Mentre a Roma i borontocratosauri della nomenklatura democratica dialogano con i teorici avversari del neonato terzo polo nella speranza di far fuori (politicamente) l’ormai imbarazzante settantaquattrenne Silvio Berlusconi, in periferia quella che un tempo si chiamava la base raccoglie le firme per far fuori la propria dirigenza.
All’ombra della Madonina, come ci racconta Davide Vecchi, la direzione regionale e provinciale del partito di Bersani voterà una petizione che contiene due richieste: rendere obbligatorie le primarie nella scelta dei candidati (o meglio nominati) a un posto di deputato o senatore; impedire a chiunque di fare il parlamentare per più di due legislature. Documenti analoghi circolano pure in Liguria ed Emilia Romagna. In altre regioni (Toscana e Friuli Venezia) ordini del giorno di questo tipo sono già stati approvati. E non c’è circolo del Pd dove l’idea non trovi un buon seguito.
Solo la direzione nazionale non ci sente. Poco male. Se l’iniziativa, cosa tutt’altro che improbabile, prende piede i Bersani, i D’Alema, i Veltroni, i Fassino e le tante altre facce stanche e perdenti che da vent’anni governano (con scarso successo) il centro-sinistra, dovranno fare i conti con una salutare rivolta generazionale. Salutare per il centrosinistra e per il Paese.
I sondaggi e sopratutto gli umori dei cittadini, del resto, parlano chiaro. Sebbene Berlusconi si sia ormai rivelato agli occhi della maggioranza degli italiani per quello che è (il peggior premier del dopo guerra) il Pd non avanza di un passo. Anzi continua a perdere consensi. E se mai riuscisse a superare i berluscones (fatto improbabile) ciò accadrà solo perché il Popolo delle Libertà ha perso più voti di lui. La corsa, insomma, è al ribasso.
Di possibilità che la situazione cambi da sola non ce ne sono. Certo, l’esecutivo Pdl-Lega tra poco cadrà (forse già il 14 dicembre). Ma se si guarda al dopo diventa evidente come la prospettiva di questo centro-sinistra sia solo quella di essere ancora sconfitto. Anche Bersani lo sa. Per questo ha tanta paura delle elezioni. E ne avrà ancor di più se la chiamata alle urne dovesse giungere tra un anno, un anno mezzo, dopo mesi e mesi di un sempre più probabile governo tecnico sostenuto pure dai suoi uomini.
Le cose cambiano, e di molto, se invece si pensa a un partito che affronta l’appuntamento con il voto (in qualunque momento arrivi) dopo aver rinnovato almeno l’80 per cento delle sue candidature. Se si guarda a un Pd che viene costretto, dai suoi circoli, a non ripresentare gente che occupa la Camera e il Senato da tempi immemorabili (le famose eccezioni alla regola dei tre mandati). E che, come aspirante squadra di governo, mette in campo volti e storie di persone diverse. Uomini e donne che magari hanno ben meritato nel mondo del lavoro o come amministratori locali (ce ne sono molti più di quanto non si creda).
In questo caso il Pd può vincere. Può recuperare un pezzo importate di coloro i quali hanno deciso di non andare più a votare. E sopratutto può sperare di convincere anche i suoi avversari a rinnovare la propria classe dirigente. Ovvio, se tutto questo accadrà, non sarà indolore.
È illusorio pensare che l’attuale classe dirigente di quel partito (e di tutti gli altri partiti) si faccia da parte da sola. È formata da persone rotte a ogni esperienza, di consumata astuzia, d’incomparabile cinismo politico. E, oltretutto, come ogni oligarchia, è ricchissima: la legge sui rimborsi elettorali ha infatti finito per ricoprire d’oro le un tempo povere tesorerie dei movimenti politici. Le manca però una cosa: il consenso.
Per questo gli iscritti al Pd hanno oggi il dovere di andarselo a prendere da soli quel consenso. Cominciando davvero a far la guerra a chi in questi anni lo ha delapidato. La strada è ripida e in salita. Ma non ce ne sono altre.