lunedì 25 luglio 2011

Vignetta.






















"Nella Satira un po' di solidarietà non si nega manco ai cani".
Ecco la vignetta che ha pubblicato il Fatto quotidiano dopo la denuncia per vilipendio al Capo dello Stato, al direttore di Libero Maurizio Belpietro.
Ricordiamo che Belpietro , rischia 5 anni di carcere per aver pubblicato una vignetta offensiva sul Capo dello Stato Napolitano.


Casa, stangata fiscale da 2 miliardi la cedolare sugli affitti salirà al 25%.



Saranno ridotti i bonus su ristrutturazioni e risparmio energetico. Dai mutui ai lavori alle provvigioni per gli intermediari: tutti gli aumenti di tasse dal 2013-14.


di ROSA SERRANO.

NON C'E' solo il ritorno dell'Irpef sulla prima casa. Quella che si profila sul fronte immobiliare somiglia a una vera e propria stangata fiscale, che taglierà tutte le agevolazioni e aumenterà dal 21 al 25,2% la cedolare secca appena introdotta sugli affitti. Oltre 10 miliardi di euro di sconti fiscali per la casa saranno "alleggeriti" dalla manovra economica. I tagli arriveranno in due tranches: nel 2013 il 5% in meno, circa 500 milioni di euro; l'anno dopo il 20%: 2 miliardi. Ce ne sarà per tutti: per chi possiede la casa in cui abita, per chi dà in affitto il proprio immobile, per chi fa lavori di ristrutturazione, e infine per gli stessi inquilini. Ma procediamo con ordine.

I proprietari di prime case. Oltre al ritorno dell'Irpef sulla prima casa a partire dai redditi 2013 e 2014, i proprietari subiranno tagli alle agevolazioni, a cominciare da quelle fiscali per l'acquisto della prima casa. Ma sarà ridotta anche la detrazione Irpef per gli interessi passivi sui mutui prima casa (19% su un tetto massimo di spesa di 4 mila euro annui). Limitata infine la detrazione Irpef per le provvigioni pagate ai mediatori immobiliari per l'acquisto dell'abitazione principale (19% su un importo massimo di mille euro annui).

I proprietari che affittano l'immobile. Qui è a rischio la novità fiscale del 2011, ovvero la cedolare secca sugli affitti che, da quest'anno, prevede un'imposta unica del 21% sugli affitti relativi a contratti di locazione di immobili ad uso abitativo (19% per i contratti agevolati che prevedono un affitto inferiore a quello di mercato). Ebbene, con il taglio alle agevolazioni, la cedolare salirà a regime dal 21 al 25,2 per cento. Immediata la richiesta di chiarimenti di Confedilizia, secondo cui a questo punto rischiano di cambiare di nuovo le convenienze fiscali dei proprietari. A rischio anche la deduzione forfetaria del 15% sui redditi da locazione che viene riconosciuta ai proprietari a fronte dei costi sostenuti per l'immobile (manutenzione, imposte, ecc.) e l'ulteriore deduzione del 30% ai proprietari che affittano con canone concordato.
I proprietari che fanno lavori in casa. Qui entra in gioco il ricorso agli sconti Irpef sulle ristrutturazioni e sui lavori di risparmio energetico. Due misure particolarmente amate dagli italiane e che vengono di solito rinnovate di anno in anno. Ebbene, il bonus del 36% sui lavori di recupero edilizio si ridurrà al 28,8, mentre quello del 55% su interventi mirati al risparmio energetico calerà al 44 per cento.

Gli inquilini. Anche le detrazioni fiscali previste per gli inquilini a sostegno del costo dell'affitto di casa saranno investite dal taglio del 5% nel 2013 e del 20% nel 2014. Si va dalla detrazione di 300 e 150 euro per l'affitto dell'abitazione principale, alla detrazione triennale di 991,60 euro per i giovani inquilini tra i 20 e i 30 anni, per passare, poi, ai 495,80 euro e ai 247,90 euro per i contribuenti intestatari di contratti con affitto concordato. A rischio anche le detrazioni per i lavoratori dipendenti che abbiano trasferito la residenza nel comune di lavoro (991,60 e 495,80 euro per i primi tre anni).



