Giornale".

Ecco: Silvio decide di vendere il
Giornale, assume e licenzia i direttori (Montanellinel ’94, Feltri nel ’97), ma senza mai parlarci né influire. Che timidone. Un amico di Fini invece, magari un po’ più estroverso di lui, potrebbe parlarci e influire. Si dà però il caso che il giornalista-scrittore Enzo Bettiza abbia appena raccontato adAldo Cazzullo del Corriere come – lui dice nel dicembre 1996, ma era il 1997 – rischiò di diventare direttore del Giornale di Paolo, poi però non se ne fece niente. Feltri era stato appena messo alla porta per aver chiesto scusa a Di Pietro dopo la lunga campagna diffamatoria sul caso D’Adamo-Pacini Battaglia, con tanto di risarcimento dei danni per 700 milioni di lire. E chi chiamò Bettiza per sostituirlo? Paolo? Ohibò, no: Silvio.

"Con Berlusconi (Silvio,
ndr) ne parlammo in una cena ad Arcore. C’erano Letta, Confalonieri, Massari che era l’amministratore, Biazzi Vergani e Belpietro, che avrebbe dovuto essere il mio condirettore o vicedirettore, a garanzia del lato popolaresco e digrignante...Proposi di far scrivere il primo fondo a Montanelli. Letta disse subito di sì. Berlusconi rimase in silenzio, ma il suo istinto di venditore ambulante lo induceva ad accettare, per pure ragioni pubblicitarie. Tutti gli altri si opposero". Silvio, Gianni, Fedele. L’editore Paolo, per dire, non fu invitato nemmeno a fare il quarto a briscola.

L’estate scorsa, 12 anni dopo,
Littorio Feltri tornò sul luogo del delitto. Lo chiamò Paolo? Macché: di nuovo Silvio, quello che con Feltri non parla e sul Giornale non influisce. Lo raccontò lo stesso Littorio, a fine agosto, a Cortina: "Il 30 giugno ho incontrato Silvio Berlusconi. Ogni volta che lo vedevo, mi chiedeva: 'Ma quand’è che torna al Giornale?'. E io: 'Sto bene dove sono'. Ma quel giorno entrò subito nei dettagli, fece proposte concrete e alla fine mi ha convinto". Segnaliamo le dichiarazioni di Bettiza e Feltri, per competenza, alla cosiddetta "autorità indipendente" denominata Agcom che, sotto l’alta egida del Quirinale, vigila occhiutamente su ogni conflitto d’interessi, casomai le fossero sfuggite. Il presidente Calabrò e gl’inflessibili commissari Innocenzi e Mannoni prenderanno senz’altro buona nota e apriranno una pratica per verificare se, per disgrazia, il vero editore del Giornale non fosse Paolo, ma Silvio. Il che configurerebbe una violazione persino della legge Frattini sul conflitto d’interessi, che impone all’Agcom di accertare se per caso "le imprese...che fanno capo al titolare di cariche di governo, al coniuge e ai parenti entro il secondo grado… non pongano in essere comportamenti che… forniscono un sostegno privilegiato al titolare di cariche di governo". Nel qual caso l’Agcom dovrebbe riferire al Parlamento, diffidare e sanzionare. Ecco, gentili agcomici, ci fate eventualmente sapere?

Da il Fatto Quotidiano del 29 aprile


Bocchino lascia: “Berlusconi mi ha epurato”. Il premier sull’orlo di una crisi di nervi



di Fulvio Lo Cicero

Frattura oramai insanabile fra i finiani e il lider maximo, che confessa: “Me ne andrei volentieri ma devo governare questo Paese”. La Russa: “Bocchino non è una vittima”.

ROMA – Italo Bocchino lascia “ irrevocabilmente” la carica di vicecapogruppo del Pdl alla Camera dei deputati ma lo fa polemicamente, annunciando al mondo che Berlusconi in persona lo ha fatto fuori con un ordine perentorio alle sue truppe cammellate. E a lui avrebbe intimato di non partecipare all’ultima puntata di “Ballarò”. Di fronte alla disubbidienza del parlamentare finiano, il ducetto di Arcore avrebbe detto: «Allora io ti infilzo».

