domenica 1 maggio 2011

Da Bossi ultimatum a Berlusconi "Se non vota la mozione salta il governo".


Il leader del Carroccio riaccende lo scontro sulla missione militare mentre Maroni parla degli immigrati: "La mia previsione di 50 mila profughi in arrivo temo si avvererà". Polemica con la Ue: "L'Europa non reagisce, non dà risposte, pone solo limiti"

ROMA - Nella doccia scozzese sul caso Libia alla quale la Lega sta sottoponendo da giorni Silvio Berlusconi oggi è la volta dell'acqua gelata. "Se non la vota vuol dire che vuol far saltare il governo", ha tagliato corto stamane Umberto Bossi in riferimento alla mozione presentata dal Carroccio 1 per fissare una data precisa alla fine dell'intervento italiano nella missione Nato. Bossi, che sta partecipando alla 'Batelada', una passeggiata organizzata dal Sindacato Padano sul battello al lago di Como, ha quindi ribadito il suo no all'intervento contro il regime di Gheddafi: "Non serve a niente bombardare ammazzi solo la gente. Poveracci, poi scappano".

Prima di Bossi a riaccendere lo scontro sulla vicenda libica tra alleati della maggioranza era stato il ministro dell'Interno Roberto Maroni. "Le parole di Gheddafi 2 - aveva avvisato - confermano che la situazione è da tenere sotto controllo, lo stiamo facendo e abbiamo intensificato azioni di verifica sul territorio nazionale". Intervenendo a margine dell'inaugurazione di una sede della Lega Nord, il titolare del Viminale ha parlato anche del problema degli immigrati. "In un giorno - ha sostenuto Maroni - sono arrivati 3 mila profughi dalla Libia. Spero non accadrà, ma se continua così la mia previsione di 50 mila arrivi purtroppo si realizzerà".

Maroni ha tenuto a sottolineare che trattandosi di rifugiati in fuga da una guerra "non possono essere rimandati indietro finché c'è la guerra in Libia e la regola europea è che se i rifugiati arrivano in un Paese devono rimanere li". Poi il ministro leghista rinfocola la polemica con l'Unione europea. "Ho fatto l'accordo con la Tunisia, che sta funzionando - spiega - ma sto ancora aspettando che l'Europa mi dia una risposta se vuole collaborare: Se non ci muovevamo noi eravamo ancora all'inizio". A giudizio di Maroni "l'Europa non reagisce, non dà risposte, pone solo limiti". Detto questo, il ministro dell'Interno ha precisato di non voler passare per quello che si lamenta e basta. "Noi non ci lamentiamo - ha continuato -, chiediamo all'Unione Europea, a cui diamo 14 miliardi di euro all'anno, di darci una mano quando ci sono problemi gravi".

Quanto allo scontro con il premier Maroni ricorre all'ironia. "Berlusconi - ha detto - è una persona che adoro perché è il presidente del Milan ma nonostante ciò abbiamo polemizzato con lui sulla questione della Libia. E' una polemica giusta perché abbiamo ragione noi".

Malgrado il rialzarsi dei toni, l'opposizione resta però scettica sulle reali intenzioni di Bossi. "Come previsto la Lega torna a seguire il Carroccio dell'imperatore e getta fumo negli occhi per far star buoni i suoi elettori - si legge in una nota diffusa dall'ufficio stampa del Pd - Ancora una volta Bossi, pur di avere le prebende a Roma, abbassa lo spadone nel Nord. Possono dire quello che vogliono e mettere tutte le scuse del mondo, ma la sostanza è che, come avevamo previsto, la Lega grida al nord solo per fare propaganda. La realtà è che sostiene Berlusconi, tutte le sue leggi e tutti i suoi affari". Analisi simile arriva dall'Udc. "Al di là delle dichiarazioni minacciose la Lega - afferma il deputato e responsabile enti locali dell'Udc, Mauro Libè - non ha nessuna intenzione di opporsi realmente all'intervento in Libia. Tutte le polemiche e i ricatti più o meno velati di questi giorni, infatti, hanno il solo obiettivo di rafforzare la posizione del Carroccio all'interno della bellicosa e variegata coalizione di maggioranza dopo l'ingresso dei responsabili, forti del merito acquisito negli ultimi voti di fiducia". "Bossi - prosegue l'esponente centrista - ha ben chiaro che per ottenere qualcosa da Berlusconi non serve un progetto politico, ma si deve far intravedere al Cavaliere una possibile crisi di governo. Alla fine, dunque, tutto si risolverà nel recupero di Brigandì come sottosegretario".



