domenica 2 ottobre 2011

Calderoli: “Berlusconi ci ricattò sul Porcellum, con Casini e Fini”. Ma non spiega come




Il ministro leghista, intervistato dal Tg1, evoca oscuri retroscena sulla legge elettorale che ha determinato la scelta di due parlamenti, nel 2006 e nel 2008. Non aggiunge alcun dettaglio, e il conduttore del notiziario di Raiuno si guarda bene dal chiederglielo.
Gli italiani hanno scelto il loro parlamento per due legislature con una legge elettorale frutto di ricatto. Un ricatto tutto interno al centrodestra. Lo afferma Roberto Calderoli, ministro della Semplificazione e “padre” della legge che lui stesso definì “una porcata”, varata in fretta e furia dalla maggioranza berlusconiana il 13 ottobre 2005, in vista delle politiche dell’anno dopo, nel tentativo di tamponare il previsto bagno di sangue. Il “Porcellum” aboliva i collegi uninominali e tornava al vecchio sistema proporzionale, con in più il premio di maggioranza e le liste bloccate, che toglievano all’elettore la possibilità di esprimere una preferenza.

“La Lega e il sottoscritto erano a favore del Mattarellum”, afferma Calderoli al Tg1, riferendosi alla legge elettorale riproposta ora dal referendum (qui il brano del Tg1 delle 13,30), ma “fummo ricattati da Casini e dall’Udc per introdurre un sistema proporzionale, da Fini che voleva le liste bloccate e Berlusconi che voleva il premio di maggioranza”. E la sinistra, continua il ministro, dette la sua “collaborazione non dicendo nulla”.

Qual era la materia del ricatto? Calderoli non lo dice e, incredibilmente, il conduttore del Tg1 non fa una piega e continua l’intervista come se niente fosse, senza chiedere conto al ministro delle sue gravi affermazioni.

Per il Pd reagisce Davide Zoggia, responsabileper gli Enti locali ”La Lega in caduta libera prima di tutto presso i suoi elettori ormai non sa più a che alibi votarsi: Calderoli che oggi si rimangia il suo Porcellum e piagnucola su fantomatici ricatti è l’immagine più patetica di questo inesorabile tramonto”.


Gli affari di Finmeccanica e il caso Battisti “Non si può buttare all’aria tutto”. - di Antonio Massari




Dall'inchiesta di Napoli emerge uno scambio sconcertante: a giugno le pressioni per l'estradizione del terrorista si scontrano con l'affare della società italiana con il Brasile per forniture di navi e aerei.
“Purché sia un governo che governi”. Questa è la frase più ricorrente in questi giorni, nel palazzo di piazza Montegrappa, la sede di Finmeccanica a Roma. Segno che Silvio Berlusconi non regge più il peso della politica estera, quella che più interessa al colosso industriale italiano, legato a doppio filo con gli affari internazionali, come per Eni o Fincantieri. Per capire le frizioni tra i colossi dell’industria, e la politica estera, basta rileggere il “caso Battisti” alla luce delle intercettazioni dell’inchiesta su Valter Lavitola.

