lunedì 21 giugno 2010

Berlusconi e la mafia: processo dell' Utri



Obiettivo: diffamare - Marcello Santamaria


Il Tribunale di Monza ha condannato per la terza volta "il Giornale" per gli articoli su Di Pietro.

Non è vero che Antonio Di Pietro abbia fatto pasticci con i rimborsi elettorali dell’Italia dei Valori e con l’acquisto di case. L’ha stabilito il Tribunale civile di Monza, che in tre sentenze ravvicinate spazza via anni e anni di campagne del Giornale, condannando in primo grado il quotidiano della famiglia Berlusconi a risarcire l’ex pm per un totale di 244 mila euro, avendolo più volte diffamato con una serie di articoli. Soccombenti l’ex direttore Mario Giordano, i giornalistiGian Mario Chiocci, Massimo Malpica e Felice Manti, oltre all’ex deputatoElio Veltri. Ma, al di là dei nomi, il punto è un altro. Le denunce penali e civili sono rischi del mestiere di giornalista e può capitare a tutti di incappare in una parola di troppo, un’inesattezza dovuta alla fretta, un eccesso di sintesi o di critica, insomma in un errore in buona fede. Qui invece i giudici hanno accertato un modus operandidi assoluta malafede: quello delle sistematiche campagne diffamatorie di chi sa di avere le spalle coperte da un editore pronto a investire milioni di euro per screditare, sui giornali e le tv che controlla in conflitto d’interessi, i propri avversari politici. Qui non si parla di cronisti che sbagliano, ma di killer che mentono sapendo di mentire.

Nel primo articolo incriminato, pubblicato il 7 gennaio 2009, il Giornalesparava i titoloni cubitali "I trucchi di Di Pietro per sfuggire alle intercettazioni" e "Tonino eludeva le intercettazioni coi cellulari criptati dei suoi indagati. Oggi il leader Idv attacca ogni proposta di riforma del sistema, ma quando era magistrato usò schede protette intestate all’autista di Pacini Battaglia". In pratica, Di Pietro non teme le intercettazioni perché le elude con "trucchi" fin da quando "indossava la toga e indagava su Pacini Battaglia".

Tutto questo, secondo il Tribunale, è "palesemente inveritiero", una "falsa affermazione", e chi l’ha scritta non l’ha fatto involontariamente visto che cita la sentenza del Gip di Brescia che la smentiva per tabulas: "E’ stato accertato che il presunto utilizzo della scheda svizzera (febbraio-giugno 1995)...risale a epoca in cui è pacifico che Di Pietro non esercitava più le funzioni giudiziarie (dal 7 dicembre 1994)" . I giornalisti del Giornale erano a "sicura conoscenza" della falsità di quel che scrivevano, eppure l’hanno scritto lo stesso. Perciò Chiocci, Malpica e Giordano devono risarcire Di Pietro per 240 mila euro, fra danni morali e riparazione pecuniaria.

La seconda sentenza riguarda ancora Giordano e Chiocci per un altro titolone in prima pagina: "L’Italia dei Valori. Immobiliari. Di Pietro ha investito quattro milioni di euro in case. Ecco il suo patrimonio", seguito da due pagine intitolate: "Di Pietro gioca a Monopoli: ha case in tutt’Italia. Ma è giallo sui suoi conti. Montenero, Bergamo, Milano, Roma e Bruxelles: l’ex pm ha speso 4 milioni di euro tra il 2002 e il 2008, ma non è chiaro con quali soldi abbia acquistato ville e appartamenti". Il teorema è noto: Di Pietro compra case con fondi misteriosi, forse quelli del partito. “Il postulato di fondo” – riassume il giudice – è “la presunta commistione tra il patrimonio immobiliare personale di Di Pietro e quello del partito IdV...commistione che – nonostante l’archiviazione del procedimento penale che si è occupato della questione – viene comunque prospettata quale congettura sottesa agli interrogativi del giornalista, all’evidente scopo di screditare la credibilità e l’immagine del leader".

