domenica 5 dicembre 2010

Pd, prove di rivolta generazionale. - di Peter Gomez.




Per ora è solo un venticello. Poco più di un refolo che comincia a spirare gelido da nord. Eppure il tentativo di rottamazione della vecchia e inefficiente classe dirigente del Pd lanciato, sulle orme diMatteo Renzi, Pippo Civati e Debora Serracchiani, da 130 sindaci e responsabili del partito in Lombardia, è l’unica carta in mano al centro-sinistra per sperare di poter tornare un giorno al governo del Paese.

Mentre a Roma i borontocratosauri della nomenklatura democratica dialogano con i teorici avversari del neonato terzo polo nella speranza di far fuori (politicamente) l’ormai imbarazzante settantaquattrenne Silvio Berlusconi, in periferia quella che un tempo si chiamava la base raccoglie le firme per far fuori la propria dirigenza.

All’ombra della Madonina, come ci racconta Davide Vecchi, la direzione regionale e provinciale del partito di Bersani voterà una petizione che contiene due richieste: rendere obbligatorie le primarie nella scelta dei candidati (o meglio nominati) a un posto di deputato o senatore; impedire a chiunque di fare il parlamentare per più di due legislature. Documenti analoghi circolano pure in Liguria ed Emilia Romagna. In altre regioni (Toscana e Friuli Venezia) ordini del giorno di questo tipo sono già stati approvati. E non c’è circolo del Pd dove l’idea non trovi un buon seguito.

Solo la direzione nazionale non ci sente. Poco male. Se l’iniziativa, cosa tutt’altro che improbabile, prende piede i Bersani, i D’Alema, i Veltroni, i Fassino e le tante altre facce stanche e perdenti che da vent’anni governano (con scarso successo) il centro-sinistra, dovranno fare i conti con una salutare rivolta generazionale. Salutare per il centrosinistra e per il Paese.

I sondaggi e sopratutto gli umori dei cittadini, del resto, parlano chiaro. Sebbene Berlusconi si sia ormai rivelato agli occhi della maggioranza degli italiani per quello che è (il peggior premier del dopo guerra) il Pd non avanza di un passo. Anzi continua a perdere consensi. E se mai riuscisse a superare i berluscones (fatto improbabile) ciò accadrà solo perché il Popolo delle Libertà ha perso più voti di lui. La corsa, insomma, è al ribasso.

Di possibilità che la situazione cambi da sola non ce ne sono. Certo, l’esecutivo Pdl-Lega tra poco cadrà (forse già il 14 dicembre). Ma se si guarda al dopo diventa evidente come la prospettiva di questo centro-sinistra sia solo quella di essere ancora sconfitto. Anche Bersani lo sa. Per questo ha tanta paura delle elezioni. E ne avrà ancor di più se la chiamata alle urne dovesse giungere tra un anno, un anno mezzo, dopo mesi e mesi di un sempre più probabile governo tecnico sostenuto pure dai suoi uomini.

Le cose cambiano, e di molto, se invece si pensa a un partito che affronta l’appuntamento con il voto (in qualunque momento arrivi) dopo aver rinnovato almeno l’80 per cento delle sue candidature. Se si guarda a un Pd che viene costretto, dai suoi circoli, a non ripresentare gente che occupa la Camera e il Senato da tempi immemorabili (le famose eccezioni alla regola dei tre mandati). E che, come aspirante squadra di governo, mette in campo volti e storie di persone diverse. Uomini e donne che magari hanno ben meritato nel mondo del lavoro o come amministratori locali (ce ne sono molti più di quanto non si creda).

In questo caso il Pd può vincere. Può recuperare un pezzo importate di coloro i quali hanno deciso di non andare più a votare. E sopratutto può sperare di convincere anche i suoi avversari a rinnovare la propria classe dirigente. Ovvio, se tutto questo accadrà, non sarà indolore.

È illusorio pensare che l’attuale classe dirigente di quel partito (e di tutti gli altri partiti) si faccia da parte da sola. È formata da persone rotte a ogni esperienza, di consumata astuzia, d’incomparabile cinismo politico. E, oltretutto, come ogni oligarchia, è ricchissima: la legge sui rimborsi elettorali ha infatti finito per ricoprire d’oro le un tempo povere tesorerie dei movimenti politici. Le manca però una cosa: il consenso.