Area Falck, riappare Binasco del compagno G “Far arrivare 2 milioni al Pd di Penati”.




Una “triangolazione nel 2008-2010 per fare arrivare soldi al partito”. La procura di Monza ha iscritto nel regiostro degli indagati Bruno Binasco per aver finanziato illecitamente con 2 milioni di euro nel 2010 il leader del Pd lombardo, Filippo Penati, attraverso un meccanismo che ruota attorno a una caparra. Lo scrive il Corriere della Sera. Che ricorda come Bruno Binasco venne arrestato nel 1993 per aver finanziato illecitamente il Pci tramite “il compagno G”, Primo Greganti, con 150 milioni di lire di mancata restituzione di interessi su una caparra immobiliare. Dal Pci al Pd. Dalle lire agli euro.

Il quotidiano di via Solferino ricostruisce il flusso di finanziamenti. “Anche in questa vicenda, come già per i 4 miliardi di lire in contanti che il costruttore e consigliere comunale di centrodestra Giuseppe Pasini dice di aver dato all’estero nel 2001 a due fiduciari dell’allora sindaco ds di Sesto San Giovanni (il futuro capo di gabinetto Giordano Vimercati e l’imprenditore del trasporto urbano Piero Di Caterina), il percorso dei soldi ipotizzato dai pm Walter Mapelli e Franca Macchia non è rettilineo, ma triangolato: un finanziamento illecito perfezionato a fine 2010 (quando Penati era capo della segreteria di Bersani) benché ideato nel 2008 (quand’era presidente della Provincia di Milano), secondo lo schema di una simulata trattativa d’acquisto da parte di Binasco di un immobile dell’imprenditore Di Caterina, quello che ha rivelato ai pm di aver finanziato il partito di Penati nella seconda metà anni 90, a volte anche con 100 milioni di lire al mese”, scrive il Corsera.

Il finanziamento illecito, alla fine, avrebbe assunto la forma di una caparra immobiliare versata dal 66enne Binasco, più volte arrestato in Mani pulite ma quasi sempre sgusciato tra prescrizioni e assoluzioni. Storico braccio destro dello scomparso nel 2009 Marcellino Gavio, e amministratore “delegato della cassaforte del gruppo (che gestisce 1.200 km di autostrade, è primo azionista di Impregilo e macina 6 miliardi di euro di fatturato), Binasco firma nel 2008 un contratto preliminare per l’acquisto di un immobile di Di Caterina, valutato in partenza a un prezzo molto alto”. Ma, nel farlo, “Binasco verga a mano una clausola che prevede che Di Caterina incameri una caparra generosissima, di ben 2 milioni di euro, nel caso in cui Binasco non eserciti l’opzione d’acquisto entro il 2010. E’ esattamente quello che accadrà, ma che per gli inquirenti “doveva” accadere sin dall’inizio: Binasco nel 2010 lascia decadere l’opzione, e così effettua quello che l’accusa qualifica finanziamento illecito di 2 milioni al pd Penati, perché in questo modo estingue nel 2010 un «debito» che Penati nel 2008 si era visto reclamare dal finanziatore Di Caterina”.