La scoperta dell’America

Fa impressione ed anche un po’ di tenerezza questo psicodramma che si sta svolgendo nelle segrete stanze del partito di plastica. Impressione perché ci si trova di fronte ad una tragedia shakespeariana tramutata in farsa trimalcionesca, tenerezza perché dimostra tutta l’incapacità mostrata fino ad ora da parte dei finiani di comprendere realmente la natura autoritaria del Pdl, un partito-azienda dove risulta impossibile discutere di qualsiasi cosa e dove mostrano, invece, di trovarsi a loro agio gli eredi del mussolinismo, quelli alla Ignazio La Russa, secondo cui Bocchino dovrebbe smetterla di fare la vittima e e alla Gasparri, per i quali il duce non è morto invano.

Solo adesso Bocchino scopre che «non esiste un solo partito democratico dove possa accadere ciò che è accaduto oggi» e che «Berlusconi commette un grave errore che è quello di colpire il dissenso, colpire chi è in vista per educarne cento. Ma questo non porterà il partito lontano». Peccato che sull’argomento siano stati scritti decine di libri e, in particolare, quello illuminante di Giovanni Sartori (“Il sultanato”, Laterza, 2009), nel quale il famoso politologo sottolinea come «Berlusconi secondo me è sempre più megalomane e potrebbe essere pericoloso. A lui interessa comandare, quello che conquista è suo e sul suo comanda lui, punto e basta».

Bocchino ora dice anche che la frattura fra Fini e Berlusconi non è sanabile ma bisogna vedere «se è possibile costruire un partito in cui sia ammesso il dissenso, dove siano presenti una maggioranza e una minoranza oppure se Berlusconi cercherà il pretesto per sfasciare tutto». Il lider maximo sarebbe ossessionato dall’ex vice-capogruppo del Pdl, «è da almeno un anno che chiede la mia testa, perchè ritiene che non possa esserci uno non allineato. Berlusconi mi ha pure chiamato per dirmi di non andare in televisione. Che un leader chiami un dirigente per dirgli questo, è una cosa che non esiste al mondo. In una telefonata, con toni concitati, mi ha pure detto: “Farai i conti con me”». Secondo Bocchino, «non è accettabile che chi ponga in discussione un sistema fondato su un centralismo carismatico che non ha eguali in Occidente, debba essere cacciato o costretto ad andare via. Non è questo il Pdl che sognavamo». Parole nobili, senza dubbio, anche per le orecchie di analisti che da sempre hanno compreso la vera natura del potere politico berlusconiano e che quindi hanno dormito un po’ meno di quanto non abbiano fatto le truppe finiane fino ad ora.

Berlusconi. “Oramai con Fini la rottura è insanabile”

Naturalmente diversa è la versione fornita dal ras di Arcore. «Ho chiamato Bocchino l'altra sera quando doveva andare a Ballarò. Con me è stato anche un po' insolente. Gli ho detto che non si può andare in tv a fare sceneggiate coinvolgendo il partito. Tutti nel Pdl devono capire che non si può sputtanare il partito», avrebbe detto a diversi parlamentari del Pdl. Poi, Berlusconi avrebbe proseguito: «A volte mi verrebbe voglia di mollare tutto, non si può passare tutta una giornata a discutere per questioni di partito. Io ho un Paese da governare e problemi internazionali da affrontare ed è deprimente perdere così tanto tempo per certe cose. Io comunque non sono un irresponsabile e vado avanti. Sarà il partito ad affrontare certe cose». Si attende una prova di lealtà da parte di Gianfranco Fini: «Abbiamo constato che tra di noi non c'è più amicizia, ora vediamo se c'e lealtà da parte sua. Lealtà nei confronti del Pdl ma soprattutto degli elettori. Vedremo se sarà leale in Parlamento. È chiaro che se qualcuno vuole assumersi la responsabilità di far cadere questo governo lo si vedrà in Parlamento e a quel punto la strada per le elezioni sarà l'unica possibile». Ma poi Berlusconi ha rincarato la dose, affermando che «la rottura è insanabile, irreversibile. Ormai Fini guarda a Casini e a Rutelli. Non appartiene più al Pdl e al nostro elettorato». Il Capo guarda con fastidio all’invadenza mediatica del Presidente della Camera (da quale pulpito, verrebbe da dire), perché «trova sempre una solidarietà nei conduttori che cercano di far venire fuori la rissa». Un atteggiamento considerato grave per un Presidente della Camera che «dovrebbe essere sopra le parti e non prestarsi a questo gioco». Il fatto è, ha chiosato ancora il premier, che «Fini per qualche giorno ha mostrato la faccia positiva per recuperare consensi ma poi condisce i suoi comportamenti con atti non chiari». Un premier afflitto, nervoso, tradito.