Per questo gli iscritti al Pd hanno oggi il dovere di andarselo a prendere da soli quel consenso. Cominciando davvero a far la guerra a chi in questi anni lo ha delapidato. La strada è ripida e in salita. Ma non ce ne sono altre.



Rottamazione continua.

Dal Pd lombardo parte l'offensiva su Roma: primarie per ogni parlamentare e limite di due mandati

Primarie per tutti i candidati parlamentari del Partito Democratico e limite di due mandati consecutivi. Quando lo proposero Giuseppe Civati e Matteo Renzi furono coperti di insulti dai vertici del Pd. Ma l’idea si è insinuata nella base, è maturata e adesso da Milano parte la rottamazione: un gruppo di oltre centotrenta tra sindaci e responsabili locali del partito hanno messo nero su bianco la proposta e la voteranno alla direzione provinciale e regionale. Dove sarà approvata facilmente, perché deputati e senatori sono in minoranza e raramente partecipano alle riunioni.

Al provinciale milanese, ad esempio, dei circa 150 esponenti territoriali almeno ottanta hanno firmato la petizione e i parlamentari che potrebbero votare contro sono meno di quaranta. Dalla Lombardia l’iniziativa si è già diffusa in Liguria ed Emilia Romagna. In Toscana le primarie per i parlamentari sono già previste nello statuto regionale del partito, che però la direzione nazionale non ha mai approvato, mentre in Friuli Venezia Giulia un ordine del giorno impegna i vertici del Pd locali a introdurre le primarie per i candidati di Montecitorio e Palazzo Madama entro i 15 giorni successivi dallo scioglimento delle Camere. Anche in Puglia il segretario regionale Sergio Blasi è pronto ad avviare il percorso.

Obiettivo condiviso è quello di non permettere più alla direzione nazionale di preparare le liste a tavolino e imporle. “Si sta diffondendo una coscienza critica nel partito stesso”, commenta Civati, tra i primi firmatari della petizione lombarda. “Tutti devono sottoporsi alle primarie. Quando lo proponemmo io e Renzi – ricorda – ci diedero degli stronzi, ora però si può realizzare e l’importante è questo: che si avvii il meccanismo, poi se il limite dei mandati viene fissato a due o tre non importa, ciò che conta è il principio”.

Principio che preoccupa non poco Roma. Tanto che lunedì scorso dagli uffici di Pierluigi Bersanisono partite due telefonate dirette a Maurizio Martina e Roberto Cornelli, rispettivamente segretario regionale e provinciale del Pd, per suggerire loro di non sostenere in alcun modo l’iniziativa. E così finora è stato. “Quando sarà il momento ne discuteremo”, ribatte Martina. Insistiamo: che ne pensa? “Sicuramente bisognerà individuare un meccanismo che garantisca una larga partecipazione alla costruzione delle liste, ma non adesso”. Cornelli, invece, pubblicamente ha parlato di una “idea legittima” ma ieri durante l’assemblea provinciale ha distrutto l’iniziativa. “È uno strumento populista e non ci perdo neanche dieci secondi”. A chi gli ha ricordato che da solo non decide niente, è sbottato: “Le liste le stabilisce il partito nazionale e a Milano non possiamo andare contro il partito nazionale”. Esattamente l’opposto di quello previsto nella petizione: avanti a prescindere. Cornelli ha ripiegato proponendo di “attivare una commissione che elabori una proposta da inviare a Roma”. Ma non basta e non basterà.