Il nucleare che non c’è ci costa già 4 miliardi.



Questa al cifra stimata per il riprocessamento del combustibile dalle scorie. Un lavoro pericoloso cui gli Usa hanno rinunciato. Ancora più esorbitanti i costi di smantellamento delle vecchie nucleare. Quasi tutte quelle attive oggi risalgono agli anni 70 ed entro il 2020 verranno chiuse

Tra i molti dubbi una cosa è certa: il costo che gli italiani stanno già pagando per il “riprocessamento” del combustibile esausto e per il decommissioning (smantellamento) dei loro impianti nucleari non più funzionanti.

“Riprocessare” il combustibile significa, infatti, separare dalle scorie le parti riciclabili: l’uranio non ancora utilizzato e soprattutto il plutonio formatosi nel combustibile stesso durante il funzionamento del reattore. Si tratta di lavoro “sporco” perché presenta rischi di proliferazione dovuti al fatto che parte del materiale sia sottratto senza che ve ne sia evidenza. Per evitare questi rischi gli Stati Uniti sino ad oggi hanno scelto di non riprocessare le loro scorie, considerando il combustibile come un vero e proprio rifiuto a perdere. Molti altri Paesi sono in una situazione di attesa, cosicché – secondo i dati forniti dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica, l’Aiea – solo un terzo del combustibile nucleare irraggiato prodotto sino a oggi nei reattori di tutto il mondo è stato riprocessato, mentre tutto il resto è stoccato, in attesa dello smaltimento o della decisione circa il suo destino.

L’Italia sceglie di trattare le scorie

A differenza di questi Paesi, l’Italia ha sposato, per il combustibile esausto proveniente dagli impianti oggi fermi, la scelta del riprocessamento, una strada rischiosa e costosa, tant’è che per onorare il contratto con la francese Areva, dal primo gennaio 2007 è stata triplicata la quota della componente A2 (nella bolletta), i cosiddetti “oneri nucleari”, che hanno comportato, come dice l’Autorità per l’energia elettrica ed il gas, “un aumento dell’ordine di un punto percentuale sulla tariffa domestica”. Al netto di imprevisti, la stima degli oneri complessivi del programma di riprocessamento trasmesso all’Autorità, a dicembre 2006 e confermato a marzo 2007, ammonta a 4,3 miliardi di euro, comprensivi, sia dei costi già sostenuti dal 2001 a moneta corrente, sia di quelli ancora da sostenere a moneta 2006.

La stima dei costi per la chiusura del ciclo del combustibile è articolata in tre distinte partite:

1. la sistemazione del combustibile irraggiato delle centrali di Trino, Caorso e Garigliano ancora stoccato in Italia, del quale è previsto l’invio in Francia per il riprocessamento, con ritorno dei prodotti post-ritrattamento al deposito nazionale

2. la sistemazione della quota parte Sogin del combustibile della Centrale di Creys-Malville, per la quale è prevista la cessione onerosa a EdF, con la conseguente presa in carico da parte di Sogin del relativo plutonio presso gli stabilimenti della Areva e quindi la successiva cessione onerosa di detto plutonio

3. la sistemazione del combustibile irraggiato che, a fronte di contratti già stipulati, è stato già inviato in Inghilterra e i cui prodotti post-trattamento saranno trasferiti direttamente al deposito nazionale

Devono poi aggiungersi i costi per le attività tecniche a carattere generale, di supporto, funzionamento sede centrale e imposte. Tutti questi costi sono oggi fatti pagare agli utenti con la bolletta dell’energia elettrica.