Per comprendere quanto siano delicati i rapporti tra la politica estera “del fare” – quella che punta ai miliardi – e le dichiarazioni della politica parlata, è sufficiente rileggere un’intercettazione del 7 giugno. I pm napoletani intercettano l’ex direttore commerciale di Finmeccanica, Paolo Pozzessere, che parla con il presidente Piero Guarguaglini: “Guarguaglini – si legge negli atti – chiama Paolo e gli comunica di essere stato contattato dal Quirinale e lo avrebbe informato del fatto che oggi alle ore 02,00 brasiliane si riuniscono i giudici”. La data è fondamentale: siamo a ridosso della sentenza brasiliana che negherà l’estradizione del terrorista in Italia. La politica preme perché Battisti torni nel nostro Paese. E con toni durissimi. Ai colossi industriali italiani, del rientro di Battisti, non interessa nulla: con il Brasile c’è in ballo una commessa che vale dai 6 ai 10 miliardi di euro. Commesse per esportare navi che riguardano Fincantieri: fregate e pattugliatori destinati alla marina fluviale, sistemi satellitari per il controllo delle coste e dei giacimenti petroliferi (d’interesse Eni). Le navi sono armate, da qui l’interessamento per l’industria di Finmeccanica. È questo che c’è in gioco mentre il Brasile decide la sorte di Battisti. Ed è per questo che Pozzessere, quando il suo presidente gli dice d’essere stato contattato dal Quirinale e che, alle 2, si riuniscono i giudici, commenta con un laconico: “Purtroppo”. Il direttore commerciale di Finmeccanica spiega che, della vicenda, s’è parlato già il 2 giugno con il ministro degli esteri Franco Frattini, e lascia intuire che l’affare rischia di sfuggire dalle mani.

Le impunatture della Difesa
Guarguaglini risponde: “Per quello che posso cercherò di tenermelo buono”, aggiunge che “se vede Frattini bisogna dirgli che gli hanno telefonato, che bisogna dirlo in modo chiaro a Berlusconi e a Letta”. E Pozzessere è d’accordo: “Se ci sono casini – risponde – si passa dal Presidente, perché non si può buttare all’aria tutto per un’impuntatura”. L’impuntatura, secondo fonti attendibili, è soprattutto quella di Ignazio La Russa, perché da mesi il ministro della Difesa usa toni durissimi nei confronti del Brasile. E le parole di La Russa pesano doppio perché, nella stipula degli accordi, è prevista la firma di entrambi i ministri della Difesa, quello italiano e brasiliano. È soprattutto lui che Finmeccanica ha bisogno di zittire. Il commento del presidente Napolitano, il 9 giugno, sarà durissimo: parlerà di un atto ”gravemente lesivo del rispetto dovuto” agli accordi tra Italia e Brasile e del rispetto della lotta al terrorismo combattuta dall’Italia ”nella rigorosa osservanza delle regole dello stato di diritto. Una decisione che contrasta con gli storici rapporti di amicizia tra i due paesi e appoggia pienamente ogni passo che l’Italia vorrà compiere”. Ma la successiva dichiarazione di La Russa – alla luce delle pressioni di Finmeccanica – appare davvero interessante: ”Non sto contando fino a dieci, ma fino a mille, prima di fare un commento. Sto mordendomi la lingua e non cedo alla tentazioni di esprimere possibili contromisure”.

A gennaio, invece, La Russa aveva dichiarato che erano “a rischio le relazioni commerciali”. Ma nel frattempo, a febbraio, il Parlamento in gran silenzio – mentre la questione Battisti era aperta e già si presagiva la mancata estradizione – aveva approvato un ddl per ratificare gli accordi – sull’affare in questione – tra Brasile e Italia. Il doppio binario avanzava da tempo. La diplomazia di Finmeccanica e Fincantieri aveva raggiunto l’apice durante il terremoto di Haiti, quando parte per il Sudamerica parte la nave Cavour, in soccorso degli sfollati, sì, ma quelli brasiliani. Il ministro Tremonti s’acquietò soltanto quando seppe di non dover sborsare (quasi) un centesimo: l’operazione non venne finanziata dal governo, ma proprio da Fincantieri e Finmeccanica, per “oliare”, con un’operazione velata dalla solidarietà, la commessa da chiudere con il paese brasiliano.

