venerdì 25 febbraio 2011

Auto blu in Regione, Penati e altri tre rinunciano. Ma una delibera li indennizza. - di Davide Milosa

Il documento votato il gennaio scorso prevede che chi dice no all'autovettura di servizio ha diritto a un rimborso di circa 60mila euro lordi. Di più: la disposizione è retroattiva. L'ex presidente della Provincia è attualmente vice presidente del Consiglio regionale e anche consigliere provinciale

In Regione Lombardia la parola d’ordine è contenere i costi. Anche se, in certi casi, le strade della politica producono alcuni cortocircuiti istituzionali. Le auto blu in testa. Argomento delicatissimo sul fronte degli sprechi. Il benefit, in questo caso, spetta ai componenti dell’Ufficio di Presidenza. Tra loro c’è anche un uomo di punta del Partito democratico ed ex presidente della provincia come Filippo Penati. Il quale tempo fa ha dichiarato di voler rinunciare all’auto blu.

Ottimo. Peccato che, come capita spesso, cancellato, sulla carta, lo spreco rientri dalla finestra. E così arriviamo al 10 gennaio 2011. Data che fissa l’approvazione all’unanimità di una singolare delibera dell’ufficio di presidenza del Consiglio regionale, del quale fa parte lo stesso Penati. Il documento, infatti, prevede un strano passaggio. In sostanza il politico che rinuncia all’utilizzo dell’auto blu, ha diritto a “un trattamento indennitario”. Tradotto: denaro che gli rientra in tasca. Si legge “dell’opportunità di erogare, a fronte della minor spesa sostenuta dall’amministrazione consiliare, una somma di denaro correlata al 60% del totale del costo medio annuale”. Un costo medio che si aggira attorno agli 85mila euro, così suddivisi: 25mila per “acquisto e manutenzione di un’autovettura di rappresentanza e 61mila per lo stipendio di un’autista”.

E’ semplice algebra. Il risultato produce un bel tesoretto, circa 60mila euro, che ogni anno finisce in tasca a Filippo Penati. Anche perché, e il dato non appare irrilevante, la delibera è retrottativa perché, votata nel giugno scorso, diventa operativa a partire dall’undici maggio 2010. Ma Penati è in buona compagnia. Con lui anche il presidente del Consiglio regionale, il leghista Davide Boni, il quale a stretto giro di ruota dalla sua elezione ha pubblicamente rinunciato all’auto blu. Filippo Penati spiega: “In realtà questa delibera va a integrare una disposizione già esistente”. E dunque cosa cambia? “Abbiamo introdotto la tassazione”. Rifacendo i calcoli, “la cifra – prosegue Penati – si aggira sui 24mila euro”. Comunque una bella cifra. “Ma questo denaro lo impiego per pagare le spese dei miei spostamenti”. Quindi precisa: “Questa delibera comunque non è solo una mia decisione, nell’ufficio di presidenza ci sono altre persone”. Ma è anche vero che il documento è stato approvato all’unanimità. E comunque oltre a Penati, e Boni, anche altri due hanno rinunciato all’auto blu. Solo il quinto ha deciso di tenersi un benefit da 86mila euro l’anno.

Su Filippo Penati, però, pesa un altro impaccio: il doppio incarico reso tale dalla sua presenza in Consiglio provinciale. Anche qua sono i numeri a parlare. L’ex inquilino di palazzo Isimbardi, infatti, nel 2010 ha partecipato ad appena otto sedute di consiglio. Cifra che lo colloca come fanalino di coda dei vari consiglieri. Penultima la figlia del giornalista del Corriere della Sera ucciso dal terrorismo rosso il 28 maggio 1980, Benedetta Tobagi. Per lei, che si è dimessa di recente, l’asticella fissa quota nove.

Sul doppio incarico di Penati proprio ieri sono arrivate le critiche dell’Italia dei valori. “Tale comportamento – nota l’Idv – è poco consono al precetto dell’articolo 54 della Costituzione; ancor più riprovevole sarebbe mantenere un incarico istituzionale che non si è in grado di svolgere adeguatamente al solo fine di evitare il subentro di un candidato che medio tempore ha aderito a un partito della medesima coalizione”. Sul punto ha risposto subito Penati: “Credo sia doveroso restare nelle istituzioni anche quando si perde”. Dopodiché ha spiegato:”Il 2010 per me è stato un anno molto impegnativo. Per molti mesi sono stato completamente assorbito dalla campagna elettorale delle regionali, come candidato presidente, questo ricoprendo anche l’incarico di capo della segreteria politica di Bersani”. Nulla da dire. Resta solo un’ultima questione. Quel denaro che ufficialmente rientra nelle casse della Regione e che poi riesce sotto forma di indennità.



giovedì 24 febbraio 2011

L'Italia è il principale partner militare di Gheddafi.