Smantellare le centrali

La grandissima maggioranza delle centrali nucleari oggi operanti nel mondo sono state ordinate negli anni ’60 e ’70 (quelle ordinate dopo il 1979 sono pochissime) e sono entrate in servizio negli anni ‘70 e ’80. All’inizio si assegnava a una centrale nucleare una vita produttiva di trent’anni, estesa poi a quarant’anni. Entro il 2020 tutte o quasi le centrali nucleari oggi attive nel mondo compiranno quarant’anni e dovrebbero essere smantellate.

Nel caso italiano gli esperti sostengono che i costi di decommissioning (comprensivi anche del confinamento delle scorie) equivalgono a una volta e mezzo il costo di una nuova centrale. D’altra parte Francia, Inghilterra e Stati Uniti fanno valutazioni analoghe. Nel 2005 il ministero dell’Industria francese, in base a un criterio stabilito nel 1991, valutava in 13,5 miliardi di euro il costo di smantellamento del parco nucleare, ma già nel 2003 la Corte dei conti aveva valutato tale costo in una forchetta di 20-39 miliardi di euro, mentre una commissione ad hoc parla oggi di centinaia di miliardi di euro (e si capisce che i francesi, che pagano oggi il 30% in meno degli Italiani la bolletta elettrica, in realtà stanno staccando un acconto e che la richiesta di Edf al governo di un aumento di 20 euro al Mwh per il decommissioning, finisce col pareggiare già adesso il conto).

L’Inghilterra ha prodotto la sua prima stima del costo della “uscita “ del Paese dal nucleare in circa 80 miliardi di euro, una cifra gigantesca, oltre il doppio del costo di costruzione ex-novo dell’intero parco nucleare inglese. Per il governo Usa trattare i 25 reattori a minore potenza già fermi costa attorno a 500 milioni di dollari a impianto. Senza contare che lo stesso studio di previsione ritiene che occorrano almeno 50 anni di “fermo impianto” per poter consentire nei 60 anni successivi l’accesso sicuro degli operatori. Tutti rilievi e conti confermati dall’Ue, che, attraverso il Joint Research Center nel sito di Ispra (Varese), si appresta al decommissioning di Essor – un reattore sperimentale di 42 MW che ha prodotto nella sua attività 3.000 m3 di scorie – con un budget ventennale di oltre 1,5 miliardi di euro complessivi.

Da ciò si deduce che i costi “nascosti” e “rinviati” del nucleare sono ancora ben lontani dall’essersi manifestati interamente e sono dello stesso ordine di quelli di costruzione. Oggi cominciano a venire al pettine. La chiusura degli impianti che compiono 40 anni di attività, a seguito della crisi finanziaria e dei bilanci statali, viene rinviata di qualche anno, come in Germania e Spagna, ma è una necessità ineludibile. Quindi i costi (e i problemi) del decommissioning salgono alla ribalta e quelli “veri” del nucleare inevitabilmente lievitano. Potremmo dire che, per ogni euro pagato in fase di costruzione di un nuovo reattore oggi, occorre ipotecare un analogo pagamento che andrà a scadenza entro la fine del secolo.

di Mario Agostinelli (Portavoce del Contratto mondiale per l’energia e il clima. L’articolo, pubblicato in anteprima da ilfattoquotidiano.it, uscirà a Maggio sul mensile Valori)



Quella fotografia che ha messo B. nei guai. - di Luca Telese


Quando il Caimano inseguiva miss col camper di Telemilano 58 e fu fotografato da Mauro Vallinotto. Uno dei primi a ritrarre il "Dottore", insieme a Evaristo Fusar e Alberto Roveri

