martedì 29 novembre 2011

La galassia delle fondazioni ‘politiche’. Nessuno spiega da dove arrivano i soldi. - di Ferruccio Sansa




Di centrodestra, di centrosinistra e sempre più spesso trasversali: le associazioni culturali fondate dai parlamentari vengono finanziate dai big dell'imprenditoria nazionale e da società di Stato senza nessuna trasparenza. La legge lo permette.


Il manifesto è chiaro: “Declinare al futuro i valori dell’unità nazionale”. Tra le parole chiave il “patriottismo consapevole”. Ma a leggere l’elenco dei membri dell’associazione Italiadecide ecco Roberto Calderoli. Un politico che del patriottismo, per di più consapevole, non ha mai fatto una bandiera. Non è la sola sorpresa: accanto a Luciano Violante (presidente), e a tanti esponenti Pd, c’è mezzo governo Berlusconi. Centrosinistra e centrodestra uniti; pare quasi un embrione della strana coalizione che ritroviamo oggi a sostegno del governo Monti. Italiadecide è una delle decine, forse centinaia di fondazioni e associazioni politiche fiorite negli ultimi anni. Una febbre, per essere un politico decente bisogna averne almeno una. Soggetti che promuovono attività culturali, ma che talvolta sembrano il nuovo bancomat della politica. Un fenomeno che dopo le inchieste degli ultimi mesi merita un approfondimento.


Indagati e inchieste

Tommaso Di Lernia dal carcere dice: “Optimatica è una società vicina al ministro Altero Matteoli, credo che eroghi finanziamenti alla fondazione a lui riconducibile”. Di Lernia sostiene che Optimatica finanzierebbe anche l’Officina delle Libertà vicina ad Aldo Brancher (che inizialmente aveva sede in casa di Silvio Berlusconi). Ma ci sono anche le inchieste su Franco Morichini, in contatto con i vertici Finmeccanica e procacciatore di finanziamenti per Italianieuropei. Per finire con l’indagine sul ‘sistema Sesto’ che tocca anche la fondazione FareMetropoli di Filippo Penati. Finora, va detto, le fondazioni di Brancher, Matteoli e D’Alema non sono state oggetto di addebiti penali. Le polemiche e gli scandali degli ultimi mesi, però, sono legati da un filo invisibile: le fondazioni e le associazioni di esponenti politici. Sulla scena politica degli ultimi anni, con i partiti defilati, sono loro i protagonisti: “Soggetti perfettamente trasversali, che non hanno nemmeno più bisogno di quello sgradevole inciampo che sono gli elettori e gli iscritti”, racconta l’ex dirigente di una fondazione di centrodestra che mantiene l’anonimato. Aggiunge: “I segreti del loro successo, però, sono altri: le fondazioni con le assemblee e i convegni sono un formidabile centro di potere. Lobbies all’amatriciana, tanto diverse da quelle americane”. Ma non somigliano neanche ai think tank del resto del mondo, ai salotti del potere tipo Davos. Qui non sono in gioco gli eventuali gettoni di presenza, ma l’appartenenza, l’influenza, le poltrone. Una merce invisibile e, però, preziosissima. Ma soprattutto, grazie a una disciplina molto benevola, da questi soggetti passano finanziamenti per la politica. Per questo in tanti si sono buttati a pesce nello spiraglio lasciato aperto (apposta?) dalla legge. Niente di illegale, quindi, ma le inchieste rischiano di scoperchiare il pentolone.

Matteoli, tanto per ricordare l’ultimo nome assurto all’onore delle cronache, smentisce categoricamente le affermazioni degli indagati dell’inchiesta Finmeccanica. Ma questi organismi geneticamente modificati restano un mondo inesplorato. Un labirinto di nomi che paiono slogan, dove le parole ‘fare’, ‘futuro’, ‘Italia’, ‘libertà’ sono le più gettonate. Ormai tanti esponenti politici o aspiranti tali comunicano attraverso editoriali di fondazioni e associazioni: da Gianfranco Fini (Farefuturo) a Luca Cordero di Montezemolo (Italiafutura), fino a Claudio Scajola rientrato sulla scena dopo lo scandalo della casa comprata “a sua insaputa” contando i deputati fedeli nell’associazione Cristoforo Colombo per le libertà. Un viaggio attraverso le fondazioni e le associazioni politiche apre nuovi mondi, aiuta a disegnare la mappa del potere. Magari partendo proprio dalla prestigiosa Italiadecide (mai toccata da inchieste, né da ombre di alcun genere), perché è l’emblema del trasversalismo: destra e sinistra, politica e affari. “Niente di strano, lo scopo della nostra associazione è proprio unire persone di aree diverse”, racconta il presidente Luciano Violante. Tra i promotori (il grado più alto della gerarchia) compaiono nomi perfettamente bipartisan: si va da Giuliano Amato a Giulio Tremonti passando per Gianni Letta.