Le armi italiane potrebbero fare strage in Libia: è ora di intervenire

La rivolta libica
La rivolta libica
Le armi fornite dall'Italia al Colonnello Gheddafi in questi ultimi anni (in particolare elicotteri e aeromobili, bombe, razzi e missili) sono forse state in prima linea nella sanguinosa repressione di questi giorni della popolazione civile libica, che sta protestando pacificamente contro il regime. Basterebbe questo a dare forza alla richiesta di sospensione di ogni forma di fornitura di armamenti e di cooperazione militare col governo libico che la Rete Italiana per il Disarmo (coordinamento che raccoglie oltre 30 organismi italiani impegnati sul tema del controllo degli armamenti) e la Tavola della Pace rivolgono in queste ore concitate e dolorose al Parlamento e al Governo italiano.

L’Italia è il principale fornitore di armi alla Libia: al regime di Tripoli sono stati vendute diverse tipologie di armamento (aerei e veicoli terrestri, sistemi missilistici e sistemi di protezione e sicurezza) per un mercato di 93 milioni di euro nel 2008 e 112 milioni nel 2009. Un vero e proprio boom degli ultimi due anni favorito dalla firma del “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia” avvenuta nel 2008.

"I funzionari di Governo italiani che abbiamo incontrato negli ultimi anni ci hanno sempre assicurato che le tipologie dei sistemi d’arma venduti in giro per il mondo non potevano essere usati per violare i diritti umani - dice Francesco Vignarca, coordinatore della Rete. Ma le notizie degli ultimi giorni ci dimostrano come le repressioni di piazza si possono condurre anche con raid aerei contro i manifestanti. Una notizia che, se poi si confermasse l'uso di armamenti made in Italy, darebbe ancora più valore a quanto diciamo da tempo: una buona parte dell'export militare italiano è contrario alla nostra legge (la 185 del 1990) perché non tiene conto come prescritto delle possibili violazioni di diritti umani e dei grandi squilibri sociali che tali acquisti, con il loro impatto milionario, inducono nei paesi compratori delle nostre armi”.

"Non riesco a sopportare l’idea che armi italiane stiano facendo strage di civili in Libia” ha dichiarato Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace. “Così come non posso sopportare l’idea che l’Italia continui a sostenere anche in queste ore il regime di Gheddafi. C’è da vergognarsi. Ci vuole un sussulto di dignità. Basta con il silenzio e le complicità dell’Italia. Questo è il momento di rompere con il passato. Noi chiediamo al Parlamento di compiere un gesto chiaro e immediato: imporre il blocco della vendita delle armi e la sospensione di ogni forma di cooperazione militare con la Libia e con i paesi che non rispettano il diritto di manifestare liberamente e pacificamente.”

Le richieste dei due organismi italiani si uniscono ad altre autorevoli voci che hanno già interpellato in merito il nostro Governo, come quella del Segretario Generale di Amnesty International Salil Shetty che ieri ha scritto al Presidente del Consiglio Berlusconi e ai ministri Frattini e Maroni chiedendo "la sospensione della fornitura di armi, munizioni e veicoli blindati alla Libia fino a quando non sarà cessato completamente il rischio di violazioni dei diritti umani".

Gli interessi italiani e in particolare di Finmeccanica (il cui secondo azionista è proprio la Lybian Investment Authority) hanno sicuramente frenato in questi giorni l'azione diplomatica dell'esecutivo italiano ed in particolare del Ministro degli Esteri, Franco Frattini. “Le possibili violazioni delle prescrizioni di legge (se si guarda alla sostanza delle questioni, non alla forma sicuramente rispettata) configurano un grosso problema etico e morale per il Governo Italiano – afferma Giorgio Beretta esperto di commercio di armi della Rete Italiana per il Disarmo - che non a caso è l'unico a non essersi espresso per una sospensione delle forniture militari come invece fatto nei giorni scorsi da Francia, Germania e Regno Unito nei confronti di diversi paesi della turbolenta area mediterranea tra cui la Libia.

Che il ministro degli Esteri italiano sia all’oscuro delle dichiarazioni dei suoi colleghi? O forse non sa che sia la legge italiana che la Posizione Comune dell’Unione europea sulle esportazioni di armamenti chiedono di accertare il rispetto dei diritti umani nel paese di destinazione finale e di rifiutare le esportazioni di armamenti qualora esista un rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possano essere utilizzate a fini di repressione interna?”.