Nelle mani degli inquirenti, infatti, è caduta una missiva molto aspra indirizzata nel 2008 da Di Caterina non solo all’ex sindaco ds di Sesto San Giovanni ma anche a Binasco, sequestratagli nel portafoglio dai finanzieri della polizia giudiziaria milanese nel luglio 2009: “Nel corso degli anni, a partire dal 1999, ho versato a vario titolo, attraverso dazioni di denaro a Filippo Penati, notevoli somme” di cui “il sottoscritto ha cercato di tornare in possesso, ma, salvo marginali versamenti, senza successo. Penati ha promesso di restituire, dopo estenuanti mie pressioni, proponendo nel tempo varie opzioni che si sono rivelate inconcludenti fino a quando ha proposto l’intervento del gruppo Gavio”. Ma “ad oggi non è stato effettuato nessun ulteriore versamento, e ciò mi ha costretto a ricominciare nuovamente ad effettuare pressanti azioni di sollecito”. Riporta il Corriere della Sera, ricostruendo la vicenda. Con Di Caterina che prende atto di come Binasco cerchi di “chiamarsi fuori” e così “sollecita” a rispettare gli “accordi raggioni” nella lettera a Penati a Binasco. E nel novembre 2008 la trattativa immobiliare produce il suo scopo: liquidare a Di Caterina 2 milioni dietro lo schermo della caparra di Binasco e con il contributo tecnico di un professionista di Binasco ritenuto vicino a Penati, Renato Sarno (tra gli otto perquisiti mercoledì). E alla fine del 2010, puntuale, arriva la rinuncia di Binasco a esercitare l’opzione d’acquisto: Di Caterina si tiene l’immobile e incamera i 2 milioni di euro di caparra. “Nella sua lettera del 2008, Di Caterina si congedava da Penati e Binasco non proprio leggiadramente, ‘diffidandovi dall’assumere atteggiamenti minacciosi e offensivi’ e ‘ricordandovi che non si può giocare cinicamente con la vita degli altri. Tutto ha un limite’”.


I ladri e i Penati. - di Marco Travaglio





Gentile on. Pierluigi Bersani, giorni fa abbiamo posto alcune domande all’on. D’Alema sui politici a lui vicini finiti nei guai giudiziari e abbiamo avuto la fortuna di ricevere una risposta (salvo poi essere definiti “giornale tecnicamente fascista”). Ci riproviamo con Lei, nella speranza di ottenere una risposta (preferibilmente senza insulti). Una premessa: noi non pensiamo che Lei si sia macchiato di reati, né che i reati eventualmente commessi da qualcuno del Suo staff ricadano su di Lei. La responsabilità penale è personale. Ma quella politica no.

Parliamo di “culpa in eligendo”, la stessa che ha portato il premier britannico Cameron a scusarsi prima col suo popolo e poi col Parlamento per aver nominato un portavoce troppo vicino a Murdoch. Portavoce dimissionato su due piedi, anche se né lui né tantomeno Cameron avevano fatto nulla di penalmente rilevante. Cameron si è scusato “solo” per aver scelto il braccio destro sbagliato. Ora, on. Bersani, il caso vuole che Lei, quand’era ministro delle Attività produttive, avesse come suo consigliere Franco Pronzato, ora arrestato per aver preso una tangente da un’azienda che aveva appoggiato all’Enac in una gara d’appalto (accusa ammessa dallo stesso Pronzato, che ha chiesto di patteggiare): Pronzato infatti era contemporaneamente Suo consigliere, responsabile Pd per i Trasporti e membro del Cda dell’Enac.

Cosa Le è saltato in mente di nominare un personaggio in così palese conflitto d’interessi fra politica e affari? Lei può dire che non sapeva che Pronzato prendesse tangenti, ma non che ignorava il suo conflitto d’interessi, visto che all’Enac l’aveva indicato proprio il Suo partito. Ancor più grave è il caso di Filippo Penati, ex sindaco di Sesto San Giovanni ed ex presidente della Provincia di Milano, ora vicepresidente del Consiglio regionale della Lombardia, l’uomo che Lei, divenuto segretario del Pd, nominò capo della Sua segreteria: insomma il Suo braccio destro.

Adesso Penati è indagato per corruzione, concussione e finanziamento illecito con l’accusa di aver ricevuto, per sé e per il partito, tangenti da imprenditori interessati a speculazioni edilizie sull’area ex Falck di Sesto. Il costruttore Pasini racconta che Penati gli chiese 20 miliardi di lire nel 2000-2001 e ne ottenne oltre 5 tramite due intermediari, con pagamenti in Lussemburgo e in Svizzera, poi dovette pagare 1,25 miliardi per affari nell’area ex Marelli e altri 2 miliardi in finte consulenze a due emissari delle coop rosse. Alcuni versamenti sono documentati da carte bancarie ricevute per rogatoria dalla Procura di Monza.