Il fattore Berlusconi
Neanche Berlusconi, in fondo, aveva fatto il suo dovere appieno, in base al bon ton della diplomazia industriale: il Brasile chiedeva che la chiusura dell’accordo tra Stati fosse sancita a Brasilia ma gli impegni del premier non riuscivano a soddisfare la richiesta del paese che stava mettendo sul tavolo un affare da almeno 6 miliardi di euro. L’accordo si chiuse nel 2009, ma a Washington, durante il G20. Unica concessione di Berlusconi alla richiesta di Ignacio Lula: l’accordo fu comunque firmato nell’ambasciata brasiliana. “Un governo che governi”, ecco cosa chiede Finmeccanica, e Berlusconi – con le sue intemperanze e le dichiarazioni di La Russa sul caso Battisti – non è più il soggetto ideale per la “politica estera” del colosso industriale. Anche per questo, ormai, Berlusconi è stato scaricato da Guarguaglini con un’intervista al Messaggero – “A Berlusconi ho detto no quando mi parlò di Tarantini” – e da sua moglie, Marina Grossi, ad di Selex sistemi integrati: “Berlusconi poteva risparmiarci almeno Tarantini e Intini”. E ora che nel ciclone c’è pure Valter Lavitola – l’uomo che, presentato a Finmeccanica da Berlusconi, consentì di chiudere un’affare da 180milioni di euro – il premier è definitivamente inaffidabile anche per la lobby di piazza Montegrappa. Che è convinta, per esempio, di aver perso importanti commesse con la Turchia di Erdogan anche per colpa della pessima figura internzionale legata ai bunga bunga del premier.



La verità di Katarina: “Valgo 3 milioni ma non ricatto B. Sono la first lady”. - di Enrico Fierro







Il racconto della fidanzata del premier, dal Bronx di Podgorica alla villa di Arcore. "Il giorno del suo compleanno mi ha dato l'anello di fidanzamento". Fede dice che lo tengo sotto scacco? E' soltanto invidia, non si ricatta la persona che si ama".
Signora Katarina posso farle qualche domanda?
Si, ma faccia in fretta che sto partendo per Arcore.
Ad Arcore, dicono alcuni intimi di Berlusconi, lei fa la cameriera, è vero?
Sono menzogne, bugie di chi vuole male a me e al mio amore.
Chi è il suo amore, mi perdoni?
Lui, Silvio Berlusconi…
E lei non è la sua cameriera?
No, quante volte lo devo dire. Io sono la fidanzata ufficiale di Berlusconi, lo scriva, per favore, e cercate almeno per una volta di evitare di dire menzogne.
Ma lei ad Arcore cosa fa?
Arcore è la mia casa, visto che lei insiste le do una notizia, l’altra sera, nel cuore dei festeggiamenti per il suo compleanno il Presidente mi ha regalato l’anello di fidanzamento, siamo fidanzati ufficialmente.
Le faccio i miei auguri, e quando vi sposate?
È come se gia fossimo marito e moglie, sposati, uniti dall amore, il resto sono convenzioni pure e semplici.
Quindi lei è la nuova fist lady italiana?
Sono l’unica donna di Silvio Berlusconi, la sua fidanzata.
E il bunga bunga, le serate allegre con le altre donne? Lei legge i giornali italiani…
Menzogne, cose che non voglio neppure sentire, malignità. Io lo amo e questo basta.
È vero, come dicono alcune testimoni che lei e le sue sorelle ricattate Berlusconi?
Non si puo ricattare l’uomo che si ama.
È vero che Berlusconi vi ha versato 750mila euro?
Così poco… e se fossero tre milioni?
Lo dica lei quanti sono.
Penso di valere molto di piu di quella cifra.
Quanti anni aveva quando ha conosciuto Berlusconi?
Non so, non ricordo, ma non e questo che conta. Il nostro e un amore grandissimo, il resto sono balle, invenzioni, malignita.
Eppure Emilio Fede, almeno stando a quanto rivelato da una ragazza che frequentava Arcore, insisterebbe nel dire che lei tiene sotto scacco Berlusconi.
Emilio Fede? E chi è?
Un’altra ragazza racconta di quando lei si spogliava durante le cene e si metteva nuda in mezzo al tavolo.
Invidia di chi voleva essere la prima donna. Silvio ha scelto me e questo provoca invidie e veleni.
Ricorda quella scena di gelosia, quando si buttò dalle scale?
Si puo cadere dalle scale anche se si è bevuto troppo e si perde l’equilibrio.
Un’ultima domanda: presto la vedremo accanto al premier durante le visite ufficiali?
Penso di sì, sono la fidanzata ufficiale di Silvio Berlusconi.
***
Sono da poco passate le sei di sera, quando finiamo di parlare con Katarina. Ha fretta, deve volare per Milano direzione Arcore, dove c’è l’amore suo. Berlusconi è gia da due ore nel capoluogo lombardo, a Milanello per incoraggiare i suoi alla vigilia della sfida con la Juventus. Questa intervista è stata resa possibile grazie all’aiuto di un amico della ventenne Katarina,Nebojsa Sodranac, 38 anni, giornalista sportivo di InTv, uno dei piu seguiti network del Montenegro. È qui che Katarina, appena diciassettenne, ha iniziato a lavorare. Piccole interviste a calciatori minori, comparsate, primi passi verso la ricerca del successo a tutti i costi. Quella voglia matta di fuggire da Murtovina, il Bronx di Podgorica. Una lunga strada polverosa attraversata da camion sgangherati e vecchie macchine. Poco a che vedere col lusso del centro della città, con le Mercedes, i suv Toyota guidati da bellezze mozzafiato. Un market che vende di tutto, strade strette e case con le serrande sbarrate. Sono case di appuntamento, ci dice il taxista, vieni qui, paghi e trovi quello che vuoi. Piu in là dei locali di lap dance, una pretenziosa caffetteria e una pizzeria.