In realtà non tutto il Governo italiano è inattivo in questi giorni: mentre la repressione del regime libico si abbatte sulla popolazione, con probabile uso di armamenti italiani, il nostro Ministro della Difesa Ignazio La Russa si trova ad Abu Dhabi per partecipare alla locale fiera di armamenti (Idex 2011), nella quale i nostri esponenti di governo puntano a far confermare la nostra industria militare tra quelle leader a livello mondiale. Come si fa a spacciare la vendita dei sistemi d'arma come un simbolo di “vitalità del nostro Paese che riesce a portare con successo, ovunque nel mondo, i frutti della propria inventiva e laboriosità”.

Tavola della Pace e Rete Italiana per il Disarmo hanno già chiesto nei giorni scorsi la cessazione di ogni sostegno politico-militare verso Algeria, Egitto e Tunisia e a maggior ragione vista la situazione attuale in Libia richiedono con forza al Governo e al Parlamento italiano, oltre al congelamento di ogni collaborazione sul piano commerciale-militare con il regime di Gheddafi un deciso orientamento a favore di una restrizione e maggior controllo dell’export bellico italiano per evitare l'uso di tali armi per la repressione del dissenso in qualsiasi teatro di conflitto mondiale.

*Rete Disarmo e Tavola della Pace



Il cigno nero. Come l'improbabile governa la nostra vita.




Trama del libro

Cosa pensarono gli europei quando, giunti in Australia, videro dei cigni neri dopo aver creduto per secoli, supportati dall'evidenza, che tutti i cigni fossero bianchi? Un singolo evento è sufficiente a invalidare un convincimento frutto di un'esperienza millenaria. Ci ripetono che il futuro è prevedibile e i rischi controllabili, ma la storia non striscia, salta. I cigni neri sono eventi rari, di grandissimo impatto e prevedibili solo a posteriori, come l'invenzione della ruota, l'11 settembre, il crollo di Wall Street e il successo di Google. Sono all'origine di quasi ogni cosa, e spesso sono causati ed esasperati proprio dal loro essere imprevisti. Se il rischio di un attentato con voli di linea fosse stato concepibile il 10 settembre, le torri gemelle sarebbero ancora al loro posto. Se i modelli matematici fossero applicabili agli investimenti, non assisteremmo alle crisi degli hedge funds. Questo libro è dedicato ai cigni neri: cosa sono, come affrontarli, in che modo trame beneficio.

Recensione del libro

Che cos'è un Cigno nero? è un evento isolato e inaspettato, che ha un impatto enorme, e che solo a posteriori può essere spiegato e reso prevedibile. Nassim Nicholas Taleb, docente americano di Scienze dell'incertezza, e già autore del libro di successo Giocati dal caso, è convinto che manie, epidemie, mode, idee, nascita di generi e scuole artistiche, finanza, economia, tutte seguano la dinamica del Cigno nero. In pratica questo vale per tutto ciò che di importante succede intorno a noi. Secondo Taleb, nella vita individuale e privata, come in quella sociale e pubblica, noi agiamo come se fossimo in grado di prevedere gli eventi, da quelli sentimentali a quelli storici, a quelli naturali. Pensiamo ad esempio alla professione che abbiamo scelto, all'incontro con la nostra compagna o compagno, alla scelta di vivere all'estero, ad un improvviso arricchimento o impoverimento: quante di queste cose sono avvenute secondo i piani? E se prendiamo l'attacco dell'11 settembre 2001, lo tsunami del Pacifico nel 2004, l'ascesa di Hitler e la guerra che ne seguì, la rapida fine dell'Urss, o la diffusione di internet, ci accorgiamo che secondo la logica del Cigno nero quel che non sappiamo è molto più importante di quello che è noto. Molti Cigni neri sono causati e ingigantiti, nel bene e nel male, proprio dal fatto che sono imprevisti.
Taleb in questo saggio afferma, contro molte abitudini di pensiero, che il mondo è dominato da ciò che è estremo, sconosciuto e molto improbabile (secondo la nostra conoscenza attuale), mentre noi continuiamo a occuparci di aspetti secondari, a concentrarci su ciò che è conosciuto e ripetuto. Invece il Cigno nero, l'evento estremo, andrebbe utilizzato come punto di partenza, non come un'eccezione da nascondere sotto il tappeto. L'autore propone l'idea più audace, e più fastidiosa, che nonostante il progresso della nostra conoscenza, il futuro sarà sempre meno prevedibile e che quindi, per vivere nel mondo d'oggi, sia necessaria molta più immaginazione di quella di cui disponiamo.
Nella prima parte del libro Taleb illustra per lo più il modo distorto in cui percepiamo gli eventi, storici e attuali, e gli errori che facciamo quando nel sapere cerchiamo conferme e dimentichiamo la lezione dell'antibiblioteca di Umberto Eco: conta di più concentrarsi sui libri non letti e trattare la conoscenza come un'apertura all'improbabile, piuttosto che come un tesoro o uno strumento per aumentare la propria autostima. Taleb chiama questo tipo di "antistudioso", novello Socrate che sa di non sapere, che più avanza nell'età e più accumula libri non letti, "empirista scettico", perché non si fa imbrogliare dal platonismo di certe categorie astratte che vorrebbero imbrigliare la storia, ma si confronta con i salti eccentrici e col fatto che la realtà empirica non è né equilibrata, né ragionevole. La seconda parte del saggio, "Non possiamo proprio prevedere", riguarda gli errori che commettiamo quando abbiamo a che fare con il futuro e i limiti di alcune scienze che offrono "ancoraggi" a certe previsioni, anziché valutare certe idee in assoluto e nelle loro conseguenze reali. La terza parte, "I Cigni grigi dell'Estremistan", approfondisce l'argomento degli eventi estremi, spiega come viene generata la grande "frode intellettuale" della curva a campana di Gauss (la variabile casuale normale) e passa in rassegna le idee delle scienze naturali e sociali raccolte sotto l'etichetta di "complessità". Taleb in queste pagine cerca di spiegare come si può ridurre l'effetto sorpresa di un Cigno nero, sempre sovversivo, trasformandolo in Cigno grigio e facendosi quindi un'idea generale della possibilità che si verifichi. Il finale è all'insegna della saggezza pratica: l'autore ci invita a essere per metà iperscettici sulle conferme degli altri, e per metà aggressivi e sicuri laddove gli altri consigliano prudenza. E conclude ricordandoci che anche noi, nel nostro piccolo, siamo dei Cigni neri, unici e imprevedibili.