E le accuse di Pasini sono già state confermate dal presunto intermediario penatiano, l’imprenditoreDi Caterina, che a sua volta racconta di essere stato “spremuto come un limone” – cioè costretto a pagare per anni fino a 100 milioni di lire al mese per poter lavorare – da Penati e dal Suo partito. Che Penati avesse un concetto piuttosto elastico, diciamo pure allegro, dei rapporti politica-affari, lo dimostravano già ampiamente le intercettazioni uscite anni fa tra lui e il costruttore Gavio nella sporca faccenda della Milano-Serravalle, costata un patrimonio alla Provincia di Milano: Penati chiamò Gavio dicendo che Lei gli aveva dato il numero privato.

Lei ha liquidato l’inchiesta su Penati come “roba vecchia”: ma, se anche fosse, questa per Lei sarebbe un’aggravante, visto che in tutti questi anni non s’è accorto di quel che faceva chi Le sta accanto. Immaginiamo cosa sarebbe accaduto senza le indagini. Tra un paio d’anni Lei avrebbe potuto vincere le elezioni, diventare premier e portarsi al governo i suoi due più stretti collaboratori: Penati sottosegretario alla presidenza del Consiglio e Pronzato ministro dei Trasporti. Salvo magari scoprire che erano due corrotti. Visto il Suo fiuto da rabdomante nella scelta dei fedelissimi, è proprio sicuro di essere il miglior candidato del centrosinistra alle prossime elezioni? In attesa di un Suo cortese riscontro, porgiamo distinti saluti.


D’Alema, Bossi e B., la Casta fuori di testa. - di Luca Telese



Che cosa unisce il pugno battuto sul tavolo dal Caimano e la voce dal sen fuggita (e subito dopo rimangiata) di Umberto Bossi? Che cosa unisce al pugno del berlusconismo decadente e al rutto del celodurismo crepuscolare (“In galera!”) e il gesto simpatico del lìder-bullo maximoche si infila gli occhiali nel taschino e preannuncia emorraggie del setto nasale (“Quelli che erano nella sua posizione, quando io facevo questo gesto si ritrovavano sanguinanti a terra?”) ai suoi intelocutori? Cosa unisce ai tre grandi crepuscoli l’agitare scomposto delle pulci che si credono giganti, come quei due dirigenti del Pdl che ieri volevano addobbare il nostro cronista solo perché faceva una domanda (legittima) su un elicottero pubblico dedicato all’interesse privato? Cosa unisce alla caduta degli dei il fragore ridicolo dei ministri che comprano a loro insaputa, piazzano il parentame e attrezzano querele, i deputati ruba-galline del Pdl che si pagano la suite da nabbabbi, e l’esponente democratico che patteggia una condanna lampo?

C’è un filo lungo che in queste ore tiene insieme le mani che prudono contro le domande scomode, lo sfavillante smottamento di tre grandi carismi e l’avvitamento solipsistico dei tre leader fuori controllo. C’è un virus malato che si trasmette dai piani alti ai piani bassi, un odore cattivo di cancrena, una voglia di combattere con la violenza (fisica o avvocatizia) l’evidenza della realtà. C’è un filo che unisce le minacce della ministra Brambilla che era arrivata a chiedere a questo giornale tre milioni di euro (non li avrà) e il dispetto per il lavoro di inchiesta. Dice Silvio Berlusconi de Il Fatto: “Senza di me voi non esistereste”, e non sa che ci fa un complimento. Dice Massimo D’Alema che siamo un giornale tecnicamente fascista, e non sa che siamo stati tecnicamente sommersi da parole di solidarietà.