In una strada stretta di terra battuta ci sono una ventina di casette basse, quella di Milorad Knezevic, una vita a spaccarsi la schiena nei cantieri dell’edilizia come muratore, ha il cancello sbarrato. Sulla verandina un dondolo abbandonato da tempo. Non si vedono i segni della ricchezza portata dal fidanzamento della ventenne Katarina con uno degli uomini più ricchi del mondo. Non ci sono, dice una vicina, sono andati via. Dove è impossibile saperlo. Qui la gente parla poco e si divide quando deve giudicare Katarina, la sua gemella, Slavica e Zorica. Le sorelle che hanno fatto fortuna in Italia. Per alcuni la fidanzata ufficiale di Berlusconi è la terribile Katarina, per altri è la regina d’Italia. “Ha fatto bene a far perdere la testa al vostro presidente”, ci dice ridendo una donna che vende mele all’angolo della strada. Due partiti, giudizi contrastanti, alimentati a metà settembre dalla lettura di un articolo sul quotidiano di Zagabria Jutranji List, che per primo ha raccontato delle tre sorelle e del ricatto.

Berlusconi, si legge, le presenta come le nipotine dell’ex premier montenegrino Djukanovic ed era completamente soggiogato dalla loro bellezza. La storia del ricatto, scrive lo Jutranji, nasce quando Slavica, la maggiore delle sorelle, filma alcuni incontri. Scene di sesso, orge, ammucchiate, scrive il quotidiano croato. Disprezzo, invidia, ammirazione, sono i sentimenti che le “sorelline italiane”, come le chiamano, suscitano al Market, allo Shas, i locali alla moda, tra le ragazze che il venerdì notte tirano fino a tardi stordendosi di musica e Bacardi. Tutte hanno speso una fortuna per vestirsi e fasciare la loro bellezza nei tubini neri italiani. Qui Katarina Knezevic è un mito. Il sogno che si e realizzato. Comunque.


Referendum anti-porcellum Bersani ha firmato oppure no? - di Luca Telese







I vertici del Partito Democratico non hanno dichiarato se hanno dato il 
proprio contributo per cambiare l'attuale legge elettorale. Il segretario 
del Pd a luglio aveva detto che il partito "non fa referendum, ma lavora 
per un legge in parlamento”. Poi ad agosto era arrivata la firma, 
pesantissima, di Romano Prodi.