La trama del film.

Nina (Natalie Portman) è una ballerina di danza classica del New York City Ballett che ha studiato con sacrificio e dedizione assoluta, spinta anche dalle ambizioni della madre, ex ballerina che non è riuscita a “sfondare”nel mondo della danza. Il suo sogno nel cassetto è quello di ottenere il ruolo di prima ballerina del balletto “Il lago dei cigni”, opera del celebre Chajkosky. Durante i provini, la giovane sbaraglia tutte le pretendenti al ruolo, ottenendo la parte del “cigno bianco”. Ma dovrà interpretare anche il ruolo antitetico di “cigno nero”. Così ha deciso il regista e coreografo Thomas (Vincent Cassell), che come una sorta di “demiurgo” cercherà di far emergere il lato più oscuro e seducente della candida, incantevole e inibita Nina.
La dedizione smisurata della dolce ragazza, messa in campo per superare i propri blocchi emotivi e riuscire a recitare degnamente la parte di “cigno nero”, la condurranno verso il baratro del disordine della mente: allucinazioni, autopunizioni corporali, pensieri malati e delirio si impossesseranno della sua innocenza, spingendola fino al parossismo di una metamorfosi in “cigno nero”.
Un film da vedere, molto intenso e ipnotico, degnamente interpretato da Vincent Cassell, e con una incredibile Natalie Portman, che riesce ad incarnare un personaggio combattuto tra due essenze contrapposte.

La recensione del film.

Dopo aver suscitato apprezzamenti e riconoscimenti vari, questo fine settimana approda nelle sale italiane “Il cigno nero”. La pellicola - diretta dal regista di “the wrestler”, Darren Aronofsky - è un thriller psicologico in cui la continua lotta tra il bene e il male che alberga in ognuno di noi, viene magistralmente interpretata dalla incredibile Natalie Portman.
Non a caso, la bellissima attrice di origini israeliane, che ha già vinto il Golden Globecome migliore attrice di film drammatico, è stata candidata all'Oscar come migliore attrice protagonista, mentre il film ha ottenuto ben 5 candidature.

Per il libro:

Per il film:



mercoledì 23 febbraio 2011

TV OLANDESE: Berlusconi criminale come Gheddafi.



Olanda. 21 febbraio 2011. Nederland2, l'equivalente di RaiDue. Nel corso del programma di approfondimento "Nieuwsuur" viene intervistato il corrispondente da Londra Mohammed Ali Abdallah, del Fronte Nazionale di Liberazione della Libia(NFSL - National Front for the Salvation of Libya). Il conduttore non pare minimamente in disaccordo con quanto sostiene il libico, non lo ferma e non si dissocia.