Martina e Cornelli sono considerati responsabili, con altri dirigenti locali, della sconfitta di Stefano Boeri alle primarie di coalizione per il candidato sindaco di Milano vinte da Giuliano Pisapia. E che le loro dimissioni siano state respinte ha ulteriormente inasprito gli animi. “Siamo ancora lì a elaborare il lutto”, dichiara uno dei giovani emergenti cittadini del Pd, Pietro Bussolati. “Serve vitalità, dobbiamo svegliare il partito e tutti noi ci aspettiamo che i leader prendano decisioni nette e precise a prescindere da Roma” perché “Milano deve uscire dall’angolo e serve coraggio”. Da qui “deve partire il segnale di rinnovamento per tutta Italia e per il Pd”, aggiunge Civati. Fiduciosa che il progetto si realizzi Debora Serracchiani. L’eurodeputata è anche segretario regionale del partito in Friuli Venezia Giulia. “Nel Pd ci sono più forze fresche di quel che si vede in Tv o si legge sui giornali”, dice. “È per questo che, anche se ora sembra dura, io ho fiducia. Da noi si discute e si litiga ma, a parte qualcuno che ha sbagliato strada dall’inizio, il Partito democratico non è in discussione, anzi è ben vivo”.

In discussione semmai sono gli attuali vertici. Che potrebbero essere azzerati. Se venisse introdotto il limite dei due mandati, pochi degli attuali parlamentari potrebbero candidarsi. Nella sola Lombardia ben 25 rimarrebbero esclusi. Barbara Pollastrini, Gerardo D’Ambrosio, Roberto Zaccaria, Enrico Letta, tra gli altri. “La rottamazione ha inizio e a volerla è la base”, Civati docet.


sabato 4 dicembre 2010

Un Articolo21-bis per Internet. - di Stefano Rodotà.




Perché proporre una modifica della Costituzione che sancisca il diritto di accedere a Internet? E’ davvero necessario muoversi in questa direzione? E’ una astuta operazione di marketing sollecitata da Wired? E’ una mossa inutile, poiché già le norme costituzionali vigenti comprendono questa ipotesi, come fa l’art. 21 parlando del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione? E’ una mossa inutile, perché già l’art. 53 del Codice delle comunicazioni elettroniche comprende il servizio universale? E’ una proposta riduttiva, considerando solo il digital divide? E’ una iniziativa pericolosa, perché mette le mani proprio su quella prima parte della Costituzione che si vuole difendere da ogni attacco?