Anche qui non c’è ombra di buona fede: c’è la solita campagna di balle orchestrate ad arte. La sentenza parla di "volute inesattezze e reticenze, così da accreditare la tesi del giornalista che, interrogandosi sulle proprietà immobiliari di Di Pietro e dei suoi familiari (‘Ma quante case ha l’onorevole Di Pietro? E con quali soldi le ha comprate?’) in rapporto ai redditi dallo stesso dichiarati ed al patrimonio della società immobiliare di sua proprietà (l’An.to.cri, ndr)… senza affermarlo espressamente, intende chiaramente alimentare il dubbio che gli acquisti siano frutto di un illecito storno per fini privati dei fondi del partito e, quindi, anche dei finanziamenti pubblici allo stesso destinati in relazione ai rimborsi elettorali". Anche qui il giornalista sa benissimo che quel che scrive è falso, visto che cita la denuncia di un ex dipietrista, tale
Mario Di Domenico, contro Di Pietro. Denuncia archiviata dal gip di Roma perché "anche in punto di fatto, prima ancora che nella loro rilevanza giuridica, i sospetti avanzati in merito alle citate operazioni dell’avv. Di Domenico sono risultati infondati". Ma il Giornale si guarda bene dal riportare quelle parole: "Dall’autore dell’articolo...vengono artatamente sottaciute le motivazioni poste alla base del provvedimento di archiviazione" con uno "scopo evidente": "Ove le ragioni delle concordi determinazioni della Procura e del Gip fossero state riportate (sia pure in sintesi), i dubbi instillati dal giornalista sarebbero risultati non più che mere congetture, prive di concreti riscontri. E invece, espungendo le motivazioni del provvedimento, il lettore (non altrimenti informato) resta confuso, nell’apprendere che, a fronte delle pesanti accuse mosse a Di Pietro dall’avv. Di Domenico circa l’illecito utilizzo di fondi del partito per l’acquisto di appartamenti, ‘la procura capitolina’ avrebbe ‘stigmatizzato’ il comportamento di ‘Tonino’…In realtà la procura non ha affatto ‘stigmatizzato’ il comportamento" di Di Pietro e il gip ha ritenuto "infondati i sospetti avanzati dal querelante, non essendo in alcun modo emerso che Di Pietro ebbe a trarre personale vantaggio dalle operazioni ai danni del partito”. Insomma il Giornale ha ancora una volta, "volutamente" e "capziosamente", "travisato i fatti a discapito del principio di verità della notizia". E lo stesso ha fatto a proposito dell’annosa querelle fra Idv e "Il Cantiere" di Occhetto e Veltri per i rimborsi elettorali delle Europee 2004: "L’autore distorce ancora una volta le informazioni”, evita accuratamente di ricordare che il gip di Roma ha “confermato la sostanziale correttezza delle determinazioni assunte dalla Camera nell’individuazione dell’Idv quale unico soggetto legittimato alla percezione dei rimborsi…Informazioni intenzionalmente tralasciate per poter affermare che la Camera avrebbe erogato i rimborsi all’Idv‘senza operare alcun controllo’, dando così al pubblico un’informazione palesemente falsa".

Anche questi articoli sono "diffamatori e lesivi della reputazione" di Di Pietro, che va risarcito con altri 60 mila euro. La terza sentenza riguarda un’intervista di Felice Manti a Veltri. Il Giornale la titolò così: "Vi racconto i maneggi del mio ex amico Di Pietro. Quando tesserò 241 criminali". Tutto diffamatorio fin dal titolo, per giunta manipolato per forzare ulteriormente il pensiero di Veltri, a cui l’autore attribuisce una frase mai pronunciata ("Di Pietro iscrisse ai Democratici per Prodi l’intera via della malavita di Cosenza"). Ma il giudice ne ha ritenuta diffamatoria anche una effettivamente pronunciata, "laddove Veltri ha dichiarato che i soldi del finanziamento pubblico non vanno al partito, bensì personalmente a Di Pietro, a
Susanna Mazzoleni (la moglie, ndr) e a Silvana Mura (la tesoriera Idv, ndr) e ha dichiarato che un’ordinanza del Tribunale di Roma avrebbe affermato che i finanziamenti non possono andare all’associazione" omonima al partito Idv. Ora, "l’ordinanza del Tribunale di Roma non reca una siffatta affermazione", anzi dice che "il finanziamento pubblico va all’associazione IdV e il Tribunale di Roma non ha ritenuto illegittima tale condotta… circostanza di cui Veltri era a conoscenza": l’ordinanza l’ha prodotta lui al giudice di Monza. Dunque la notizia pubblicata dalGiornale "non è oggettivamente vera" e ha "leso la reputazione e l’immagine dell’on. Di Pietro", che va risarcito con 44 mila euro. Che, aggiunti agli altri risarcimenti, fanno 344 mila euro: quanto basta per comprare un’altra casa a spese della famiglia Berlusconi.

