Che cosa resterà di Silvio Berlusconi? Qual è l’eredità che i suoi governi lasciano nei conti dello Stato e nell’economia italiana? Al di là dei giudizi di parte, sia negativi che positivi, che per lungo tempo (ora un po’ meno) hanno diviso l’opinione pubblica, i suoi esecutivi possono essere valutati anche in termini puramente numerici.
E, si sa, almeno la matematica non è un’opinione.
Il numero più importante da tenere in mente è 546. Miliardi di euro.
Ovvero l’incremento del debito pubblico causato dagli esecutivi del Cavaliere.
Questo numero si ottiene come differenza tra il livello del debito pubblico alla fine e all’inizio di ciascuno dei quattro governi di Berlusconi. Si tratta di quasi un terzo, esattamente il 28,7 per cento, di tutto il debito pubblico italiano. Tenuto conto che la durata complessiva degli esecutivi di Berlusconi (9 anni) rappresenta solo il 14,2% della storia dell’Italia repubblicana (63,5 anni), se ne deduce che il Cavaliere ha accumulato debito ad una velocità doppia rispetto alla media degli altri governi repubblicani.
Di conseguenza, i vari governi targati centrodestra sono costati all’Italia, in termini di incremento del debito pubblico, 60 miliardi di euro all’anno, ossia 1.000 euro per ogni cittadino italiano. Quindi, la permanenza di Berlusconi a Palazzo Chigi per 9 anni ci ha lasciato un conto da pagare di 9mila euro a persona, ovvero, per una famiglia tipo di 4 persone, di 36mila euro, cifra da ripagare con futuri tagli della spesa e dei servizi pubblici, e un incremento delle imposte.
E anche se si valuta l’operato dell’expremier dal punto di vista del rapporto debito/Pil, risulta ancora più evidente la sua pessima performance. Nel 2008, quando Berlusconi prendeva per l’ultima volta le redini del governo, poteva contare su un rapporto debito/Pil lasciato da Prodi con i conti del 2007 pari a 103,6 per cento, mentre dopo 3 anni di governo lo lasciava, a fine 2010, a 119,1 per cento. Si tratta di ben 15,5 punti in più di crescita del debito rispetto al Pil, ossia 5,2 punti in più all’anno. Per trovare uno sprint così fulmineo del debito italiano bisogna risalire alla metà degli anni ’80 e ai primi anni ’90, ma allora non c’era il Patto di stabilità, che costringe (o dovrebbe costringere) i paesi dell’area euro a una politica economica virtuosa.
Non possono davvero essere dimenticati questi numeri, 546 miliardi e il 119,1 per cento del Pil, perché se l’Italia è stata ed è ancora sotto attacco da parte dei mercati, ciò è dovuto proprio al peso di un debito che appare insostenibile.
E’ vero che anche gli altri paesi europei hanno sperimentato dopo il 2008 una crescita significativa del debito pubblico, in alcuni casi anche più veloce dell’Italia, ma è anche vero che, contrariamente a quanto affermato dalla propaganda del centrodestra, la loro situazione era e resta di gran lunga migliore di quella italiana. Se ne ha conferma esaminando i dati del bollettino periodico della Banca d’Italia "Statistiche di finanza pubblica nei paesi dell’Ue": a fine 2010 il rapporto debito/Pil dell’Italia era al 119%, molto di più della Francia, che ne aveva uno dell’82%, della Germania (83%), della Gran Bretagna (80%), per non parlare della Spagna (60%).
Ma, se si vuole, la più grande colpa dei governi Berlusconi non è tanto quella di aver accresciuto dopo il 2008 il debito pubblico, in condizioni certo eccezionali in tutto il mondo, quanto di non averlo ridotto abbastanza nei cinque anni cruciali, dal 2001 al 2006. Un paese, come l’Italia, che era stato ammesso nel Club dell’Euro anche se non rispettava il parametro del debito al 60 per cento, avrebbe dovuto proseguire a tappe forzate in questa riduzione, e non soltanto perché lo reclamavano i trattati, ma anche per mettere un po’ di fieno in cascina in previsione di tempi meno buoni (quello che poi è davvero accaduto). E invece non lo ha fatto con la necessaria convinzione e con la necessaria rapidità, visto il livello monstre raggiunto dal debito italiano. Tra il 2001 e il 2004, il governo Berlusconi è riuscito a ridurre di soli 2,2 punti il rapporto debito/pil, passando dal 108,8 al 106,6 per cento, mentre poi Prodi in un solo anno, tra il 2006 e il 2007, lo ha ridotto di 3 punti, portandolo al livello più basso mai visto in Italia da quando c’è l’euro, ovvero il 103,6. Con il ritorno del centro destra, nel 2008, è iniziata la rapida rincorsa verso il livello di 119,1, valore che verrà superato di parecchio nel 2011. Anche qui un’osservazione: l’Italia, pur dovendo affrontare una crisi epocale, avrebbe dovuto farlo con più sapienza, magari tagliando le spese improduttive e dando più soldi alle imprese, anche attraverso il rilancio delle opere pubbliche. Invece la verità è che il governo di centrodestra non ha mai voluto scegliere una rotta chiara per portare in salvo la nave Italia, limitandosi invece a riparare le falle via via che apparivano, un po’ qui e un po’ là.