E, alla fine, scoppiò “la guerra della firma fantasma” e l’ennesimo paradosso del ma-neanche bersaniano. Il segretario del Pd ha firmato o non ha firmato i quesiti contro la legge dei nominati?
Ieri, a piazza Navona, Fiorella Mannoia diceva che l’Italia è il paese del reverse, in cui tutto funziona al contrario, in cui gli inquisiti mettono sotto accusa gli onesti, e i colpevoli tartassano gli innocenti”. Ci deve essere qualcosa di vero, in questo paradosso, se ieri, per tutto il giorno, sulle agenzie si è combattuta una strana guerra di dichiarazioni, in cui un dirigente del Pd, Arturo Parisi, rimproverava al suo segretario di non aver firmato il referendum anti-porcellum, e l’interessato, Bersani, non rispondeva.

Ci deve essere qualcosa che va spiegato, a sinistra, se il responsabile organizzazione del Pd,Nico Stumpo, pochi giorni fa, aveva vantato come un successo le 200 mila firme raccolte ai banchetti nelle feste del suo partito, ma allo stesso tempo ricordava che il suo partito non intende far parte del comitato referendario. Insomma, si perpetua il paradosso dei referendum di giugno, a cui la base del Pd ha dato un contributo decisivo, ma in cui il gruppo dirigente fino alla settimana prima del voto non credeva. Certo, il primo fatto da raccontare è che le firme necessarie sono state raccolte, e che giustamente Parisi ieri, intervenendo dal palco di Sel, era orgoglioso di questo successo.

Ma resta il problema politico. La polemica, due giorni fa, era stata accesa proprio da una frase di Bersani: ‘”Ho avuto molti ringraziamenti prima dell’estate quando sono stati messi i banchetti – aveva detto il segretario – mi aspetterei che ora che abbiamo raccolto centinaia di migliaia di firme ci fossero uguali ringraziamenti. Sono stupefatto”. Bersani era stupito, perché nello stesso giorno, gli ulivisti del Pd, sparavano bordate contro di lui. Come quella di Mario Barbi, che a commento della dichiarazione a caldo di Bersani (“Non abbiamo messo il cappello, abbiamo messo i banchetti”) aveva risposto: “Sarebbe bello ed elegante se Bersani lasciasse il cappello sotto i banchetti anzichè metterlo sopra”. Poi erano arrivati gli strali dei “rottamatori” di Prossima Italia, che avevano aperto una pagina Facebook dal titolo “Ma Bersani ha firmato?”. E il segretario si era arrabbiato: “Non vedo ragione di polemiche”, aveva replicato in serata, dal seminario organizzato da Rosy Bindi: “Non avevamo promosso neanche gli altri 4 referendum – diceva – ma avevamo contribuito a raccogliere le firme, sostenuto la battaglia e l’avevamo portata alla vittoria“.

Vendola ieri da piazza Navona diceva unitario: “C’erano posizioni diverse, ma abbiamo fatto un miracolo: ora restituiamo il parlamento agli elettori”. E Di Pietro con affettuoso sarcasmo: “Io mi sono fatto l’estate sui banchetti… Ma sono contento che Bersani ci sia”. Però il portavoce di Parisi,Andrea Armaro, prendeva cappello cesellando notarella caustica sulle posizioni del segretario e sul giallo della sua firma: “Se la distanza dal referendum era un errore comprensibile e perfino rispettabile, come gli abbiamo detto, riconoscendo la sua fatica nel portare a sintesi e anche nascondere il profondo conflitto interno del Pd – spiegava ieri Armaro – non lo è la vicinanza di oggi. Se la freddezza di ieri era un errore comprensibile, l’eccessivo calore di oggi è una falsità inaccettabile”. E poi c’era quella stilettata che lo stesso Parisi aveva consegnato ad una intervista di Fabio Martini su La Stampa: “Perché Carlo Vizzini del Pdl ha firmato e Bersani e D’Alema no? La verità è che il vertice del Pd non è stato nè alla testa nè alla coda di questo movimento. All’inizio Bersani aveva elaborato una teoria per bloccare il referendum”. Armaro ci metteva il carico: “Bersani sostiene di aver firmato ed è un falso. Vi pare che nessuno se ne sia accorto? Come mai non un fotografo lo abbia immortalato?”.