Che in Libia ci siano caccia italiani a bombardare la gente o meno, che ci siano o meno mercenari italiani in giro a giocare al tiro a segno per le strade di Tripoli, resta il fatto che i baciamano, le dichiarazioni fuori luogo e prive di qualsiasi intelligenza politica, i ritardi nelle prese di posizione diplomatiche e la stima ostentata verso il leader di un regime tirannico fanno sì che per l'ennesima volta l'Italia venga considerata non solo il paese di pulcinella, ma addirittura collusa con le malversazioni criminali dei peggiori dittatori.

E' tempo di ricominciare una lunga e faticosa marcia che riporti il nostro paese verso uno standard minimale in quanto a dignità, rispetto e credibilità sulla scena internazionale. E prima di tutto in quella ben più importante del rispetto e dell'orgoglio che ogni cittadino deve a se stesso.

Ecco la trascrizione fedele di quello che si può sentire in una televisione europea.

Abdallah: Le ultime informazioni che arrivano dalla Libia oggi sono che decine di caccia hanno attaccato e bombardato Tripoli, le sue aree residenziali e quasi tutte quelle intorno. Ci sono rapporti che dicono che alcuni di questi caccia non sono caccia libici. Alcuni rapporti che non possiamo confermare dicono che ci sono anche caccia italiani a bombardare Tripoli. Ci sono due piloti dell'aeronautica che si sono rifiutati di eseguire gli ordini di Gheddafi di bombardare, e sono scappati a Malta, sono atterrati a Malta e hanno chiesto asilo politico. Ci sono anche molti rapporti che migliaia di mercenari dai paesi africani, come molte milizie dalla Tunisia, così come molti riportano di mercenari italiani che girano nelle strade di Tripoli, in molte aree [ndr: elenco delle aree locali], e questi mercenari camminano per le strade, alcuni di loro in auto, fino a 4 persone per macchina, macchine civili, e sparano a casaccio sui civili. Ci sono centinaia e centinaia di conferme, queste sono le ultime notizie che abbiamo, così come di almeno 250 corpi che sono stati trasportati negli ospedali di Tripoli, con moltissimi altri corpi che restano nelle strade perché le persone hanno paura a recuperarli, hanno paura che i mercenari gli sparino e hanno paura delle bombe. Il regime sta usando armi di artiglieria, quel tipo di armi che normalmente si usano in guerra, due eserciti uno contro l'altro, ma in questo caso l'esercito di Gheddafi le sta utilizzando contro la gente libica disarmata.
La Libia è un partner strategico per ogni paese in Europa, compresa l'Olanda. La Libia può essere un paese amico per tutto il mondo, la Libia può essere la meta per le vacanze, una meta di prosperità. La Libia ha un potenziale altissimo, ma non può raggiungerlo sotto a questo tipo di regime, sotto a questo genere di brutalità..

Conduttore: Cosa si aspetta dalla comunità internazionale?

Abdallah: Ecco le richieste che ho fatto alcuni giorni alla comunità internazionale:
  1. il Consiglio di Sicurezza deve condannare fermamente ciò che accade, ed emanare un ordine di arresto internazionale per Muammar Gheddafi e per i suoi miliziani.
  2. Devono congelare tutti i loro beni nelle banche, sia in Europa che in Africa, che vengono utilizzati per pagare i mercenari e per comprare alcune di queste armi e di questa artiglieria.
  3. Bisogna inviare aiuti sanitari e umanitari agli ospedali e a tutta la Libia che ne hanno bisogno immediatamente.
Queste sono cose che possono essere fatte. Al momento quello che vediamo sono solo questi massacri. Io credo che bisognerebbe fare e domandare di più. Bisogna costringere con la forza questi aerei che bombardano ad atterrare. E se è vero come è riportato che alcuni di questi caccia sono italiani, io credo che sia chiaro quello che i paesi europei dovrebbero fare all'Italia e al signor Berlusconi, che è tanto criminale quanto Gheddafi se sta contribuendo in prima persona a questo massacro.
Questo è ciò che chiediamo alla comunità internazionale, e io chiedo alle persone che hanno visibilità nei media e che supportano la gente libica, ...quello che io chiedo a questa gente di fare... è di parlare ai loro governi, di parlare con chi prende le decisioni.

Conduttore: Signor Abdullah, la interrompo un attimo. Abbiamo appena avuto una notizia dell'ultima ora. Il primo ministro Berlusconi ha condannato le azioni del colonnello Gheddafi.

