martedì 22 febbraio 2011

Leggi eversive per la Consulta.-di Alessandro Pace.



La proposta del presidente del Consiglio di elevare il quorum deliberativo delle pronunce della Consulta, dall'attuale maggioranza dei giudici presenti al voto a quella dei due terzi, stravolge una delle caratteristiche essenziali della nostra Carta costituzionale.

Modificare l'articolo 16 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e dall'articolo 17 comma 3 delle Norme integrative della Corte costituzionale, nel senso auspicato da Berlusconi, esplica conseguenze pregiudizievoli non solo sulla funzionalità della Corte, come è stato fin qui autorevolmente rilevato, ma sulla stessa rigidità della nostra Costituzione.

La proposta incide infatti su quella caratteristica delle costituzioni scritte, ormai fatta propria da pressoché tutti gli ordinamenti vigenti, democratici e non, di porsi come atti normativi "formalmente superiori" rispetto alla restante attività normativa e provvedimentale degli organi dello Stato (leggi statali e regionali, decreti-legge, decreti-legislativi, decreti ministeriali, ordinanze, sentenze e così via). Con la conseguenza che tutti questi atti, per definizione "gerarchicamente inferiori", non possono contraddire la Costituzione, essendo questa la "legge fondamentale".

Per contro, qualora il Parlamento, recependo la proposta del premier, decidesse che, per dichiarare l'incostituzionalità di una legge o di una norma di legge, siano necessari i due terzi dei 15 giudici presenti (e quindi almeno 10 giudici su 15 nel caso che tutti i giudici siano presenti alla votazione o almeno 7 giudici su 11, essendo questo il numero minimo richiesto perché la Corte possa deliberare), la conseguenza sarebbe che, nel suo raffronto con la Costituzione, la legge ordinaria si troverebbe paradossalmente in una posizione più favorevole rispetto alla Costituzione ancorché sia questa, e non quella, la legge fondamentale.

Infatti, messa la legge ordinaria su un piatto della bilancia e la Costituzione sull'altro piatto, i 6 voti dei giudici favorevoli alla legge ordinaria peserebbero assai di più dei 9 voti dei giudici favorevoli alla Costituzione (né più né meno come la spada di Brenno…).

Il nodo della questione sta infatti tutto qui. Essendo le percentuali di un terzo e di due terzi in relazione tra loro, se Berlusconi ritiene che un terzo valga più dei due terzi, ciò significa che per lui la Costituzione vale, in linea di massima, meno della legge ordinaria. Il che ovviamente non costituisce una novità nel pensiero dell'attuale presidente del Consiglio, mentre conferma, sotto altro aspetto, la sua insofferenza per le forme e per i limiti che dovrebbero caratterizzare, per disposto costituzionale, l'agire dei titolari degli organi rappresentativi della sovranità popolare (articolo 1 comma 2 della Costituzione).

Un'ultima chiosa. Si è ricordato, all'inizio, che la regola della maggioranza dei giudici presenti per le pronunce della Corte costituzionale è prescritta nella legge n. 87 del 1953 e nelle Norme integrative della Corte costituzionale. Ebbene, ciò tuttavia non significa che basterebbe modificare la legge (ordinaria) n. 87 del 1953 perché l'obiettivo del premier possa essere raggiunto.

Proprio perché, in conseguenza di una siffatta modifica, la Costituzione acquisirebbe un grado di "cedevolezza" nei confronti della legge ordinaria contrastante con la sua "rigidità", è di tutta evidenza che, per introdurre una siffatta norma eversiva dell'attuale sindacato di costituzionalità delle leggi, sarebbe quanto meno necessaria una legge di revisione costituzionale, come tale sottoposta alle speciali procedure di cui all'articolo 138 della Costituzione. A meno che si ritenga, com'è lecito ritenere, che tra i "principi supremi" della nostra Costituzione - come tali immodificabili anche con legge costituzionale - ci sia anche l'inderogabile superiorità della Costituzione su tutti gli atti del nostro ordinamento.




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