C’è un filo spesso come uno spago che unisce la malinconica e perdente stizza di Silvio Berlusconi, la patetica confusione di Umberto Bossi e il simpatico e archilochèo eloquio diMassimo D’Alema, distanti nei tempi e nella qualità ma uniti come tre avvisi di garanzia, tre certificazioni di cessata lucidità intellettuale.

Berlusconi, che un tempo fu mago della manipolazione iconografica e mediatica, compie l’errore di svelarci platealmente la sua impotenza. Bossi, che fu inimitabile prestigiatore e incarnazione geniale del ganassa cede brabndelli di carisma costrigendosi a ritrattazioni inverosimili di sparate che un tempo avrebbe difeso con orgoglio. D’Alema esibisce la nuvola del suo malumore di fronte ai giornali che osano parlare degli arresti e delle inchieste che riguardano il Pd.

La gravità e la qualità di questi moti di umor nero sono diversi, così come le cause. Ma comune è il fenomeno di invecchiamento, l’obsoletizzazione di una classe dirigente che per venti anni ha deciso il bello e il cattivo tempo della politica italiana. Tutto si poteva dire di D’Alema, negli anni passati – amandolo o detestandolo – se non che non non avesse una linea politica una rotta, una identità forte. Ma oggi, anche lui, lancia segnali contraddittori. Scrive sulla nuova unità una articolata analisi per dire che bisogna dialograre con i movimenti, ma poi considera ingiuria il solo fatto che su questo giornale Marco Travaglio gli ponga delle domande sulle vicende giudiziarie del Pd.

C’è in queste tre grandi maschere della politica italiana – Bossi, D’Alema e Berlusconi – lo stesso fascino malinconico dell’androide di Blade Runner, che conserva intatto il suo senso di onnipotenza superomistico, ma che allo stesso tempo sa che nessuno potrà alterare quello che è scritto nel suo destino: la data di scadenza. In fondo, sia Berlusconi, Bossi e D’Alema, sono diventati oggi dei Balde Runner di se stessi, dei replicanti di quello che sono stato nella prima repubblica. Bossi fondò la Lega venti anni fa, dopo aver cominciato a battere le valli nel lontano 1985. Bossi è l’uomo che fotografava il monumento ad Alberto da Giussano per trarre dai negativi il simbolo fai-da-te del Carroccio (anche se Gianfranco Miglio diceva perfido, dopo il litigio: “Macchè, lo ha copiato dalle biciclette della Legnano!”), Silvio Berlusconi vendeva gli appartamenti della sua prima speculazione, nel 1974, chiamando i parenti a fingersi compratori per abbindolare i veri compratori (un genio, anche se ad un tratto una disse: “Zia, come stai!”, facendo mangiare la foglia agli interessanti), Massimo D’Alema, anche può sembrare incredibile, è quel giovane che appare in un reperto televisivo del 1977, tormentato in tv da un indiano metropolitano di nome Gandalf.

Questi tre leader sono antichi, le tensioni che produssero i grandi banzi non ci sono più, i loro partiti sono attraversati da pulsioni materialissime. Adesso che il tempo degli androidi è scaduto, come Rutger Hauer dovrebbero capire che è ora di passare la mano, e di dissolvere le loro storie come lacrime nella pioggia.

Adesso che il loro tempo è finito, dovrebbero capire che trent’anni di palcoscenico sono troppo per qualunque mattatore. Invece non passano la mano, non accettano di essere sostituiti, continuano a pensare di avere il sole in tasca, l’attrezzo in tiro e la forza che spezza l’acciaio nelle mani. Ed è proprio questo che rende il loro crepuscolo non un finale di drammaturgia, ma un problema per il paese. Nei paesi democratici i leader se ne vanno senza drammi, nelle repubbliche delle banane i caudilli restano in campo finchè non li spazza una rivolta di piazza. E finché qualcuno, tecnicamente giornalista, non racconta la loro fine trovando un senso a una storia che un senso non ha.



Non possiamo più aspettare.


Chi, leggendo la storia, non ha notato che ai periodi di progresso sociale, economico e tecnologico, succede sempre un periodo di estenuante e alienante stasi?