Da
il Fatto Quotidiano del 22 aprile

"Foreign Correspondent" - ABC - Australia



domenica 20 giugno 2010

Il Vaticano crocifigge Saramago - Paolo Flores d’Arcais



José Saramago ha lasciato l’isola di Lanzarote. La sua salma è stata trasferita in Portogallo, dove dopo la camera ardente verrà cremata. Una parte delle ceneri ritornerà nell’isola e sarà sepolta ai piedi di un ulivo. Mentre le agenzie battevano queste notizie, ne aggiungevano un’altra: al grande scrittore scomparso arrivava uno straordinario riconoscimento, l’attacco forsennato del quotidiano della Santa Sede, l’Osservatore Romano, talmente invasato nella pulsione dell’anatema da dare spurgo a una prosa sgangherata e sbilenca. Ma la carità cristiana, si sa, messa in mano alla Chiesa gerarchica può fare miracoli.

Gli uncini di Benedetto
Evidentemente i suoi libri devono aver colto nel vivo, se il foglio del Papa sente il bisogno di sproloquiare che “uncinata com’è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago non si fece mai mancare il sostegno di un semplicismo teologico sconfortante: se Dio è all’origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l’effetto di ogni causa”. Prescindendo dalla struttura sintattica di conio prepotentemente tedesco, colpisce quella “sua mente” descritta come “uncinata”, per l’assonanza hitleriana che il lapsus evoca con gioventù assai diverse da quella del grande scrittore, a parte che in italiano “una mente uncinata da una banalizzazione” o lo scrive un genio del “pulp” o te la segnano in blu in qualsiasi ginnasio. L’autore, o traduttore, del cristiano necrologio, vuole dire che il cervello di Saramago era destabilizzato dalla banalizzazione del sacro (vulgo: che era un pazzo o un coglione) o che con tale banalizzazione, coniugata col suo materialismo libertario, destabilizzava la fede dei lettori? Perché in quest’ultimo caso sarebbe un elogio.

La teologia
Del resto “lo sconfortante semplicismo teologico” che gli viene imputato riassume solo nella splendida forma narrativa del Vangelo secondo Gesù e del più recente Caino le antinomie della teodicea delle quali, malgrado secoli di sottigliezze teologiche e alpinismo sugli specchi, i dottori della Chiesa non sono mai riusciti a venire a capo. L’“house organ” del presunto Vicario di Cristo in terra fulmina lo scrittore per essersela presa con “un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza” ma dimentica la infinita bontà e/o giustizia che è la caratteristica di Dio incompatibile con l’onnipotenza, visti gli orrori di cui è albergo il “Suo” creato, incompatibilità da cui non ci si libera con il solito richiamo al passpartout del “mistero”, anzi delle “(di Dio) prerogative per così dire, che ben avrebbero potuto nascondere un mistero” . Segue il puro nonsense, razionalmente parlando, della conclusione: “Oltre che la divina infinità delle risposte per l’umana totalità delle domande”. Quanto al Vangelo secondo Gesù quello che manda fuori dai gangheri
L’Osservatore è che sia costruito utilizzando tutti i dati che la critica storica delle origini del cristianesimo considera da decenni acquisiti, da un Gesù che non si considerò mai il Cristo (eventualmente, per alcuni, al momento della croce) a una Maria di cui nulla sappiamo, se non che giudicava suo figlio “fuori di sé” (Marco, 3,21). E valorizzando tutte le contraddizioni della favola teologica realizzata nei secoli successivi, fino a Nicea e Calcedonia.