In realtà, se si vuole capire il senso politico della disputa occorre un passo indietro. In principio, prima dell’estate, esistevano due quesiti. Uno proposto dal senatore Stefano Passigli sostenuto dall’ala dalemiana del Pd, Rifondazione (e, si diceva, dalla Cgil di Susanna Camusso) proponeva l’abrogazione del porcellum suggerendo la restaurazione del sistema proporzionale di coalizione. L’altro, quello di Parisi. Il primo sembra avere più appoggi politici e più chances, ma a Parisi riesce un piccolo capolavoro: convincere Antonio Di Pietro e Vendola che si deve puntare al cosiddetto Mattarellum (con collegi uninomiali e recupero proporzionale e vincolo di coalizione). Con questa mossa il referendum prende quota (Sel e Idv garantiscono da sole 300 mila firme in piena estate), ma il Pd si spacca. Scriveva ieri Chiara Geloni, direttrice di Youdem bersaniana doc: “Sono orgoliosa di non aver firmato”. Il motivo è anche politico: i dalemiani temono che il referendum Parisi produca un sistema troppo bipolare, allontanando l’Udc. La grana arriva nella Direzione del Pd del 19 luglio. Il partito si esprime unanimemente contro il referendum e Bersani dice con nettezza: “Il Pd non fa referendum lavora per un legge in parlamento”. E’ il gelo. Persino Veltroni“congela” la sua firma. Parisi parte lo stesso, e tenta una impresa impossibile. A fino agosto arriva la firma pesantissima di Romano Prodi. Veltroni torna in campo. Mezzo Pd si mobilita, i militanti affollano i banchetti. Bersani sente il vento e cambia marcia. Ma forse, in questo cortocircuito fra il ma-anche e il ma-neanche il Pd fatica sempre a scegliere perchè non trova mai una quadra fra le sue mille anime.


Condannato per mafia, libero dopo 2 giorni Il giudice dimentica i tempi della carcerazione. di Davide Milosa







Il 27 settembre Carmine Valle, presunto boss della 'ndrangheta 


lombarda, viene condannato a nove anni. Due giorni dopo il Riesame lo 


rimette fuori. Motivo: il processo è andato oltre i sei mesi fissati per la 


custodia cautelare in carcere.


Condannato per mafia. E scarcerato due giorni dopo perché i termini della custodia cautelare sono scaduti ormai da tempo. Succede a Milano, dove il 27 settembre scorso il gup Andrea Salemme ha condannato a nove anni Carmine Valle, figlio di don Ciccio, influente padrino di quella ‘ndrangheta che da tempo ormai sta colonizzando la Lombardia.

Il cortocircuito è dovuto a un problema tecnico. Eccolo spiegato: a differenza di molti componenti del presunto clan, il giovane Valle, nel gennaio scorso, sceglie di venir processato attraverso il rito abbreviato. Il punto è decisivo. In questo caso, infatti, i termini della custodia cautelare in carcere scadono dopo sei mesi dalla richiesta dell’imputato del rito processuale. La tempistica per la scarcerazione nel procedimento ordinario supera, invece, l’anno.