Domande tutte legittime, e che aiutano a chiarire meglio il senso dell’iniziativa. Ricordo anzitutto che il tema è ormai al centro di una attenzione davvero planetaria. Diversi paesi hanno già dato riconosciuto il diritto di accedere a Internet come diritto fondamentale della persona con una varietà di strumenti - costituzioni (Estonia, Grecia, Ecuador), decisioni di organi costituzionali (Conseil Constitutionnel, Francia), legislazione ordinaria (Finlandia) -; il piano Obama contiene una significativa reinterpretazione del servizio universale; l’Unione europea e il Consiglio d’Europa si sono già espressi in questo senso; proprio in questo momento se ne discute intensamente in rete. Si potrebbe continuare, ma queste citazioni bastano per smentire la tesi che l’iniziativa italiana sia solo una operazione di facciata o di marketing. E’, invece, la via per connettere la discussione italiana con quella globale.
Il fatto, poi, che in Italia si possa già fare riferimento a norme costituzionali o ordinarie non è considerazione di per sè risolutiva. Al contrario, abbiamo assistito e continuiamo ad assistere a continue incursioni che considerano Internet come un territorio dove si possano mettere impunemente le mani, nella sostanza negando proprio che si tratti di materia già accompagnata da una adeguata copertura costituzionale. Se la proposta di un articolo aggiuntivo spingerà ad una reinterpretazione dell’art. 21 e ad una estensione della garanzia costituzionale, non sarà un risultato da poco.
Toccare la Costituzione? Bisogna intendersi. Quando si è modificato l’art. 51, per promuovere le pari opportunità tra donne e uomini, nessuno ha manifestato preoccupazioni, perché in questo modo si sviluppava la logica propria della prima parte della Costituzione. Esattamente il contrario delle pericolose iniziative che vorrebbero cancellare il riferimento al lavoro dall’art. 1, liberare il mercato dall’obbligo di rispettare sicurezza, libertà, dignità, e simili regressioni culturali e civili. La proposta di un art. 21-bis, invece, va proprio nella direzione di ribadire e espandere i principi costituzionali riguardanti l’eguaglianza e la libera costruzione della personalità. Non a caso alcune espressioni vengono dritte dall’art. 3.
Non solo una proposta sul digital divide, dunque. Anzi, l’apertura verso un diritto ad Internet rafforza indirettamente, ma in modo evidente, il principio di neutralità della rete e la considerazione della conoscenza in rete come bene comune, al quale deve essere garantito l’accesso. Per questo è necessario affermare una responsabilità pubblica nel garantire quella che deve ormai essere considerata una precondizione della cittadinanza, dunque della stessa democrazia. E, in questo modo, si fa emergere anche l’inammissibilità di iniziative censorie.
Proprio per indirizzare la discussione pubblica in questa direzione è necessario mettere sul tavolo carte adeguate. Solo se cresce la consapevolezza che siamo di fronte ad un diritto fondamentale della persona è possibile contrastare le logiche securitarie e mercantili che restringono il diritto a Internet. I decreti Pisanu e Romani, la pretesa dell’Agicom di regolare in via amministrativa e restrittiva l’essenziale questione del diritto d’autore hanno a loro fondamento una cultura che ritiene che le materie legate a Internet non siano accompagnate da garanzie adeguate, smentendo così nei fatti la tesi che le norme già esistenti offrano tutte le necessarie tutele. Un dialogo tra le norme esistenti e una loro formale estensione al mondo della rete farebbe avanzare nel suo insieme tutto il fronte dei diritti.
Quel che serve, allora, è una modifica dell’agenda politica in questa fondamentale materia. La proposta di una innovazione costituzionale va in questa direzione. E non costituisce una rinuncia alla più generale prospettiva di un Internet Bill of Rights, di una Costituzione per Internet. Chi ha seguito questa discussione, chi ha acquisito la consapevolezza che Internet promuove una logica costituzionale nuova, sa che si è entrati in una dimensione dove si intrecciano soggetti, livelli e tempi diversi. La garanzia dei diritti in rete non nasce né da un solo luogo, né da una sola iniziativa. E’, e soprattutto sarà, l’esito di un processo continuo, forse ininterrotto, alimentato da molteplici attori, con modalità diverse anche se convergenti verso lo stesso obiettivo. Un modo per essere coerenti con la natura della rete, e esaltarne la ricchezza.

"Condividiamo la riflessione e l'iniziativa di Stefano Rodotà ed è per questo che a partire dalla giornata di oggi cominceremo una raccolta di firme sul nostro giornale on line a sostegno della proposta di integrazione dell'articolo 21 della Costituzione perchè siamo convinti che in un Paese tra l'altro inquinato dal conflitto di interesse la libertà della rete, alla pari di quella degli altri media deve essere un principio garantito costituzionalmente". Lo affermano Stefano Corradino e Giuseppe Giulietti, direttore e portavoce di Articolo21.

La libertà di stampa dopo wikileaks - di Stefano Corradino*

http://www.articolo21.org/2183/notizia/un-articolo21bis-per-internet-.html


Governo, Verdini: “Delle prerogative del Capo dello Stato ce ne freghiamo”


Bocchino: "Confermato disprezzo del Pdl di ogni regola". Poi il coordinatore smentisce: "Intendevo politicamente, non volevo mancare di rispetto"

L’ex repubblicano Denis Verdini per rispondere al Capo dello Stato rispolvera il fascistissimo motto “Me ne frego”. Il coordinatore del Pdl, infatti, ha così ribattuto a Giorgio Napolitano che, dopo una giornata trascorsa ad assistere dal Colle a un botta e riposta a distanza tra Fini e Berlusconi sugli scenari del dopo 14 dicembre, si è visto costretto a intervenire: “La polemica non oscuri le prerogative del capo dello Stato”. E Verdini ha commentato: “Noi sappiamo che le ha ma ce ne freghiamo”. Mai prima d’ora la maggioranza aveva ribattutto con toni così duri al Quirinale. La settimana di sospensione dei lavori del Parlamento si annuncia carica di nervosismo e scontri frontali. Contro tutto e tutti, Napolitano compreso.