Anti-logica
Ma la logica non è il forte del quotidiano vaticano e neppure il rispetto dei fatti, visto che come botta finale rimprovera al grande scrittore che “un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perchè del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche”: esattamente quello che Saramago ha fatto, con il suo impegno inesauribile “dalla parte degli ultimi”, dei poveri, degli emarginati, che a chi pretende di predicare il Vangelo tutte le domeniche qualcosa dovrebbe pur ricordare.

(20 giugno 2010)

Leggi anche:
http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-mio-maestro-jose-saviano-ricorda-saramago/

http://temi.repubblica.it/micromega-online/saramago-l%e2%80%99uomo-che-chiamava-le-ingiustizie-per-nome/

Dalle intercettazioni a Pomigliano, un unico assalto alla Costituzione - Giuseppe Giulietti




Esiste un nesso tra la legge bavaglio e quello che sta accadendo a Pomigliano? Sì, esiste e consiste nel tentativo di mettere mano alla Costituzione, di rendere flessibile lo stato di diritto, di affermare una sorta di pensiero unico all'interno del quale si devono e si dovranno collocare maggioranze e opposizioni, di oggi e di domani.

Non contestiamo, e ci mancherebbe, il diritto di avere posizioni diverse sull'accordo, sul futuro dell'auto e di Pomigliano, sulla opportunità di istituire nuovi turni e persino di rendere più stringenti i controlli in materia di assenteismo, ma quello che proprio non possiamo accettare è che si voglia introdurre una sorta di sospensione del diritto di sciopero, e che su questo punto si voglia persino chiedere ai lavoratori di Pomigliano di votare sì a questa vergogna, aprendo la strada ad analoghi comportamenti in tutti i settori.

"Sarà una eccezione, non si ripeterà, sarà un caso isolato", hanno detto e ripetuto editorialisti pro-Fiat, politici di ogni schieramento, sindacalisti, lo hanno ripetuto tante volte da averci convinto che così non sarà e perché mai dovrebbe esserlo?

Perché non dovrebbe valere per altre aziende? Perché i ministri non dovrebbero sentirsi confortati a cannoneggiare senza tregua gli articoli della Costituzione che tutelano lo sciopero e persino il principio dell’utilità sociale della preminenza del bene pubblico sull'interesse privato?

Non scherziamo, a Pomigliano si sta giocando una partita che ci riguarda tutti e spiace davvero dover constatare che giornali e giornalisti sensibili alla lotta contro il tentativo di mettere loro il bavaglio,facciano finta di non vedere e di non capire cosa stia davvero accadendo da quelle parti.

Se una simile intesa fosse stata proposta al comitato di redazione di uno dei giornali o dei tg che stanno dando in testa a chi osa esprimere il più piccolo dissenso sulla bontà della intesa con la Fiat, le urla sarebbero salite sino al cielo, gli appelli si sarebbero sprecati, ma gli operai non suscitano emozione e si possono oscurare e imbavagliare senza tanti rimpianti, tanto non potranno mai diventare i futuri proprietari dei giornali, dei tg, delle radio.

Per queste ragioni l'associazione articolo 21 ha lanciato una
raccolta di firme almeno per far sentire che esistono ancora cittadine e cittadini che non vogliono vedersi sottratti i diritti costituzionali e che odiano non solo il bavaglio che si vuole mettere a loro, ma anche quello che si vuole mettere agli altri, operai, impiegati e precari che siano.

Chi lo condividesse ci dia una mano e farlo girare e farlo firmare.

Giuseppe Giulietti

(20 giugno 2010)


Il Paese capovolto - Antonio Padellaro



20 giugno 2010
L’altro giorno, a Barcellona per presentare il Fatto, osserviamo sulle prime pagine di tutti i giornali catalani grandi foto con l’arresto di Fèlix Millet, ex direttore del Palazzo della Musica accusato di appropriazione indebita e traffico di influenza. Sembra incredibile ma nella civilissima Spagna nessun garante della privacy interviene per rampognare la stampa se pubblica immagini di illustri personaggi condotti in prigione. Quanto al traffico di influenza, (chi forte di un ruolo pubblico riceve denaro o altre utilità per esercitare il suo potere) si tratta di un reato previsto dalla Convenzione europea firmata dall’Italia nel 1999 e mai ratificata. Tornati in patria affrontiamo, come in un cupo racconto diPhilip K. Dick la realtà capovolta.