Amici di amici

Ma l’elenco dei “semplici” soci riserva altre sorprese. Ecco il dalemiano Antonio Bargone, che dalla politica è passato all’impresa con la passione per le grandi opere. Come l’autostrada Livorno-Civitavecchia della cui società Bargone è diventato presidente (oltre che Commissario Governativo) dopo essere stato sottosegretario alle Infrastrutture con Prodi e D’Alema. Poi, si diceva Roberto Calderoli, quindi Franco Bassanini (Pd), Giovanni Maria Flick (ex ministro del governo Prodi), Altero Matteoli (altro ministro berlusconiano), Vito Riggio (presidente Enac) e Alessandro Profumo (il banchiere che stava preparando il grande salto in politica, corteggiato dal Pd, quando è stato azzoppato da una clamorosa inchiesta giudiziaria). Tra i soci anche l’attivissimo Andrea Peruzy, che oltre a sedere in diversi consigli di amministrazione (Acea, per dire) è anche in Italianieuropei e nell’associazione Romano Viviani (che raccoglie altri dalemiani soprattutto toscani).

Non basta, perché, caso più unico che raro, Italiadecide tra i soci accoglie non solo persone fisiche, ma anche giuridiche. Insomma, imprese con il portafogli bello gonfio e gli occhi magari puntati sulle opere pubbliche: Autostrade per l’Italia, Banca Intesa San Paolo (fino a pochi giorni fa guidata dal ministro Corrado Passera), Banca Popolare di Milano, Eni, F 2 i e Unicredit spa. Ma è una specie di catena di sant’Antonio, prendi un nome, uno qualsiasi, e lo ritrovi in tante altre fondazioni e associazioni. Prendete Giuliano Amato e lo ritrovate, per dire, in Italianieuropei di D’Alema. Non è il solo, anche Violante e Bassanini sono in entrambe le associazioni. Tremonti invece siede anche nell’Officina delle Libertà. Matteoli ha la sua Fondazione della Libertà per il bene comune. Nel sito campeggia una bella immagine di un Lego tricolore: come dire costruiamo l’Italia. Le attività, però, non paiono esattamente febbrili visto che ancora ieri veniva reclamizzato un evento del 26 ottobre scorso. Nessuno pare aver aggiornato il sito.

Vetrine “vuote”

Ma stando alle pagine web di associazioni e fondazioni parecchie paiono vetrine tutte addobbate di negozi che nel magazzino non hanno molta merce. L’ultima news di Riformisti Europei (presidente Carlo Vizzini) è del 26 giugno. Il sito di Riformismo e Libertà di Fabrizio Cicchitto è totalmente kaputt. Su quello di Costruiamo il futuro di Maurizio Lupi (nel comitato anche il neo-ministro Lorenzo Ornaghi) sono ancora reclamizzate le cene estive e appuntamenti di mesi fa. Oltre ovviamente alle presentazioni di libri di Lupi. Ma davvero ogni politico ha una fondazione:Renato Brunetta ha la sua Free Foundation, in inglese perché la parola ‘libera’ era già inflazionata. Praticamente è un Brunetta fan club: interventi, dichiarazioni, rassegna stampa, l’ex ministro domina. Poi, tra mille esempi possibili, ecco Magna Carta (senza ‘h’) di Fabrizio Quagliariello Foedus di Mario Baccini. Spostandosi verso il centro troviamo Liberal che fa capo a Ferdinando Adornato. In zona centrosinistra ecco NensNuova Economia e Nuova Società, fondata da Pier Luigi Bersani e Vincenzo Visco. Un’associazione in passato toccata da qualche polemica: la sede (“in affitto”, precisò Visco) era di proprietà della famiglia di uno dei massimi dirigenti pubblici del Demanio.