Verdini dunque ha solo aperto le danze. Dal palco di un comizio a favore del Governo a Prato è sbottato, fra gli applausi dei presenti: “Noi sappiamo che in caso di caduta del Governo il Capo dello Stato ha le sue prerogative”, ha detto. “Lo sappiamo benissimo che funziona così. Ciò che non sappiamo e non vogliamo capire, e che non ci piace per niente, è che il Capo dello Stato, nelle sue prerogative, possa pensare che per risolvere i problemi di questo Paese si mandi a casa chi ha vinto le elezioni, Berlusconi e Bossi, e si mandi al governo chi le ha perse, Casini e Bersani. E su questo si innesca una polemica perché noi andiamo a toccare le prerogative del capo dello Stato. Noi sappiamo che le ha ma ce ne freghiamo, cioè politicamente riteniamo che non possa accadere questo. Anche i partiti hanno le loro prerogative. Ricordate che dal 1994 da quando c’è questo sistema, nessun Capo dello Stato si è mai sognato di affidare il Governo a qualcuno di diverso da chi aveva vinto le elezioni, fosse questi Prodi o Berlusconi. L’incarico lo ha dato a chi le elezioni le ha vinte. Voglio vedere: come fa se cade il Governo a dare l’incarico a chi le elezioni le ha perse?”.

Napolitano si era visto costretto ad intervenire a seguito di alcune dichiarazioni di Gianfranco Fini. Il presidente della Camera, nel pomeriggio, ribattendo a Berlusconi che aveva detto che il terzo Polo non esiste, ha sottolineato che “governare non vuol dire comandare”, concludendo con una frase sibillina: “Il Capo dello Stato sa cosa fare”. Napolitano si è limitato a ricordare il rispetto per le prerogative che la Costituzione attribuisce al Colle, quindi rivolgendosi al leader di Fli più che al Governo. Ma Verdini è partito all’attacco. “Noi ce ne freghiamo”.

Immediate le reazioni. Per Italo Bocchino, capogruppo alla Camera di Fli, “la dichiarazione di Verdini conferma l’assoluto disprezzo del Pdl per ogni regola, ed è ancor più grave perchè è relativa alle prerogative che la Costituzione attribuisce al Capo dello Stato”. Aggiunge Silvano Moffa di Fli: “In un momento così delicato della vita politica del Paese, è assurdo che esponenti politici perdano il senso delle istituzioni dimenticando il ruolo fondamentale rappresentato dal Capo dello Stato, il quale non può essere esposto a offese gratuite, nè condizionato da interessi di parte”. Per Leoluca Orlando, portavoce dell’Italia dei Valori, “da Verdini arriva uno schiaffo alla Carta e un vocabolario nonché un atteggiamento di stampo fascista. Verdini – aggiunge – è l’emblema di questa classe politica arrogante e indegna: se ne vadano tutti a casa”.

Dal Partito Democratico arriva la nota del segretario, Pierluigi Bersani. “Le parole di Verdini sono vergognose e di una gravità inaudita. La smentita è peggio delle affermazioni precedenti. La squadra di Berlusconi sta perdendo la testa. L’Italia deve uscire al più presto da questa situazione”. Ed Enrico Letta ha aggiunto: “Il Pdl smentisca senza se e senza ma le parole di Verdini, che costituiscono una grave rottura dell’equilibrio istituzionale in un momento così delicato, e tenga presente che la situazione è ancora nei binari istituzionali solo grazie all’azione del presidente Napolitano. E che questa azione, sempre svolta nell’interesse del Paese, sarà determinante per la gestione della crisi che la testardaggine di Berlusconi renderà inevitabile dopo il 14 dicembre”. E la smentita è arrivata direttamente da Verdini.