Ma il poco gradito lascito del nostro expremier non finisce qui. Infatti nell’asse ereditario del Cavaliere c’è anche il blocco dello sviluppo economico italiano. Tra il 2001 e il 2010, un decennio quasi tutto ad appannaggio del Cavaliere, visto che il secondo esecutivo di Prodi è durato meno di 2 anni, il Pil italiano è cresciuto in media di uno striminzito 0,4 per cento all’anno. Decisamente poco. Il centrodestra ha sempre detto che la colpa era della crisi internazionale. Ma allora come spiegare che nello stesso periodo il Pil della Francia è cresciuto in media dell’1,1%, del 1% quello tedesco, dell’1,7% quello inglese, del 2,1% quello spagnolo, e del 1,4% quello medio della Ue?
Dunque i casi sono due: o Bin Laden (che scatenò con i suoi attacchi terroristici la recessione del 2001) e la finanza internazionale (che determinò la crisi del 2008) ce l’avevano proprio con il nostro paese, oppure è la politica economica del leader del centrodestra, tutta centrata sugli annunci televisivi e sull’invito all’ottimismo, ma priva di contenuti concreti, a non essere stata efficace, nonostante le indimenticabili e reiterate promesse di un nuovo miracolo economico italiano.
E non è neppure colpa dell’euro – un altro refrain che Berlusconi ha ripetuto spesso agli italiani anche dopo aver lasciato la poltrona di Palazzo Chigi visto che 3 dei 4 paesi che abbiamo utilizzato per il confronto condividono con noi la moneta unica. Se vi è stato un miracolo di Berlusconi in Italia, è stato quello di avviarne in maniera inarrestabile il declino economico, situazione testimoniata dal fatto che a inizio decennio (quando il nostro paese era la quintasesta potenza economica mondiale), il Cavaliere ereditava un paese che aveva un reddito pro capite del 18 per cento superiore alla media comunitaria (Ue a 27 paesi). Presentandosi al Quirinale per le dimissioni il 12 novembre scorso, Berlusconi consegnava un’Italia il cui Pil pro capite era pari a quello medio comunitario (dato del 2010), un valore modesto, visto che include il reddito dei paesi più poveri dell’Europa orientale. Una decadenza tutta italiana, visto che tra il 2001 ed il 2010 il Pil pro capite della Francia è sì sceso, passando dal 115 al 107 per cento, ma molto meno. Quello tedesco è invece salito dal 116 al 117 per cento, mentre quello inglese è calato dal 120 al 114 per cento; quello spagnolo è cresciuto dal 98 al 100 per cento. Dunque, nessuno dei principali paesi comunitari ha perso in questo periodo 18 punti di pil pro capite, e comunque tutti stanno meglio dell’Italia, salvo la Spagna, che tuttavia in questo decennio, nonostante la crisi, ha guadagnato 2 punti.
È un mito berlusconiano, coniato a uso e consumo di chi non sa guardare i numeri dell’economia, anche quello di non aver "messo le mani nelle tasche degli italiani". Ancora una volta gli spietati numeri forniti dalla Banca d’Italia nelle sue relazioni annuali dimostrano che anche quella di non aver accresciuto le imposte è un’altra favola raccontata da questo formidabile creatore di miti alla rovescia. Tra il 2000, anno di un governo di centrosinistra, e il 2010, le imposte dirette sono infatti aumentate comunque del 30,8 per cento, molto di più dell’incremento dell’inflazione, pari al 23,1 per cento. Quelle indirette sono cresciute del 24, i contributi sociali del 45,8, le altre entrate del 42,9, mentre il complesso del gettito è aumentato del 33,7 per cento, ossia 11 punti in più rispetto all’incremento dei prezzi. In pratica le imposte sono cresciute in termini reali di oltre un punto l’anno.
Parallelamente è cresciuta, durante gli esecutivi di centrodestra, la spesa pubblica. Nel 2010 la spesa era pari a 794 miliardi di euro, il 46,5 per cento in più rispetto ai 542 mld del 2000, pur essendo nello stesso periodo i prezzi aumentati solo del 23,1 per cento. Insomma, l’imprenditore che si era presentato agli italiani come l’homo novus della politica, capace di rimettere a posto i disastrati conti dell’Italia, in realtà è stato l’ennesimo assaltatore della diligenza della spesa pubblica, tanto da dare quasi il colpo di grazia alle nostre finanze, come dimostra il giudizio delle agenzie di rating, che si basano non sulle simpatie o antipatie, ma sui numeri che abbiamo visto.