Laddove domina la legge dei disonesti abbiamo un imputato (Brancher) promosso ministro per sottrarlo al legittimo processo in forza di una delle numerose norme vergogna. Abbiamo famosi stilisti (Dolce e Gabbana) sotto inchiesta per truffa allo Stato a cui il sindaco di Milano (Moratti) concede, gratis, la sede del Comune per un party privato. Abbiamo l’avvocato di Berlusconi (Ghedini) che pretende dal ministro di Berlusconi (Alfano) un’azione disciplinare contro un pm che ha osato convocarlo. Nel Paese capovolto, sulla cosiddetta grande stampa non troverete traccia della festa gentilmente offerta da donna Letizia (sparse nelle pagine interne le notizie su Brancher e Ghedini). Solo l’Avvenire si accorge che la corruzione sta divorando il paese e che “il sospetto del conflitto d’interessi è più diffuso di quanto si pensi”. Il giornale della Cei ne ricava che “Il Paese ha la febbre”. No, cari colleghi, il Paese è in agonia.

da Il Fatto Quotidiano del 20 giugno 2010

La zona d'ombra di Schifani - Marco Lillo



20 giugno 2010
Il presidente del Senato aveva chiesto 1.750.000 euro a Travaglio, che invece dovrà risarcirne solo 16mila per la battuta sulla "muffa". La sentenza: dovere del cronista chiedere dei legami mafiosi

Non è facile trovare una
sentenza piena di soddisfazioni per il soccombente come quella emessa contro Marco Travaglio. Non tanto perchéRenato Schifani, chiedeva 1 milione e 750 mila euro e ne ha avuti “solo” 16 mila ma perché Travaglio si è visto riconoscere di avere svolto correttamente la sua funzione in una delle vertenze più dure tra Palazzo e stampa. La vicenda è nota: nel 2008 Travaglio aveva ricordato in due articoli su l’Unità e poi in televisione a Che tempo che fa e a Crozza Italia i rapporti societari di 30 anni prima tra Schifani e soggetti che – molti anni dopo le loro cointeressenze – saranno condannati per mafia. Travaglio aveva rotto il clima di pacificazione che regnava all’inizio del governo Berlusconi quando nessuno chiamava Papi il Cavaliere e da sinistra si scrivevano libri per incensare “Lo Statista” di Arcore. Subito dopo aver ricordato che la verità non risente del clima politico e non va in prescrizione era stato sommerso da una valanga di critiche e veleni. La sentenza del Tribunale di Torino suona come una promozione per lui e una condanna per buona parte della nostra categoria. Il giudice Lorenzo Audisio il primo giugno scorso ha condannato Travaglio solo per avere ironizzato sulla parabola a precipizio della presidenza del Senato. Per le battute sulla muffa e il lombrico (terminali possibili della parabola discendente) Travaglio è stato condannato a pagare 16 mila euro di danni.

Mentre su tutto il resto, è stato promosso a pieni voti. Sui rapporti passati con soggetti poi condannati per mafia, per il giudice “non si può dubitare dell’interesse pubblico alla conoscenza di ogni avvenimento professionale inerente Renato Schifani che, notoriamente, ricopre attualmente la seconda carica istituzionale dello Stato”. Dopo avere lodato “la correttezza dell’esposizione narrativa” il giudice passa a interessarsi del nocciolo della questione. È vero quello che Travaglio dice sui rapporti societari di Schifani? E soprattutto è lecito scriverne e parlarne in tv?