“Senta Evaristo, ci verrebbe questo fine settimana, ad Arcore, a fotografarmi?”. Evaristo Fusar oggi ha 77 anni. Ne aveva 34 nel 1977, quando arriva quella telefonata, cortese ma insistente, da un giovane imprenditore in ascesa, che gli domanda un servizio su di sé. Tutto poteva immaginare tranne che quelle foto le avrebbe fatte, malgrado all’inizio fosse perplesso. E che sarebbero rimaste negli annali come i primi ritratti posati di Silvio Berlusconi (oggi valgono più di uno scoop di paparazzi su Belén Rodriguez). E poi che lui, con “il Dottore” (così si faceva chiamare) avrebbe stretto un rapporto decennale. Alla fine, l’incredibile collaborazione che sta per raccontarmi si concluderà con una proposta di assunzione prendere o lasciare: “Lasci tutto e venga alla Mondadori”. Proposta rifiutata anche se economicamente allettante, per innato spirito di indipendenza del destinatario.

Alberto Roveri, invece, entra negli uffici della Edilnord nel 1977. È ormai giunto alla fine del suo servizio quando, mentre sta riponendo con cura gli obiettivi nella sua borsa di pelle, guarda ancora per una volta il numero uno della società immobiliare. Non sa bene perché, ma – a un tratto – gli sembra di poter immortalare un’inquadratura diversa dalle altre, una luce particolare che prima non aveva. Allora riprende la macchina, la impugna, segue un impulso istintivo e gli dice: “Dottore, mi lascia fare un altro paio di scatti?”. Il diaframma corre veloce, click, click, click. “Ci credi? Della presenza della pistola – racconta oggi divertito – mi sono accorto solo 30 anni dopo”. Un altro scatto che vale oro.

Mauro Vallinotto “il dottore” lo aveva già conosciuto, e mi racconterà anche lui come. Ma resta folgorato dalla sua apparizione a Viareggio, al concorso di Miss Italia del 1979: “Era sbarcato in riviera con un camper attrezzato con tanto di letto matrimoniale e due operatori al seguito, per filmare la finale di Miss Italia. Rimasi stupito del fatto che un imprenditore come lui facesse il cronista. In una delle pause – racconta Vallinotto – incuriosito per la scena, seguendo un impulso, scattai una foto che oggi pare innocente: Berlusconi era seduto, accanto alle aspiranti miss, e scherzava con le ragazze. Quando sentii l’otturatore che scattava non potevo certo immaginare che, proprio per via di quella foto, mi avrebbe urlato addosso, in pubblico, furibondo: ‘Vergogna! Mi hai rovinato la vita, mascalzone!’”.

Né il colloquio di Fusar, né la pistola immortalata da Roveri, e nemmeno “il camper abborda-miss” sono elementi casuali. L’ingresso nella villa di Arcore per Silvio Berlusconi è di più di un trasloco, l’anno zero della sua biografia, il punto di ripartenza di una palingenesi pubblica e privata. È – per essere più precisi – il momento in cui riesce ad avviare un lungo e meticoloso processo di edificazione della propria immagine. Dagli scatti di gioventù, ridenti e fuggitivi, talvolta rubati o d’occasione, il fondatore di Mediaset sta passando al ritratto posato, alla costruzione scientifica del proprio immaginario. Passa in quell’anno dal tempo dell’azione a quello della prosa plasmando, ex novo, un personaggio e un immaginario fondati su un ingrediente fondamentale: se stesso.