http://www.dazebao.org/news/index.php?option=com_content&view=article&id=9848:bocchino-lascia-berlusconi-mi-ha-epurato-il-premier-sullorlo-di-una-crisi-di-nervi&catid=37:politica-interna&Itemid=154


giovedì 29 aprile 2010

Pedofilia, dal Vaticano un sabba di menzogne - Paolo Flores d'Arcais


Contro la pedofilia dei suoi preti, sembra proprio che il Papa voglia fare sul serio. Perché allora continua a occultare la verità sul passato e ha messo online un falso? Padre Federico Lombardi, infatti, non agisce di testa propria, è il portavoce della Santa Sede, e inoltre è persona di squisita gentilezza. Se dunque non ha risposte alle “
quattro domande cruciali” che con una mia lettera aperta questo giornale gli ha rivolto una settimana fa non è perché non ha voluto, è perché non poteva: non aveva la “licenza de’ superiori”.

Avesse potuto, infatti, avrebbe dovuto confessare quanto segue: la frase chiave “Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte” contenuta nelle famose “linee guida” sulla pedofilia, messe online sul sito ufficiale del Vaticano lunedì 12 aprile, e presentate da padre Lombardi come “disposizioni diramate fin dal 2003” (sito dell’
Avvenire, quotidiano della Cei) non risale affatto al 2003 ma è stata coniata nuova di zecca nel weekend del 10-11 aprile.

Al responsabile dell’autorevolissima agenzia internazionale “Associated Press”, Victor Simpson, che chiedeva lumi sulla posizione della Chiesa in fatto di pedofilia, padre Lombardi inviava infatti il venerdì 9 aprile un documento in inglese identico a quello messo online il lunedì successivo, tranne la frase chiave di cui sopra, che non compariva. E che perciò è stata partorita durante il weekend.

Come altro si può chiamare in buon italiano una manipolazione del genere se non un “falso” (“falso: non corrispondente al vero in quanto intenzionalmente deformato”, Devoto-Oli)? Perché tutto l’interesse di quel documento si concentrava nella famosa frase chiave, che non a caso è stata sbandierata come la dimostrazione di una volontà della Chiesa – da anni – di collaborare con le autorità civili, rispettandone le leggi anche quando esse impongono a un vescovo di denunciare alla magistratura inquirente il suo prete sospetto di pedofilia.

E’ dunque falso, assolutamente falso, che la Chiesa cattolica gerarchica avesse già nel 2003 fatto obbligo ai suoi vescovi e sacerdoti di “dare seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte”. All’epoca era vero, anzi, il tassativo obbligo opposto: tacere assolutamente alle autorità civili, in ottemperanza al “segreto pontificio”, che comporta addirittura un giuramento al silenzio fatto solennemente sui vangeli, la cui formula terribile abbiamo riportato in un
precedente articolo (cfr. Il Fatto del 10 aprile).

E’ perciò altrettanto falso quanto ha sostenuto mons. Scicluna nei giorni scorsi, secondo cui “accusare l’attuale pontefice [per quando era cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede] di occultamento è falso e calunnioso (…) in alcuni paesi di cultura giuridica anglosassone, ma anche in Francia, i vescovi, se vengono a conoscenza di reati commessi dai propri sacerdoti al di fuori del sigillo sacramentale della confessione, sono obbligati a denunciarli all’autorità giudiziaria”.

Questa non è la dichiarazione di un carneade qualsiasi, perché, come spiega il suo intervistatore Gianni Cardinale “monsignor Charles J. Scicluna è il ‘promotore di giustizia’ della Congregazione per la Dottrina della Fede. In pratica si tratta del pubblico ministero del Tribunale dell’ex sant’Uffizio”. Che l’affermazione di monsignore sia falsa lo prova
ad abundantiam la testimonianza dei giorni scorsi del cardinale Dario Castrillon Hoyos, tuttora tra i più stretti collaboratori di Papa Ratzinger, che ha ricordato come fosse stato Giovanni Paolo II in persona a fargli scrivere una lettera di solidarietà e sostegno a un vescovo francese che per il rifiuto a testimoniare contro un suo prete pedofilo era stato condannato a tre mesi con la condizionale.