Abdallah: Sì, ma è troppo tardi, amico mio. Berlusconi, ieri, il suo commento eraun insulto alla gente libica, quando il suo governo ha dato alla stampa un comunicato nel quale supportava Gheddafi, e Berlusconi si è spinto anche oltre, dichiarando che non voleva disturbare Gheddafi in questa situazione... Condannare adesso è troppo tardi, amico mio. Avete un bel problema da gestire. Gli italiani devono occuparsi di Berlusconi, così come deve occuparsene l'intera comunità europea. Questa non è una persona in grado di rappresentare nessun paese nel mondo, ancor meno un paese come l'Italia, e credo che ogni italiano dovrebbe vergognarsi di essere rappresentato da uno come Berlusconi, e spero che facciano qualcosa e che lo mettano al suo posto.



Berlusconi: il premier non ha alcun potere.




Roma, 23 feb. (Adnkronos) - Nell'assetto costituzionale previsto dall'attuale Carta "al governo rimane solo il nome e l'immagine del potere". Lo ha affermato il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi intervenendo agli Stati generali di Roma Capitale.

Una situazione, ha spiegato, che rende impossibili le riforme, perché i provvedimenti del governo, decreti e disegni di legge, debbono passare alla firma del capo dello Stato e poi vengono profondamente modificati dal Parlamento e così un testo varato dal Consiglio dei ministri da "focoso destriero purosangue" si trasforma in "ippopotamo".

''Quando leggo articoli di ottimi editorialisti che rimproverano noi che siamo al governo di non aver fatto le riforme - ha affermato il premier - mi viene una gran voglia di raccontare perché non si riescono, nella situazione in cui siamo, a fare le riforme, perché il nostro governo, come tutti i governi precedenti è dentro un assetto istituzionale che è stato determinato dai padri costituenti che, giustamente, per non rendere possibile, dopo il ventennio, un regime dittatoriale, spartirono il potere tra il presidente della Repubblica, il Parlamento, e la Corte Costituzionale. Al governo rimane soltanto il nome e la pura immagine del potere. Vi assicuro che chi occupa la presidenza del Consiglio di potere non ne ha alcuno''. ''Mi trovavo ad essere un imprenditore che disponeva di mezzi di comunicazione - ha detto ancora Berlusconi - ero guardato con attenzione e con rispetto da molti protagonisti della politica, perché si attendevano un trattamento oggettivo su quello che facevano, potevo almeno assumere e licenziare, anche se non ho mai licenziato nessuno''.

Il presidente del Consiglio a questo punto ha descritto l'iter dei vari provvedimenti del governo, da quando vengono approvati dal Consiglio dei ministri a quando diventano legge, partendo dalla firma del presidente della Repubblica e dal suo ''consenso totale'' che deve accompagnare i decreti legge, sicché ''non è nella disponibilità del governo di fare i decreti, ci deve essere l'accordo e la firma del capo dello Stato''. Il premier ha poi ricordato le varie letture delle Camere e le eventuali modifiche e così ''quello che il presidente del Consiglio e il suo governo avevano concepito come un focoso destriero purosangue quando esce dal Parlamento se va bene è un ippopotamo e ricorda il nome di ippocavallo. Io vorrei che tutti foste consapevoli che se noi non facciamo le riforme istituzionali non c'è nessuna speranza'', ha concluso Berlusconi, confessando il suo ''sogno'' di potersi confrontare con un'''opposizione socialdemocratica''.





PERCHE' L'ITALIA NON SI RIVOLTA ? - di Massimo Fini.




Perché non ci ribelliamo? In Italia la disoccupazione giovanile è al 29%, la più alta d'Europa. Tutti noi genitori abbiamo il problema dei figli, quasi sempre laureati, che non trovano lavoro o che devono accettare ingaggi precari molto al di sotto del loro titolo di studio, senza nessuna prospettiva per il futuro (questo è stato uno degli elementi scatenanti della rivolta tunisina innescata da un ingegnere costretto a fare il venditore ambulante e, impeditagli anche la bancarella, si è dato fuoco).

Tutti gli scandali più recenti, dal "caso Mastella" in poi, ci dicono che la classe dirigente italiana, intesa come mixage di politici, amministratori pubblici, imprenditori, finanzieri, speculatori, esponenti dello star system, piazzano i propri figli, nipoti, generi, amici degli amici, in posti di lavoro ben remunerati e sicuri.

Del resto nemmeno un chirurgo, nel nostro Paese, può fare il chirurgo se non ha gli agganci giusti con questa o quella banda di potere. Perché il sistema clientelare di Mastella non è il "sistema Mastella" è il sistema dell'intera classe dirigente italiana. Se non altro Mastella ha lo spudorato coraggio e la spudorata onestà di non farne mistero.

I ceti popolari sono stati espulsi da Milano e mandati nell'hinterland, in "non luoghi" direbbe Biondillo, che hanno il nome di paesi ma non sono paesi, perché non hanno una piazza, una chiesa, un cinema, un luogo di aggregazione.