È dunque quasi normale che il futuro imprenditore catodico si metta in cerca di talenti che possano documentare il suo prodigioso salto di censo, raccontando il suo nuovo romanzo di formazione. Da questo momento in poi, l’iconografia ufficiale del berlusconismo non consentirà più gli sguardi birichini del chansonnier giramondo, non ritrarrà mai il giovane arrampicatore sociale con mustacchi e capelloni lunghi, o il giovanotto con la pipa pretenziosa e il sorriso ironico, ma solo l’imprenditore (aspirante) statista, il clone semiludico del duro da cinema americano, il sovrano regnante che intorno alla dimora nobiliare strappata ai Casati ha edificato il proprio regno. Sull’iconografia berlusconiana ha scritto un bellissimo libro Marco Belpoliti (Il Corpo del capo). Un libro che ha avuto una storia travagliata, dal momento che l’editore abituale del saggista, l’Einaudi (di proprietà Mondadori) aveva rifiutato di pubblicare il testo (poi uscito per Guanda). Ne Il Corpo del capo Belpoliti raccoglieva un’antologia delle foto che avevano costruito il culto del sovrano di Arcore, l’iconografia del capo predestinato. Manca una cosa che per un filosofo non ha senso, ma che per un giornalista è essenziale. Cercare gli autori di quei servizi e fargli raccontare “il giovane” Berlusconi. Così ho rintracciato i tre primi ritrattisti del sovrano per chiedere cosa ricordassero. Con Fusar, Berlusconi prospetta un’assunzione, chiede ritocchi sul naso di cui si lamenta persino con Montanelli (“È un grande fotografo, ma con la mattina non ci sa fare”), rivela che il suo modello è Reagan. Da Roveri si fa immortalare davanti al plastico di Milano 2, posa come lo zio Sam e chiede una pausa tra un servizio e l’altro dicendo: “Chiamo l’estetista e mi faccio il manicure”.

Ma è Vallinotto che ha il ricordo più stupefacente. Incrocia una prima volta Silvio Berlusconi a Milano, nel 1976. Lui è un collaboratore fisso dell’Espresso, quello è il costruttore di Milano 2. Ha appena 22 anni, ma è già un fotografo di moda affermato: “Alcune modelle mi parlano di questo imprenditore che fa delle feste animate, invita molte ragazze e ad alcune mette addirittura a disposizione degli appartamenti a Milano 2”. Mentre mi racconta questo particolare, ovviamente, rimango per un attimo di stucco e Vallinotto sorride: “No, no, ha capito bene: non è che mi sono confuso con il Bunga Bunga. È proprio quello che mi dissero di lui, nel lontano 1976, delle fanciulle che oggi definirei cloni della Carfagna. Ovvio che mi incuriosissi, no?”. In un’occasione i due si incontrano in una serata milanese, il giovane Vallinotto resta a sentire. Il suo sesto senso, non solo professionale, gli dice che con l’uomo di Milano 2 si rivedrà presto. Due anni più tardi il fotografo è alla presentazione di una minuscola tv via cavo che si sta trasformando in emittente privata. Nel 1979 Vallinotto, seguendo le piste delle sue modelle milanesi approda a Viareggio, per la finale di Miss Italia. “Mi vedo arrivare Berlusconi, a bordo di un pullman marchiato Telemilano 58”. Rimane doppiamente stupito. “Non trovavo strano solo che facesse interviste di persona. Ma anche che a un certo punto, riconoscendomi, mi aveva detto: ‘Scusi Vallinotto. Ho visto che ha scattato. Mi perdoni, le sembrerà una sciocchezza, ma devo chiederle se me le può cedere’”. Berlusconi incalza: “Posso dirle una cosa da uomo a uomo? Mia moglie non sa che io sono qui, mi capisce?”. Vallinotto, che ha fotografato anche il camper con cuccetta e lettino ricoperto di pelle nera (e una tv incassata in una parete), ci rimugina. “Ma se Berlusconi faceva le interviste e le mandava in onda, come poteva poi dire alla moglie di non essere stato al concorso?”.

Ipotizza che sia una scusa per mettere le mani sugli scatti. La cosa non gli piace, rifiuta. Le foto vengono comprate e pubblicate. Non succede nulla e Vallinotto dimentica dell’episodio. Ma, 15 giorni dopo, quando si ritrova alla finale del Campiello succede l’imponderabile. Una sagoma si stacca dalla platea e inveisce contro di lui: “Lui, incazzatissimo. Fuori di sé. Gridava: ‘Sei una carogna! Mi hai rovinato la vita! Per colpa tua mia moglie vuole divorziare!’. Io non rispondevo. Ma Berlusconi mi era addosso, agitava le mani sempre più minaccioso”. Non finisce con una rissa solo perché interviene, provvidenziale, un imprenditore di successo. “Una sagoma si interpose fra me e lui – ricorda oggi Vallinotto – Vittorio Merloni. Lo placcò come sui campi di rugby: ‘Silvio, lascia perdere! Non vedi che ci stanno guardando tutti? Non dargli questa soddisfazione, dai!’”. Fine di un matrimonio, nascita di un mito.

da il Fatto Quotidiano del 30 aprile 2011



Un fils de Kadhafi quitte Munich et laisse une ardoise d'un million d'euros.