Padre Federico Lombardi ha opposto un “no comment” alle affermazioni (palesemente inoppugnabili) del porporato colombiano, ma ha aggiunto che l’episodio “dimostrava e dimostra l’opportunità della unificazione delle competenze in capo alla Congregazione per la Dottrina della Fede”. Non rendendosi conto che tale “unificazione” avviene nel maggio del 2001, mentre la lettera del cardinale, per volere di Papa Wojtyla, è del settembre dello stesso anno, dunque è successiva, e conferma l’unica interpretazione che di quella “unificazione” si può dare: il più assoluto segreto era assolutamente centralizzato per renderlo ancora più catafratto.

Perché perciò tutto questo sabba di menzogne, visto che Benedetto XVI sembra davvero intenzionato a cambiare atteggiamento, e a non occultare più alle autorità secolari i casi di pedofilia ecclesiastica (il vescovo di Bolzano e Bressanone ha inviato in procura le prime denunce)?

Perché scegliendo la Verità dovrebbe riconoscere che il suo predecessore aveva ribadito come dovere sacrosanto l’omertà rispetto a magistrati e polizia, e difficilmente dopo tale ammissione potrebbe elevare Karol Wojtyla all’onore degli altari.

Perché dovrebbe confessare Urbi et Orbi che la svolta è di questi giorni, e che egli stesso, come cardinale Prefetto (e in larga misura anche nei primi anni del Pontificato) non ha trovato il coraggio di chiedere coram populo (non sappiamo cosa pensasse in interiore homine) una politica della trasparenza e della denuncia ai tribunali, contribuendo con ciò all’impunità di un numero angoscioso di pedofili, che se prontamente messi in condizione di non nuocere avrebbero risparmiato la via crucis di migliaia di vittime.

Perché dovrebbe ammettere che a tutt’oggi il suo portavoce si è prodigato in un lavoro di raffinata disinformacija, e consentirgli (o intimargli: non sappiamo se padre Lombardi soffra per quanto ha dovuto manipolare) di cambiare registro. Perché…

Il Fatto Quotidiano (28 aprile 2010)



La casa in nero di Scajola - Marco Lillo



29 aprile 2010

Il gip di Perugia ricostruisce il giro di assegni. Da Anemone a Zampolini fino al ministro

Ora ci sono le carte: la casa di Claudio Scajola è stata pagata con assegni circolari per 900 mila euro provenienti dai conti di un architetto, Angelo Zampolini, che la Procura di Perugia vuole arrestare per associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio. Secondo i pm Alessia Tavernesi e Sergio Sottani, i soldi che Zampolini ha usato per comprare la casa del ministro Claudio Scajola (non indagato) provengono dalle attività delittuose della "cricca". Il gip ha negato l’arresto di Zampolini e di altre due persone, Claudio Rinaldi, commissario per la ricostruzione post-terremoto a San Giuliano e Commissario dei Mondiali di nuoto 2009, e Stefano Gazzani, il commercialista di tutti i protagonisti dello scandalo dei Grandi eventi: il costruttore Diego Anemone e i due dirigenti della Presidenza del Consiglio Angelo Balducci e Claudio Rinaldi.

Secondo il gip Massimo Riccarelli, i fatti sono accaduti a Roma e devono essere valutati dai magistrati capitolini. I pm perugini hanno fatto ricorso ma a prescindere dal suo esito, sin d’ora, si comprende che i fatti sono gravi. A partire da quelli che riguardano Claudio Scajola. Con la solita aria tronfia il ministro dello Sviluppo economico ieri aveva risposto così alla domanda del cronista del Fatto sugli assegni circolari della cricca di Anemone usati per comprare la sua casa al Colosseo nel 2004: "Sono assolutamente amareggiato e disgustato che il segreto istruttorio finisca sui giornali. Non voglio partecipare a questa bruttissima abitudine di fare processi mediatici".