Il processo, condotto dal giudice Salemme, però, sfora il tetto e si conclude in oltre otto mesi. L’errore è marchiano. Gli avvocati di Valle lo sanno bene. E così a luglio fanno richiesta di scarcerazione. La legge è dalla loro parte. Salemme però respinge la richiesta. In realtà, il giudice, approdato al Tribunale di Milano circa due anni fa, sa bene che è solo questione di tempo. Così sarà. Il 29 settembre il Riesame accoglie la richiesta dei legali e rimette in libertà Carmine Valle, ma anche Bruno Saraceno, definito “factotum della cosca” e che lo stesso Salemme ha condannato a dieci anni.

Ricordiamo, allora, i fatti. Il giovane rampollo del casato mafioso, imparentato con influenti uomini della cosca De Stefano, come Paolo Martino, finisce in carcere il primo luglio 2010. L’operazione, coordinata dal procuratore antimafia Ilda Boccassini, fa scattare le manette per 15 persone. Dall’elenco spuntano nomi noti alle cronache mafiose, ma anche personaggi dell’imprenditoria lombarda. Tutti sono protagonisti di un disegno criminale che oltre all’usura, punta alla politica, ai grandi appalti e alla golosa torta del gioco d’azzardo. Il cocktail è esplosivo, la vicenda interessante. Il blitz della squadra Mobile di Milano va in scena in diverse località dell’hinterland. C’è la villa bunker di Bareggio in cui abita da anni l’anziano Ciccio Valle. Ma anche la Masseria di Cisliano, ristorante dagli arredi hollywoodiani. Nelle oltre trecento pagine il gip Giuseppe Gennaricontabilizza un giro d’affari milionario.

I Valle sono ricchissimi. Possiedono società immobiliari, bar, palazzi, terreni. Un patrimonio occultato dietro a un rosario di prestanomi. Tra i locali della cosca c’è il bar Giada. Tre vetrine d’angolo in via Capecelatro a due passi dallo stadio di San Siro. Il titolare è la famiglia Fazzolari. Solo facciata. Perché la proprietà è di Carmine Valle. Il presunto boss, classe ’79, nato a Reggio Calabria, ma cresciuto sulla sponda sud del Naviglio, al bar Giada si comporta da padrone. Si mette in tasca gli incassi di brioche e caffé. Ma anche i soldi delle slot machine. Un bel tesoretto che il ragazzo regolarmente porta in dote al padre-padrino.

Per il gip il particolare risulta decisivo. E così, oltre a chiederne l’arresto per associazione mafiosa (Carmine Valle risulta partecipa dell’organizzazione), il giudice definisce in questo modo il suo ruolo: “Contribuisce al rafforzamento economico del sodalizio criminoso gestendo, attraverso i prestanome, La Giada srl affinché gli altri componenti dell’associazione possano eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale”. Di più: due imprenditori vicini alla cosca hanno dichiarato come “la Giada s.r.l.” fosse “totalmente riferibile ai Valle e materialmente gestita da Carmine Valle, fratello di Angela e Fortunato”. Tanto che gli stessi cellulari intestati alla famiglia Fazzolari venivano utilizzati dal figlio del boss.

Carmine Valle, durante il processo, ha preso le distanze dalla famiglia. Particolare che porterà il pm Paolo Storari a chiedere una condanna di 7 anni e 4 mesi. Il giudice, invece, l’ha aumentata di due anni. Oggi però il presunto affiliato alla ‘ndrangheta lombarda è ufficialmente un uomo libero. Su di lui non pesa alcuna restrizione. Ne pesarà, a meno che lo richieda il pm con una nuova ordinanza. Il rampollo del padrino, dunque, pur condannato per mafia, potrà tranquillamente girare indisturbato tra Vigevano, Bareggio e Milano.