Le fils de Mouammar Kadhafi, Saïf el-Arab, 28 ans, étudiant à l'Université de Munich, a quitté la Haute-Bavière, en omettant de rembourser quelque 900.000 euros à ses créanciers, écrit jeudi le quotidien allemand Süddeutsche Zeitung, se référant aux autorités locales.

"Il se peut que le jeune homme ait tout simplement trouvé un autre bel endroit où vivre dans ce monde", a dit un représentant de l'administration.

Saïf el-Arab Kadhafi a officiellement informé l'administration municipale de son départ, en indiquant qu'il retournait en Libye. Le journal suppose cependant qu'au lieu de la Libye, embrasée par de violents troubles populaires, Kadhafi junior se soit rendu à Paris.

Saïf el-Arab est arrivé à Munich en 2006 pour entrer à l'Université. Au début, il s'est installé dans le luxeux hôtel Bayerischer Hof,
en plein cœur de la capitale bavaroise, indique le journal.

C'est là que se déroule chaque année la Conférence de Munich sur la sécurité. Le jeune homme possédait aussi une villa dans le quartier de Bogenhausen et un appartement dans le sud-est de la ville.

Dans le même temps, de nombreux pays évacuaient par air et par mer leurs ressortissants travaillant en Libye, pris au piège des violences qui s'y poursuivent depuis le 15 février dernier et qui ont déjà fait des centaines de morts.



Bomba o non bomba (Marco Travaglio).


Si leggono strani titoli sui giornali.

E, siccome non vengono smentiti, vuol dire che succedono strane cose nella politica italiana.

Soprattutto nei rapporti fra il capo dello Stato, il governo e le opposizioni. Diciamo subito che il presidente Napolitano ha tutto il diritto di ritenere che, per autorizzare il cambio delle regole d’ingaggio della nostra partecipazione alla guerra di Libia (dal “non bombardiamo ” al “bombardiamo”), non occorra un passaggio parlamentare, anche se è difficile sostenere che resta tutto come prima mentre cambia tutto. E precisiamo pure che, se il Pd è d’accordo con B. sulla svolta disinvolta dal non bombardare al bombardare, fa benissimo a presentare una mozione pro B. (che il Pdl potrebbe addirittura votare), lasciando sole la Lega e l’Idv a dire no. Se davvero il partito di Bersani (o chi per lui) la pensa come B., non c’è motivo che gli voti contro solo per farlo cadere. Il problema semmai è capire come può il Pd pensarla come B. su una questione cruciale come la guerra, andando contro non solo la maggioranza dei suoi elettori (leggere i commenti della base piddina inferocita sulla pagina facebook di Bersani per credere), ma anche contro la stragrande maggioranza degli italiani (infatti i sondaggi premiano i partiti non interventisti: Lega, Idv e Sel). Ma questa è un’altra questione: sono anni, ormai, che i vertici del Pd marciano nella direzione opposta a quella dei loro elettori e, ogni qual volta B. è in difficoltà, trovano sempre il modo di salvargli le chiappe. La vera stranezza qui è il ruolo del capo dello Stato. Che, come scrivono i giornali, ha chiesto telefonicamente a Bersani “senso di responsabilità sulla Libia”: cioè di non invocare un nuovo voto del Parlamento. Tanto da far insorgere il capogruppo Franceschini (“una cosa sono le preoccupazioni del capo dello Stato, un’altra la nostra iniziativa politica per mettere in difficoltà il governo”), da provocare qualche mal di pancia alla presidente Bindi (“i bombardamenti non mi piacciono, ma non possiamo lasciare solo Napolitano”) e da far dire al vice-capogruppo Luigi Zanda: “Noi siamo napolitaniani, dunque niente voto”. Sempre in sintonia con il Quirinale, il presidente della Camera Fini tiene inspiegabilmente bloccata la mozione anti-bombe dell’Idv, evidentemente nel timore che la voti anche la Lega e cada il governo. Ma che c’entra Napolitano col Pd e l’Idv? Da quando in qua il capo dello Stato influenza la linea delle opposizioni, orientando il dibattito parlamentare? Il Quirinale e il Pd fanno due mestieri diversi – l’uno l’arbitro, l’altro il giocatore – e dunque dovrebbero marciare in parallelo. Che si sappia, non risulta che fra i poteri di Napolitano vi sia quello di orientare il voto di questo o quel partito, foss’anche il suo ex partito, né tantomeno quello di tenere in piedi il governo. Altrimenti che arbitro sarebbe? Eppure un quirinalista informatissimo come Marzio Breda del Corriere scrive proprio questo: che “il Quirinale teme per la tenuta dell’esecutivo ”. Purtroppo, non risulta nella Costituzione che il capo dello Stato debba tenere artificialmente in vita i governi morti: anzi, risulta che debba limitarsi a nominare il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri; e, se il governo cade, verificare in Parlamento eventuali maggioranze alternative o, in caso contrario, sciogliere le Camere. Punto. Eppure già a novembre, quando Fli presentò alla Camera la famosa mozione di sfiducia al governo, che in quel momento era morto, la nefasta “moral suasion” del Colle fece in modo che il voto a Montecitorio slittasse di un mese, dopo la Finanziaria, così B. ebbe il tempo di comprarsi i deputati necessari per rimpiazzare i finiani e di risorgere a nuova vita giusto in tempo per il 14 dicembre. Siamo governati da un cadavere ambulante e chi dovrebbe staccargli la spina si affanna a tenerlo in vita artificialmente. Altro che legge sul testamento biologico. Ce la possiamo scordare.