Ora si scopre che la scelta di svicolare di fronte al nostro registratore era per lui obbligata. Scajola - come provano le carte inedite dell’indagine che pubblichiamo oggi - avrebbe dovuto ammettere di essere un bugiardo e un evasore fiscale. Non solo. Avrebbe dovuto spiegare perché l’architetto del circolo Salario di Anemone, Angelo Zampolini, accusato di riciclare i soldi della "cricca", ha pagato la splendida magione al Colosseo del ministro: 180 metri quadrati nel palazzo abitato da vip come Raoul Bova e Lory del Santo. Ieri Il Fatto quotidiano aveva pubblicato l’atto di acquisto nel quale il ministro dichiarava di avere pagato alle sorelle Beatrice e Barbara Papa solo 610 mila euro.

Avevamo poi raccontato il nostro colloquio con l’architetto Zampolini che ci aveva detto di essere stato incaricato da Anemone di trovare la casa a Scajola e di avere trattato un prezzo reale molto maggiore di quello dichiarato. Ora la Procura di Perugia nella richiesta di arresto contro Zampolini scrive che l’architetto deve finire in galera con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio anche per gli assegni dell’acquisto di questa casa. Gli episodi nei quali i pm contestano all’architetto di avere prestato i suoi conti per riciclare i soldi della cricca in occasione di compravendite immobiliari sono quattro ma il capo di imputazione contro Zampolini che è destinato a far rumore è quello che, pur non vedendo indagato il ministro Scajola, potrebbe costargli le dimissioni. Zampolini, rischia la galera "perché versando 900 mila euro in contanti presso gli sportelli della Deutsche Bank agenzia 582 di Roma e ottenendo l’emissione di 80 assegni circolari all’ordine di Barbara e Beatrice Papa per valuta corrispondente per l’acquisto nell’interesse di Claudio Scajola di un immobile sito in via del Fagutale intestato al suddetto trasferiva denaro e compiva comunque operazioni tali da ostacolare l’identificazione della loro provenienza da delitti contro la pubblica amministrazione".

Gli ottanta assegni non sono contestati al ministro dello Sviluppo economico che sembrerebbe, almeno da un punto di vista economico, "il beneficiario finale". I pm non vogliono arrestare l’architetto Zampolini perché ha pagato la casa di Scajola ma perché avrebbe nascosto soldi sporchi della "cricca". Insomma per ora i pm si disinteressano (o almeno non ci sono tracce di indagini in tal senso nella loro richiesta di arresto) dell’eventuale vantaggio tratto da Anemone per giustificare tanta generosità. Scajola era stato ministro dell’Interno fino al luglio del 2002 quando era stato costretto a dimettersi dopo aver dato del "rompicoglioni" a Marco Biagi, ucciso dalle Br. Il ministro sarà sentito probabilmente nelle prossime settimane dai pm di Perugia se il Tribunale del riesame confermerà la loro competenza. Certo è che la sua posizione è imbarazzante. Anche perché a rendere il quadro più fosco ci sono gli altri casi in cui Zampolini ha usato gli assegni circolari per nascondere l’origine delittuosa dei soldi della "cricca". A Zampolini si contestano altre due operazioni. La prima è stata fatta versando sul solito conto corrente della Deutsche Bank “danaro contante per euro 435 mila che nei giorni successivi permetteva l’emissione di assegni all’ordine di Geraldini Manfredi". Con quegli assegni, secondo l’ipotesi dell’accusa, il figlio di Balducci, Lorenzo, avrebbe pagato un immobile comprato dalla società di Geraldini Manfredi nel 2004 in via della Pigna, a due passi dal Pantheon. La terza persona beneficata dagli assegni di Zampolini è il generale dell’Aisi, responsabile della logistica del servizio segreto, Francesco Pittorru (anche lui non indagato come Balducci Jr e Scajola).

Nel 2004 Zampolini avrebbe emesso 29 assegni circolari per 285 mila euro complessivi che poi sarebbero stati usati per pagare la casa di via Merulana intestata ai figli del generale. Due anni dopo la scena si ripete. Zampolini stavolta emette assegni circolari sul suo conto per 520 mila euro che poi vengono usati per acquistare una seconda casa di fronte alla prima e più grande, sempre per il generale e per sua moglie.