La risposta è un doppio sì. “Quanto alla verità dei fatti narrati”, scrive il giudice, “deve osservarsi che Schifani non contesta di aver partecipato alla società Sicula Brokers… e non contesta neppure che ne facessero parte all’epoca della propria partecipazione
Nino Mandalà, Benedetto D’Agostino e Giuseppe Lombardo” (i primi due arrestati per mafia una ventina di anni dopo la creazione della società nel 1978 con Schifani, il terzo amministratore delle società dei cugini Salvo). Schifani contestava a Travaglio di avere “volutamente dimenticato di ricordare gli altri soci , mai toccati da inchieste giudiziarie”. Su questo punto il giudice dà una lezione alla seconda carica dello Stato: “Le associazioni di tipo mafioso riescono a realizzare il controllo del territorio attraverso l’inserimento di propri associati, o di fiduciari, nelle attività economiche legali, così realizzando una sistematica attività di infiltrazione nel sistema imprenditoriale. Tale circostanza, – insiste il giudice –, non è solo ampiamente nota ma non è neppure ignorabile da soggetti nati e operanti da sempre in quel medesimo contesto territoriale. Conseguentemente – infierisce il giudice – a maggior ragione deve chiedersi a chi ricopre incarichi pubblici l’assenza di zone d’ombra nella propria storia professionale o, per lo meno, una rivisitazione critica di eventuali inconsapevoli contatti avvenuti in passato con soggetti oggetto di indagini giudiziarie anche successive, che ne hanno dimostrato l’inserimento (o quanto meno la contiguità) in organizzazioni criminali operanti in un territorio identificabile quale proprio bacino elettorale”. Quindi non è solo corretto ma è un obbligo per un giornalista ricordare ai lettori e ai telespettatori i vecchi rapporti societari del presidente del Senato, eletto in Sicilia. Anzi, per il giudice, sarebbe doverosa da parte del presidente una rivisitazione critica di questi rapporti, che a parte Travaglio e il Fatto, in pochi hanno chiesto. Pertanto, quando Travaglio afferma che “se uno evitasse di mettersi in affari con gente di mafia, la lotta alla mafia riuscirebbe meglio” sta compiendo “puro esercizio del diritto di critica”. Travaglio, secondo il giudice, non ha fatto nulla di male neanche a sostenere “l’indegnità di Schifani a ricoprire la seconda carica dello Stato per via delle sue passate e appurate frequentazioni (che sono un fatto)”.

Pertanto il Tribunale rigetta la domanda di Schifani sul punto e lo stesso fa per le doglianze su Crozza Italia dove Travaglio aveva espresso “un’opinione su fatti corrispondenti a verità”. Resta Che tempo che fa. Nella trasmissione di Fazio, Travaglio aveva ironizzato: “Una volta avevamo De Gasperi, Einaudi, De Nicola, Merzagora, Parri, Pertini, Nenni... cioè uno vede tutta la trafila e poi arriva e vede Schifani... mi domando chi sarà quello dopo in questa parabola a precipizio, cioè dopo c’è solo la muffa, probabilmente, il lombrico come forma di vita, dalla muffa si ricava la penicillina tra l’altro e quindi era un esempio sbagliato”. L’intervento poi proseguiva chiedendo ai politici di sinistra di “chiedere alla seconda carica dello Stato di spiegare quei rapporti con signori che sono stati poi condannati per mafia”. Il giudice non contesta “la parabola a precipizio della politica” ma ritiene “attacchi personali nei confronti dell’attore in quanto rivolte alla sua persona e non a fatti oggetto di interesse pubblico che sconfinano nella contumelia” le parole che seguono sulla muffa e il lombrico. Per il giudice “è evidente che i riferimenti alla muffa e al lombrico attengono esclusivamente all’uomo Schifani”. Pertanto Travaglio va condannato ma solo “in relazione a tale parte dell’intervento”. I difensori di Schifani sono soddisfatti perché “i giudici hanno riscontrato la diffamazione” e confermano che “l’importo del risarcimento sarà devoluto interamente in beneficenza”. Caterina Malavenda, difensore di Travaglio replica: “Pur prendendo atto della condanna per ‘abuso di satira’ esprimo soddisfazione per l’integrale accoglimento nel resto delle ragioni di Travaglio al quale è stato riconosciuto il corretto esercizio del diritto di cronaca e di critica”.

da Il
Fatto Quotidiano del 20 giugno 2010