Le deportazione dei ceti popolari ha distrutto Milano, città interclassista dove nei quartieri del centro, Brera, Garibaldi, Pirelli abitava accanto al suo operaio, il primo, naturalmente, in un palazzo di Caccia Dominioni, il secondo in una casa di ringhiera. Questa interfecondazione dava alla città una straordinaria vivacità che è andata inesorabilmente perduta. Oggi una giovane coppia non può trovar casa a Milano, né in affitto né tantomeno in proprietà nemmeno con mutui che impegnino tre o quattro generazioni. Quando ci si lamenta che certe zone periferiche, come viale Padova, sono state occupate più o meno illegalmente dagli immigrati, si sbaglia perché se non altro hanno restituito un po' di vita, e in particolare una vita notturna a una città che non ne ha più se non in quei quattro o cinque bordelli di lusso, a tutti noti, che ogni tanto vengono chiusi per eccesso di escort e di droga. In questi posti senti uomini fra i quaranta e i sessanta fare discorsi di questo tipo: «Domani parto per New York, poi faccio un salto a Boston e ritorno in Italia via Tailandia dove mi fermerò una decina di giorni». Se per caso ti capita di parlargli e gli chiedi: «Scusi, lei che lavoro fa?», le risposte son vaghe. In genere si dicono finanzieri, intermediari, immobiliaristi.

Quando agli inizi degli anni '70 era già cominciata la deportazione dei milanesi verso l'hinterland, lo Iacp, Istituto Autonomo Case Popolari, non dava i suoi appartamenti alla povera gente, ma a politici, amministratori locali, giornalisti, in genere socialisti perché, prima del ribaltone della Lega, Milano, è stata governata da sindaci del Psi (Aniasi, Tognoli, Pilliteri, gli ultimi).

È ovvio che il centro di Milano, depauperato dei suoi ceti popolari, sia abitato oggi solo dai ricchi. Noi milanesi le case di piazza del Carmine, di via Moscova, di via della Spiga, di via Statuto possiamo solo sfiorarle e occhieggiarne i lussuosi androni. Meno ovvio è che il Pio Albergo Trivulzio, la Baggina come la chiamiamo noi, che ha accumulato un ingente patrimonio immobiliare, grazie a dei benefattori che intendevano, con ciò, non solo alleviare la condizione dei vecchi soli e invalidi ma anche che i loro quattrini avessero un utilizzo sociale, svenda questo patrimonio, con affitti o vendite "low cost" come si dice elegantemente oggi, a politici, amministratori, manager, immobiliaristi, speculatori, modelle, giornalisti, che di questo "aiutino" non avrebbero alcun bisogno, sottraendo risorse a chi il bisogno ce l'ha.

Io bazzico bar frequentati da impiegati, da piccoli manager, da lavoratori del terziario e un'antica piscina meneghina, la Canottieri Milano, dove si sono rifugiati, come in uno zoo per animali in estinzione, i cittadini di una Milano che fu, gente anziana. Tutti schiumano rabbia impotente di fronte a queste storie dei figli delle oligarchie del potere che hanno il posto assicurato o delle case del centro occupate "low cost" da queste stesse oligarchie o dai loro pargoli (nello scandalo del Pio Albergo Trivulzio c'è un nipote di Pilliteri, una figlia di Ligresti). Queste cose li colpiscono più dei truffoni di Berlusconi perché toccano direttamente la loro carne.
v Schiumano rabbia ma non si ribellano. Perché? Le ragioni, secondo me, sono sostanzialmente due. In questo Paese il più pulito c'ha la rogna. Quasi tutti hanno delle magagne nascoste, magari veniali, ma ce l'hanno. Non che sia gente in partenza disonesta. Ma, com'è noto, la mela marcia scaccia quella buona. Se "così fan tutti", tanto vale che lo faccia anch'io. Così ragiona il cittadino. Per resistere a quel "tanto vale" ci vuole una corazza morale da santo o da martire o da masochista.

La seconda ragione sta in una mancanza di vitalità. Basterebbe una spallata di due giorni, come quella tunisina, una rivolta popolare disarmata ma violenta disposta a lasciare sul campo qualche morto per abbattere queste oligarchie, queste aristocrazie mascherate che, come i nobili di un tempo, si passano potere e privilegi di padre in figlio, senza nemmeno avere gli obblighi delle aristocrazie storiche. Ma in Tunisia l'età media è di 32 anni, da noi di 43. Siamo vecchi, siamo rassegnati, siamo disposti a farci tosare come pecore e comandare come asini al basto. Solo una crisi economica cupissima potrebbe spingere la popolazione a ribellarsi. Perché quando arriva la fame cessa il tempo delle chiacchiere e la parola passa alla violenza. La sacrosanta violenza popolare. Come abbiamo visto in Tunisia e in Egitto, come vediamo in Libia o in Bahrein (in culo al colossale Barnum del Circuito di Formula Uno, che è, in sé, uno schiaffo alla povera gente di quel mondo).