La nota arriva dopo le 22. “Poiché assistiamo al solito gioco di strumentalizzare e sintetizzare fino all’estremo parole pronunciate all’interno di un lungo e articolato discorso, estrapolandone solo alcune fino al punto da distorcerne il senso, intendo chiarire quanto segue a beneficio dei giornalisti e di chi, come il solerte Bocchino, ha già cominciato a stracciarsi le vesti: non ho mai né pensato, né a maggior ragione detto che noi ce ne freghiamo delle prerogative del capo dello Stato”, scrive Denis Verdini. “Ho spiegato che ce ne ‘freghiamo politicamentè, nel senso che se la Costituzione riconosce al Presidente della Repubblica il diritto di seguire il percorso che ritiene più giusto, altrettanto la Carta suprema riconosce ai partiti, che nello specifico hanno il diritto di chiedere, anche a gran voce, di non escludere da un eventuale governo chi ha stravinto le elezioni. Ciò ho detto e ribadisco – conclude – senza mai aver avuto l’intenzione di mancare di rispetto al capo dello Stato nè di disconoscerne le sue prerogative”.



venerdì 3 dicembre 2010

I Gronchi rosa di Maroni.


di Saverio Lodato - 24 novembre 2010


Ministro Maroni, saremo sinceri. Ci aspettavamo che parlasse di Vittorio Mangano, e non lo ha fatto. Ci aspettavamo che pronunciasse il nome di Marcello Dell’Utri, ma se ne è guardato bene. Ci aspettavamo che dimostrasse coraggio politico, spendendosi in un giudizio su Cosentino e la «banda Campana» del Pdl, ma si è tenuto assai alla larga. Doveva evocare, anche en passant, perché chi vuole intendere intenda, il binomio mafia-politica. Macché. Niente.

Niente di niente. E ora cosa vuole sentirsi dire? Chegliele ha cantate chiare? Che ha ristabilito di fronte a milioni di sudditi l’autorità del «suo» ministero degli interni? Insomma, vuol sapere se ci è piaciuto il suo «presepe»? No, non ci è piaciuto.
Si va a «Vieni via con me» per leggere elenchi di valori, di idealità.
Questo lo hanno capito tutti gli italiani. Lei ha fatto di tutto per andare a leggere un elenco di «atti dovuti», un elenco di «quote millesimali», come quelle che il ragioniere mette insieme, e sommando le quali, si ottiene l’identità di un condominio.
Ecco, se ci consente la semplificazione: sommando gli arresti che Lei ha puntigliosamente ricordato, sottraendoli da quelli che devono essere ancora eseguiti, e dividendo per il numero degli abitanti italiani, avremo l'identità di quel gigantesco condominio criminale rappresentato dalle Mafie nel nostro Paese. Macchinoso come approccio al fenomeno, non crede?
Così ci siamo convinti che ad animarla sia più la passione del «collezionista » che quella del politico riformatore.
Le mancano ancora un paio di «Gronchi rosa» (come Matteo Messina Denaro e Michele Zagaria), ma ci ha informati che presto faranno parte della collezione. Bene. Siamo con Lei. Ma un’ultima osservazione: non ha mai citato il governo del quale fa parte. È una stranezza del suo «presepe» che non ci è sfuggita. L’unica omissione che abbiamo apprezzato, capendo perfettamente da quale imbarazzo era dettata.



Verdini: "Le prerogative di Napolitano? Politicamente ce ne freghiamo"




ultimo aggiornamento: 03 dicembre, ore 21:34

Roma - (Adnkronos) - Il coordinatore del Pdl replica alla nota del Quirinale: "Sappiamo benissimo, ma non ci piace per niente che il capo dello Stato possa pensare che per risolvere i problemi di questo Paese si mandi a casa chi ha vinto le elezioni".

Roma, 3 dic. (Adnkronos) - Il capo dello Stato, in caso di crisi di Governo, ha le sue prerogative, ma anche i partiti hanno le loro. Lo ha detto il coordinatore del Pdl, Denis Verdini, in un passaggio del suo intervento all'assemblea regionale del Pdl a Prato. ''In caso di caduta del governo, il Capo dello Stato ha le sue prerogative - ha affermato Verdini -. Lo sappiamo benissimo che funziona cosi', cio' che non sappiamo e non vogliamo capire, e che non ci piace per niente, e' che il capo dello Stato, nelle sue prerogative, possa pensare che per risolvere i problemi di questo Paese si mandi a casa chi ha vinto le elezioni, Berlusconi e Bossi, e si mandi al governo chi le ha perse, Casini e Bersani. Su questo si innesca una polemica perche' noi andiamo a toccare le prerogative del Capo dello Stato. Noi sappiamo che le ha, ma ce ne freghiamo, cioe' politicamente riteniamo che non possa accadere questo'', perche' ''anche i partiti hanno le loro prerogative, cioe' mediare tra corpo elettorale e istituzioni''.