Dove la disoccupazione cresce la politica guadagna di più. di Chiara Paolin




L'economista Andrea Gennaro ha pubblicato un dossier sul sito lavoce.info. Risultato: gli stipendi degli amministratori sono salati mentre i risultati degli investimenti deludono. Maglia nera la Sardegna con oltre 14mila euro al mese per il governatore
“Quest’estate ero al mare in Sicilia, e leggevo sui giornali gran polemiche sugli stipendi dei consiglieri regionali. Gli onorevoli siciliani, come li chiamano laggiù. Allora ho pensato di andare a vedere quanto guadagnano davvero governatori e consiglieri comparando le indennità con i dati relativi al benessere economico della popolazione, cioè Pil e tasso di disoccupazione. Il risultato è sconfortante”. Andrea Garnero parla dal suo ufficio di Bruxelles, è un giovane economista che ha lasciato Cuneo per girare le università europee. Ma il suo cuore è rimasto impigliato nei guai tricolori.

Su lavoce.info ha pubblicato un report sui costi della politica regionale ed emette un verdetto chiaro: gli stipendi degli amministratori sono salati mentre i risultati dell’investimento deludono. Soprattutto nel Sud. A contendersi la maglia nera le solite note: Sardegna, Sicilia, Campania, Calabria, Puglia, Molise. Terre preziose per chi riesce a salire sullo scranno, visto che i governatori meritano compensi tra i 10 e i 14 mila euro al mese (record assoluto la Sardegna con 14.644 euro, subito dietro Puglia e Sicilia) e i consiglieri viaggiano amabilmente tra i 9 e gli 11 mila euro.

Il guaio è che proprio in quelle aree il prodotto interno lordo pro capite è scarso e la disoccupazione galoppa. Come dire, costano tanto e rendono poco? “Esatto – risponde Garnero –. In controtendenza totale rispetto alle altre regioni europee, in Italia se la macchina amministrativa è più cara i risultati sul territorio sono più scarsi. Vorrei chiarire che i compensi da me indicati sono precisi con un’approssimazione cui ho dovuto cedere per l’impossibilità materiale di avere tutte le voci necessarie a stabilire il costo reale, ma la sostanza è certa: l’efficienza amministrativa è ancora un miraggio per noi”.

Perché anche dove i dati socioeconomici sono meno opachi, il prezzo da pagare resta alto. Il leghista Roberto Cota guadagna 13 mila euro al mese e deve combattere una disoccupazione del 7,6 per cento nel suo Piemonte che a Pil (28.800 euro pro capite) sta messo maluccio rispetto ai superlaboriosi di montagna come la Valle d’Aosta (30.600 euro) o la provincia autonoma di Trento (31.000 euro). Idem la collega laziale Renata Polverini, che nonostante una bella ricchezza territoriale (31.100 euro a testa, da bilanciare sempre con la saggia regola del pollo diviso in due anche quando uno resta a bocca asciutta) si prende 12 mila euro al mese, ma vede i disoccupati salire oltre il 9 per cento della popolazione attiva. La Lombardia, che batte tutti in Pil (33.900 euro) offre uno stipendio da supermanager ai suoi fedeli amministratori: 11.739 euro aRoberto Formigoni e addirittura di più, 12.523 euro, ai consiglieri regionali (vedi Nicole Minetti).

“Almeno lì le cose funzionano un po’ – sospira Garnero –, e non è un’idea sbagliata calcolare che quando uno regge bene un servizio pubblico vada pagato come se gestisse un’azienda privata. Ma ci sono anche Regioni dove gli amministratori lavorano con buoni risultati e sono foraggiati molto meno: vuol dire che si può fare”.

I meno peggio della classe sono le piccole autonomie di montagna, da Bolzano alla Valle d’Aosta, ma anche l’Emilia Romagna, la Toscana, le Marche, il Friuli. Saranno loro il modello da imitare nel federalismo che verrà? “Discorso complesso – chiude Garnero –. E soprattutto mi chiedo: se fossimo già in uno Stato federale e capitasse il default della Sardegna o della Sicilia, che succederebbe all’Italia?”. All’Italia non si sa, ma la Padania dovrebbe per forza tagliare i compensi ai suoi amministratori.




L'articolo di Andrea Garnero:
http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002573.html

da Il Fatto Quotidiano del primo ottobre 2011