Da Il Fatto Quotidiano del 01/05/2011.


Beppe commenta la piazza di Torino.



Di ritorno al camper dopo il fantastico pomeriggio a Torino, Beppe fa qualche riflessione sull'andamento del tour elettorale in Piemonte.


Wojtyla Segreto: il vero volto di Papa Giovanni Paolo II. - di Giuseppe Pipitone



A pochi giorni dalla beatificazione del pontefice polacco, esce la contro - inchiesta di Ferruccio Pinotti e Giacomo Galeazzi, edita da Chiarelettere (leggi la prefazione del libro)

Mikhail Gorbavìciof diceva che "Senza Wojtyla non si può comprendere ciò che è avvenuto in Europa negli anni '80". Oggi Giovanni Paolo II sta per essere nominato beato, dopo appena sei anni dalla sua morte. Papa Benedetto XVI, il successore ed erede, ha deciso di iniziare le pratiche di beatificazione addirittura un anno e mezzo dopo la morte di Karol Wojtyla. Una velocità incredibile. Soprattutto se comparata ad altre pratiche di beatificazione che attendono da anni di essere portate a compimento da anni, come nel caso di Padre Pino Puglisi.Proprio pochi giorni prima dalla beatificazione del pontefice polacco, prevista per il primo maggio a piazza San Pietro, è uscito in libreria Wojtyla Segreto, la prima vera contro inchiesta su Giovanni Paolo II, edita da Chiarelettere. Nel libro, firmato dal vaticanista de La Stampa Giacomo Galeazzi e dal giornalista d'inchiesta Ferruccio Pinotti, si ricostruisce la storia di Karol Wojtyla, dagli anni a Cracovia fino alla viscerale politica anticomunista operata da pontefice. Tra amicizie chiacchierate, gestione dei fondi Ior e vicinanza a gruppi come l'Opus Dei e Comunione e Liberazione, Pinotti e Gaelazzi tratteggiano un profilo diverso dalla mistificazione operata per beatificare il santo padre a tempo record. Ferruccio Pinotti, giornalista de L'Arena di Verona e autore di libri- inchiesta di successo come "Poteri Forti" e "La Lobby di Dio" ammette che " c'è una parte interna alla Chiesa, neanche troppo piccola, che è contraria alla beatificazione di Giovanni Paolo II".