LEGGI: Soldi sporchi, false fatture e un film mai realizzato di Antonio Massari

Da il Fatto Quotidiano del 29 aprile

http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2481642&title=2481642

Assemblea azionisti Telecom Italia - intervento di Beppe Grillo

mercoledì 28 aprile 2010

Schifani e la libertà di stampa - Marco Lillo e Peter Gomez


28 aprile 2010
La citazione del presidente del Senato mette in gioco una delle regole fondamentali delle democrazie liberali: gli elettori hanno il diritto di sapere tutto sui politici per poi sceglierli o bocciarli con il voto

Le 54 pagine della citazione civile notificate ieri a Il Fatto Quotidiano dal presidente del senato, Renato Schifani, spiegano bene quale considerazione abbiano della libertà di stampa molti esponenti delle nostre classi dirigenti. Nei mesi scorsi, come è noto, questo giornale ha pubblicato più puntate di una lunga inchiesta sulla vita umana e professionale della seconda carica dello Stato e alcuni pezzi di commento sulle risposte (mancate) di Schifani. L’indagine giornalistica si è rivelata quanto mai opportuna. Dopo i primi articoli è tra l’altro emerso come il nome di Schifani, già citato da altri collaboratori di giustizia, fosse stato fatto anche di recente da due protagonisti della storia di Cosa Nostra palermitana: Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, e Gaspare Spatuzza, il braccio destro ora pentito dei fratelliGraviano, i boss di Brancaccio condannati per le stragi del 1993. E le loro dichiarazioni, vista l’importanza delle persone tirate in ballo, sono state ampiamente riprese da giornali e agenzie.

Ora, è bene dirlo subito, nè Ciancimino, nè Spatuzza, hanno imputato a Schifani dei reati. E nemmeno lo avevamo fatto noi de
Il Fatto con le nostre inchieste. Ciancimino ha raccontato come il presidente del Senato da giovane fosse stato l’autista del potente senatore fanfaniano, Giuseppe La Loggia, solito accompagnarlo alle riunioni con l’eurodeputato Salvo Lima e suo padre Vito. Spatuzza ha poi sostenuto di aver visto Schifani mentre, al fianco del suo clientePippo Cosenza, s’incontrava nei primi anni novanta con Filippo Graviano. MentreIl Fatto Quotidiano ha ripercorso i rapporti societari e professionali del senatore azzurro, rivelando come tra questi ve ne fossero stati molti con persone poi ritenute o mafiose, o contigue o complici di Cosa Nostra.

Se non si vogliono ridurre i giudizi politici su chi rappresenta i cittadini nelle istituzioni alla categoria (giudiziaria) del colpevole o innocente, ci pare sia necessario partire proprio da notizie come queste. Specie quando sono numerose e reiterate nel tempo. Nelle democrazie liberali le regole del gioco sono chiare. La selezione delle classi dirigenti, e ancor più quella delle altissime cariche istituzionali, non viene demandata alla magistratura, ma all’opinione pubblica. L’elettore ha il diritto di sapere tutto sul suo candidato per poi sceglierlo o bocciarlo al momento del voto (o almeno era così finchè ci veniva data la possibilità di esprimere le nostre preferenze).
Il Fatto si è sempre mosso - e continuerà a muoversi - proprio in questa convinzione. E per dar modo al senatore Schifani di offrire la sua versione, o di contestare eventuali inesattezze rispetto a quanto da noi scoperto, prima di scrivere, lo ha contattato via e-mail o attraverso il suo portavoce. Il presidente del Senato, pur informato nei particolari, non ha mai voluto rispondere.

Oggi leggendo la citazione in giudizio con cui Schifani chiede un risarcimento da 720mila euro si comincia a intuire il perché. In 54 pagine il senatore bolla come "falsa" (e vedremo poi quale) solo una delle decine di notizie su di lui riportate da
Il Fatto Quotidiano . Schifani invece si lamenta genericamente perchè "gli autori hanno tratteggiato, con dichiarazioni altamente diffamatorie, la figura dell’attore (lui, il presidente del Senato, ndr) come quella di un soggetto vicino agli ambienti della criminalità mafiosa, ledendone la sua reputazione, dignità e prestigio professionale e personale". L’unica prova addotta non è però il contenuto degli articoli o delle inchieste portate in giudizio, ma è una vignetta-fotografica del 22 novembre, pubblicata nella rubricaSatire&satiriasi.