Verdini ha ricordato che ''dal 1994, da quando c'e' questo sistema, nessun Capo dello Stato si e' mai sognato di affidare il governo a qualcuno di diverso da chi aveva vinto le elezioni, fosse questi Prodi o Berlusconi. L'incarico lo ha dato a chi le elezioni le ha vinte: voglio vedere, come fa se cade il governo a dare l'incarico a chi le elzioni le ha perse?'', ha concluso il coordinatore nazionale del Pdl.




Rapporti Stato-Mafia, l’ex capo della Polizia De Gennaro querela Massimo Ciancimino.

Il figlio dell'ex sindaco di Palermo sulle stragi del 1992 ha indicato il nome dell'ex capo della polizia come personaggio "molto vicino" o "dell'ambiente" del "signor Franco-Carlo

“Ho dato incarico ai miei legali di sporgere formale denuncia di calunnia contro il Ciancimino“. Lo afferma, in una nota, il prefetto Gianni De Gennaro, a proposito delle dichiarazioni che avrebbe fatto Massimo Ciancimino. Il figlio dell’ex sindaco di Palermo che sta collaborando con i magistrati di Palermo e Caltanissetta nelle indagini sulla presunta trattativa fra Stato e mafia e sulle stragi del 1992 ha indicato il nome dell’ex capo della polizia come personaggio “molto vicino” o “dell’ambiente” del “signor Franco-Carlo”. De Gennaro sottolinea ancora: “Non mi lascero’ intimidire da quest’ennesimo attacco mafioso, così come non mi hanno mai fermato e intimidito i ripetuti attentati alla mia vita”.

Massimo Ciancimino sta raccontando ai magistrati i retroscena della trattativa tra Stato e mafia. Sarebbe stato proprio De Gennaro ad avallare il patto tra Cosa nostra e le istituzioni. Per anni, avrebbe protetto e garantito l’ex sindaco corleonese. Interrogato dai magistrati di Caltanissetta per specificare le sue affermazioni, rese di fronte a ufficiali di polizia giudiziaria, il superteste delle inchieste palermitane e nissene ha però fatto retromarcia. CIncimino attribuisce al padre, morto nel novembre 2002, informazioni, giudizi e valutazioni su De Gennaro. Punti di vista dell’ex politico Dc, insomma, da cui Ciancimino jr ha detto di prendere le distanze.

Nonostante il figlio di don Vito abbia sostenuto di essere stato equivocato e abbia precisato di avere saputo dal padre soltanto che De Gennaro sarebbe stato vicino al più anziano 007, i sostituti che lo interrogavano lo hanno incalzato sulla identità del signor Franco, a lungo da lui taciuta. Le risposte non sarebbero apparse convincenti e potrebbero ora costare a Ciancimino un’indagine per calunnia. I pm nisseni starebbero valutando l’ipotesi di iscriverlo nel registro degli indagati. La questione è stata al centro di una riunione congiunta tra le procure di Palermo, che pure indaga sulla trattativa e per cui Ciancimino è ormai un teste chiave in diverse inchieste, e Caltanissetta.

L’incontro tra i magistrati si è svolto alla Direzione Nazionale Antimafia. Secondo indiscrezioni, la dda palermitana avrebbe espresso perplessità sull’iscrizione di Ciancimino, sostenendo che si sarebbe limitato a riferire le parole del padre. Ciancimino, già condannato per il riciclaggio del tesoro dell’ex sindaco, è stato iscritto per concorso in associazione mafiosa, dai magistrati di Palermo mesi fa per il ruolo avuto nella trattativa. Lui stesso ha ammesso di avere, tra l’altro, fatto da ‘postino’ tra il padre e il boss Bernardo Provenzano.