Noi ci siamo trovati, malauguratamente, a vivere un periodo buio.

Ci domandiamo perchè, ma un perchè non c'è.

E' naturale, in un periodo di espansione economica, tecnologica, sociale, rilassarsi e prestare poca importanza alla vita sociale, alle cose importanti.

Noi abbiamo commesso l'errore di rilassarci, magari un po' troppo, lasciando ad altri, non più qualificati di noi, la gestione della cosa pubblica.

Il risultato è quello che vediamo: distruzione totale delle regole, della logica, in poche parole, perdita dei diritti acquisiti.

Affidereste la vostra famiglia o il vostro patrimonio culturale, o i vostri averi alla cura di gente della quale conosciamo solo un'immagine sulle locandine in strada? Della quale non sapete nulla o quasi?

Non credo.

Noi abbiamo fatto questo: abbiamo affidato le nostre vite a gente che non conoscevamo affatto e che se ne è appropriata privandoci, poco per volta, di ogni tipo di diritto, lasciandoci solo i doveri.

Noi stiamo pagando errori commessi da altri, noi siamo un popolo bue, portiamo ferite che lecchiamo per non sentire dolore, parliamo, discutiamo, ci incazziamo, ma non andiamo oltre, ci hanno inculcato la paura delle nostre stesse ombre.

Abbiamo ciò che meritiamo?
Non lo so. So solo che uniti potremmo riportare tutto alla normalità.

Non possiamo aspettare che Napolitano, in un impeto di generosità verso il popolo che dovrebbe proteggere, sciolga le camere; non possiamo sperare che il premier si dimetta; non possiamo aspettare che chi ha fatto della politica un posto di lavoro a reddito fisso ed a tempo indeterminato, si mostri generoso nei nostri confronti.

Semplicemente, non possiamo più aspettare!


Catania, redigeva atti falsi arrestato notaio Ciancico


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Falso in atto pubblico, truffa aggravata e peculato le accuse. Avrebbe redatto atti falsi per incassare differenze fiscali non dovute. Confrontati decine di documenti con le testimonianze dei clienti. Si continua ad indagare su altri 40 atti non registrati.


di Elena Giordano

Stipulava gli atti, si faceva consegnare le somme per le imposte dovute (registro, ipotecarie e catastali) e, invece di trasmettere all’agenzia delle entrate l’atto originale sottoscritto dai clienti, ne inviava uno falso - da lui stesso predisposto – inserendovi una falsa clausola con la quale il professionista autoliquidava le imposte secondo un regime fiscale agevolato nella maggior parte dei casi non spettante ai contraenti.

Falso in atto pubblico, truffa aggravata e peculato sono le accuse che ricordano i film di Toto' che hanno trascinato agli arresti domiiciliari un pezzo importante della catania che conta, il notaio Vincenzo Ciancico, professionista di fiducia della grande borghesia catanese. Secondo l'inchiesta delle Fiamme Gialle, coordinata dal pm Tiziana Laudani, la differenza tra le imposte calcolate sull’atto originale e quelle dovute in base all’atto falso finiva direttamente nelle tasche del notaio, che avrebbe utilizzato un conto corrente personale cointestato con la moglie, piuttosto che adoperare il conto corrente appositamente acceso per l’attività professionale.

Le indagini, durate un anno, hanno passato al setaccio centinaia di documenti acquisiti presso l’archivio notarile di Catania, l’agenzia delle entrate, gli atti in possesso dei vari clienti e gli accertamenti bancari sui conti del professionista. E i numerosi clienti interrogati dagli investigatori avrebbero confermato la colossale truffa.

Si continua ad indagare su ulteriori 40 contratti che sembrerebbero addirittura non essere stati mai registrati dal notaio ed in relazione ai quali sarebbero anche stati apposti falsi numeri di repertorio.

Con l'ordinanza del gip Laura Benanti, infine, sono stati sequestrati beni per oltre 500.000,00 euro riconducibili al professionista.

http://www.iquadernidelora.it/articolo.php?id=508