Ferruccio Pinotti- La prefazione (leggi) del libro è firmata dal vescovo di Mazara del Vallo e presidente Cei per l'Immigrazione Domenico Mogavero. E' stata una scelta dovuta proprio all'esigenza di testimoniare il dissenso interno alla beatificazione di Wojtyla?

Mogavero è una voce che storicamente non è "allineata" in Vaticano. Negli ultimi anni si è espresso su temi politici e sull'immigrazione in maniera obiettiva, non per forza "allineato" con le ufficiali posizioni della Santa Sede. Mi sembra che anche nella prefazione del libro si esprima in maniera univoca sulla beatificazione di Papa Giovanni Paolo II.

-Mogavero però non è l'unica voce interna al Vaticano in disaccordo con la beatificazione di Wojtyla.

Assolutamente. Nel libro riportiamo la testimonianza del teologo Giovanni Franzoni che nel corso del processo di beatificazione ha elencato dei gravi dubbi sull'ansia e la velocità di beatificazione di Wojtyla. Ma non è l'unico. Non dimentichiamo che il processo di beatificazione di Wojtyla è passato davanti quello di Paolo VI o del vescovo di El Salvador Oscar Romero, che proprio con Giovanni Paolo II era entrato in conflitto per i suoi cattivi rapporti con il governo militare del suo paese, finendo poi ucciso mentre diceva messa.

- C'è chi dice che senza Wojtyla il comunismo non sarebbe mai crollato.

Possibile. Quello che è certo è che esisteva dagli anni 50 un "progetto Wojtyla", ovvero un progetto per un papà anticomunista preparato a dovere. Nel libro raccontiamo come Wojtylia sia sin dalla giovinezza il pupillo dello storico monsignore polacco, il principe Sapieha. Proviamo un attimo a guardare ai fatti: Karol Wojtyla prende i voti a 26 anni, diventa vescovo a 38, cardinale a 47 e Papa a 58; una carriera davvero fulminante.

- Nella scheda del libro c'è scritto che Wojtyla Segreto vuole essere un appello documentato contro la beatificazione. Ma in che modo?

Nel libro ci sono almeno 4 punti della storia di Giovanni Paolo II che dovrebbero bloccare il processo di beatificazione. Innanzitutto le politicihe economiche dello IOR. Wojtyla, fervente anticomunista, aveva bisogno di soldi per combattere l'Urss e quindi ha dovuto affidarsi in toto a Marcinkus. Lo Ior riciclava i soldi di Cosa Nostra, di Sindona, di Calvi. C'è una lettera abbastanza esplicita del ex presidente del Banco Ambrosiano a Giovanni Paolo II, scritta poco prima di morire a Londra. Lo Ior finanziò ingentemente con denaro sporc il sindacato anticomunista polacco Solidarnosc e lo fece per volere del Santo Padre. Il viscerale anticomunismo di Wojtyla lo portò a ditruggere e mal tollerare tutti coloro che in Vaticano praticavano la cosiddetta Teologia della Liberazione: Romero è uno di questi. Sempre in chiave anticomunista aprì le porte del Vaticano a movimenti che negli anni '80 erano embrionali ed ora sono delle vere e proprie lobby. Pensiamo all'Opus Dei e a Comunione e Liberazione. Non a caso Wojtyla conosceva Escriva, il fondatore dell'Opus Dei, già dal 1942. Non ultimo il silenzio nei confronti del problema della pedofilia: i più atroci atti di pedofilia sono stati commessi durante il pontificato di Papa Giovanni Paolo II, è credibile pensare che proprio il pontefice e proprio quel pontefice non ne sapesse nulla? Aldilà della beatificazione, stando ai fatti Giovanni Paolo II è stato un papa più simile ai Borgia.