Un’immagine in cui Schifani, immortalato mentre offre la mano stesa a alcuni parlamentari, appare circondato da persone a cui viene fatto dire "bacio le mani". In casi come questi più che invocare il diritto di satira, serve invece ricordare la storia. La libertà di parola è nata nel ‘700 per poter parlare male di chi stava al potere. Per parlarne bene, infatti, c’erano già i cortigiani.

Ma andiamo avanti. Quale sia la filosofia che sta alla base della citazione lo si capisce leggendo le pagine 29 e 30 del documento.
Il Fatto il 20 novembre per la penna di Marco Lillo ha pubblicato un articolo dal titolo: "Schifani e la casa della mafia". È la storia di un palazzo abusivo, quasi interamente costruito e abitato da parenti o esponenti di famiglie mafiose. A opporsi allo scempio edilizio erano due palermitane, le sorelle Pilliu, che proprio per questo furono anche ascoltate informalmente da Borsellino prima della morte. Schifani, con un suo collega di studio, assisteva invece dal punto di vista amministrativo il costruttore Pietro Lo Sicco. Il nipote di Lo Sicco, Vincenzo, dopo essere stato collaboratore dello zio ha avuto il coraggio di rompere con quel mondo e di testimoniare contro il suo familiare. Il Lo Sicco "buono" ha sostenuto in aula che Schifani si vantò con lui di aver salvato palazzo “facendolo entrare in sanatoria durante il governo Berlusconi” e che la sanatoria era "riuscito a farla pennellare in quello che era l'esigenza di questi edifici".

Per la seconda carica dello Stato "non si vede quale sia l’interesse pubblico ad un processo nel quale il presidente Schifani non risulta in alcun modo indagato e ne quale le dichiarazioni rese dal Lo Sicco non sono passate al vaglio della magistratura". In realtà
Il Fatto, dopo aver scritto, chiaramente che i pm non avevano ritenuto di mettere Schifani sotto inchiesta, ha riassunto una serie di elementi che lasciano la porta aperta a interrogativi. Già nel ‘94, pur non essendo formalmente iscritto a partito, Schifani lavorava politicamente al fianco del senatore Enrico La Loggia, capogruppo degli azzurri. Il condono allora varato dal governo Berlusconi, come ammette lo stesso senatore, ha permesso di mettere in regola il palazzo.

Ma c’è di più. Schifani sostiene che è una "affermazione gravemente falsa e ingannevole" scrivere che un emendamento alla legge finanziaria del 2000, presentato da un esponente di Forza Italia, fosse
ad personam perchè sembrava ritagliarsi alla perfezione sugli inquilini dello stabile. Per capire che non è così basta però guardare che cosa è accaduto. Fino a quell’anno chi aveva firmato un compromesso di acquisto per un appartamento in un palazzo abusivo poi confiscato per fatti di mafia, non poteva perfezionare la compravendita. Grazie alla nuova legge sì. Tanto che uno dei promittenti acquirenti (che non citiamo per ragioni diprivacy, visto che non è un politico) è già riuscito a comprare proprio grazie a quella norma, mentre gli altri ci stanno ancora provando. Questi, però, sono particolari da tribunale.

Più interessante è rileggere altri passaggi della citazione. Schifani ci rimprovera di non aver sottolineato che tra la sua clientela vi erano anche molte persone mai incappate in guai di tipo mafioso con la giustizia. E ci redarguisce per non aver detto che da una cooperativa edilizia in cui entrò a far parte molti anni fa uscì già nel 1986. Poi se la prende con
Marco Travaglio che nella sua rubrica lo ha definito un “avvocaticchio di terza fila” prima di descrivere la sua straordinari carriera politica. È un reato tutto questo o è diritto di cronaca e di critica? Prima del giudice, un’idea se la potranno fare i lettori che da oggi troveranno l’atto di citazione di Schifani liberamente scaricabile dal sito dell’Antefatto. Noi invece continueremo le nostre inchieste giornalistiche. E invieremo di nuovo delle e-mail al presidente del Senato. Nella speranza che per una volta ci risponda. Pubblicamente e non in tribunale.



Da
il Fatto Quotidiano del 28 aprile