Massimo Fini
Fonte: www.ilfattoquotidiano.it
Link: http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/02/22/perche-non-ci-ribelliamo-in-italia-la/93334/
22.02.2011


martedì 22 febbraio 2011

Leggi eversive per la Consulta.-di Alessandro Pace.



La proposta del presidente del Consiglio di elevare il quorum deliberativo delle pronunce della Consulta, dall'attuale maggioranza dei giudici presenti al voto a quella dei due terzi, stravolge una delle caratteristiche essenziali della nostra Carta costituzionale.

Modificare l'articolo 16 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e dall'articolo 17 comma 3 delle Norme integrative della Corte costituzionale, nel senso auspicato da Berlusconi, esplica conseguenze pregiudizievoli non solo sulla funzionalità della Corte, come è stato fin qui autorevolmente rilevato, ma sulla stessa rigidità della nostra Costituzione.

La proposta incide infatti su quella caratteristica delle costituzioni scritte, ormai fatta propria da pressoché tutti gli ordinamenti vigenti, democratici e non, di porsi come atti normativi "formalmente superiori" rispetto alla restante attività normativa e provvedimentale degli organi dello Stato (leggi statali e regionali, decreti-legge, decreti-legislativi, decreti ministeriali, ordinanze, sentenze e così via). Con la conseguenza che tutti questi atti, per definizione "gerarchicamente inferiori", non possono contraddire la Costituzione, essendo questa la "legge fondamentale".

Per contro, qualora il Parlamento, recependo la proposta del premier, decidesse che, per dichiarare l'incostituzionalità di una legge o di una norma di legge, siano necessari i due terzi dei 15 giudici presenti (e quindi almeno 10 giudici su 15 nel caso che tutti i giudici siano presenti alla votazione o almeno 7 giudici su 11, essendo questo il numero minimo richiesto perché la Corte possa deliberare), la conseguenza sarebbe che, nel suo raffronto con la Costituzione, la legge ordinaria si troverebbe paradossalmente in una posizione più favorevole rispetto alla Costituzione ancorché sia questa, e non quella, la legge fondamentale.

Infatti, messa la legge ordinaria su un piatto della bilancia e la Costituzione sull'altro piatto, i 6 voti dei giudici favorevoli alla legge ordinaria peserebbero assai di più dei 9 voti dei giudici favorevoli alla Costituzione (né più né meno come la spada di Brenno…).

Il nodo della questione sta infatti tutto qui. Essendo le percentuali di un terzo e di due terzi in relazione tra loro, se Berlusconi ritiene che un terzo valga più dei due terzi, ciò significa che per lui la Costituzione vale, in linea di massima, meno della legge ordinaria. Il che ovviamente non costituisce una novità nel pensiero dell'attuale presidente del Consiglio, mentre conferma, sotto altro aspetto, la sua insofferenza per le forme e per i limiti che dovrebbero caratterizzare, per disposto costituzionale, l'agire dei titolari degli organi rappresentativi della sovranità popolare (articolo 1 comma 2 della Costituzione).

Un'ultima chiosa. Si è ricordato, all'inizio, che la regola della maggioranza dei giudici presenti per le pronunce della Corte costituzionale è prescritta nella legge n. 87 del 1953 e nelle Norme integrative della Corte costituzionale. Ebbene, ciò tuttavia non significa che basterebbe modificare la legge (ordinaria) n. 87 del 1953 perché l'obiettivo del premier possa essere raggiunto.

Proprio perché, in conseguenza di una siffatta modifica, la Costituzione acquisirebbe un grado di "cedevolezza" nei confronti della legge ordinaria contrastante con la sua "rigidità", è di tutta evidenza che, per introdurre una siffatta norma eversiva dell'attuale sindacato di costituzionalità delle leggi, sarebbe quanto meno necessaria una legge di revisione costituzionale, come tale sottoposta alle speciali procedure di cui all'articolo 138 della Costituzione. A meno che si ritenga, com'è lecito ritenere, che tra i "principi supremi" della nostra Costituzione - come tali immodificabili anche con legge costituzionale - ci sia anche l'inderogabile superiorità della Costituzione su tutti gli atti del nostro ordinamento.