Niente di illegale, una questione di opportunità. Poi ecco Astrid, di Franco Bassanini, dove ritroviamo, tra gli altri, Amato (siamo a quota tre) e Giulio Napolitano (stimato professore universitario, figlio del Presidente Giorgio, presente anche in Italianieuropei), e Democratica che fa capo a Walter Veltroni. A un primo esame le associazioni di centrosinistra sembrerebbero più attive. Italianieuropei di D’Alema, per esempio, ha una sua sede in piazza Farnese, nel centro di Roma, suoi dipendenti e un’attività consistente: organizza convegni, aggiorna il sito e stampa una rivista. Lo stesso per Democratica di Veltroni che, tra l’altro, organizza corsi di politica. Ma gli organigrammi delle fondazioni vanno letti insieme con quelli dei cda delle società, soprattutto pubbliche. Nel consiglio della Nuova Italia, presieduta da Gianni Alemanno, oltre a sua moglie Isabella Rauti, troviamo, per dire, Franco Panzironi, nominato dal sindaco amministratore delegato dell’Ama (società comunale che si occupa di rifiuti) e Ranieri Mamalchi (già capo segreteria di Alemanno al ministero dell’Agricoltura e oggi dirigente di Acea).

Fondazioni e associazioni sono, però, oggetti misteriosi. A parte le dichiarazioni di principio piuttosto vaghe. L’unico modo per saperne qualcosa sono i siti internet dove compare almeno l’elenco dei soci. Come per esempio nel Maestrale di Claudio Burlando (governatore della Liguria), associazione trasversale che ha tra i membri la Genova che conta. Sono esplose polemiche per gli incarichi pubblici ottenuti dai membri, anche perché tra i promotori apparivano una bella fetta della società Italbrokers (da cui Lorenzo Borgogni, pezzo grosso di Finmeccanica, sostiene di aver ricevuto due milioni, ma gli interessati smentiscono e annunciano azioni legali), nonché Franco Pronzato, arrestato per le mazzette Enac. Lo stesso Pronzato che era socio di Interconsult (società in passato legata a Italbrokers), impresa che ha versato 25 mila euro di contributi pubblicitari alla società Solaris che fa capo a Italianieuropei. Dopo le polemiche nessun chiarimento, ma il sito di Maestrale non è più visitabile.

Copertura assoluta

Impossibile, ecco il nodo della questione, per comuni cittadini e cronisti avere notizie sui finanziatori di associazioni e fondazioni. Si era visto all’epoca dell’inchiesta su Franco Morichini, procacciatore di finanziamenti per Italianieuropei: “Rivelare i nomi sarebbe come renderne pubblici gli orientamenti politici”, dissero dalla fondazione dalemiana. Vero, ma i partiti hanno l’obbligo di rendere pubblico chi li finanzia. I nuovi soggetti della politica italiana invece no: basta depositare in prefettura l’atto costitutivo e lo statuto. E nessuno, a parte eventualmente i magistrati, può metterci il naso. Così ecco la domanda: chi paga le fondazioni? Chi è il destinatario finale del denaro? Certo, ci sono casi – più unici che rari – come Magna Carta che rende pubblici i nomi dei finanziatori, come Francesco Bellavista Caltagirone, British American Tobacco, Mediaset, Wind e Finmeccanica.

Viene da chiedersi che utilità abbia una società pubblica a sponsorizzare la fondazione di un politico. Per scoprire chi finanzia le fondazioni non resta che prendere scorciatoie. Per esempio andando a vedere l’elenco degli inserzionisti pubblicitari dei loro giornali. Prendiamo Italianieuropei. Nel 2011 troviamo una bella lista di imprese pubbliche: Eni, Fincantieri, Enel, Trenitalia e ancora Finmeccanica. Poi giganti del settore privato: di nuovo British American Tobacco, poi si passa al mattone stavolta di sinistra con Coopsette, quindi al settore ferroviario con Bombardier che sforna centinaia di locomotive per i nostri treni, quindi Lottomatica, Barclays, Conad-Leclerc, Allianz, Sky, la banca ‘rossa’ del Monte Paschi di Siena e Telecom Italia. Infine Sma, società del gruppo Intini, un imprenditore amico di D’Alema che faceva affari con Gianpi Tarantini. Lo stesso Intini che attraverso due società, Sma e Milanopace, contribuisce all’associazione Faremetropoli di Penati. Niente di illegale, comunque, Italianieuropei (comeFaremetropoli) ha sempre regolarmente registrato i finanziamenti.

L'aiuto del Sismi e anche un rogo. Una microspia svela i piani di don Verzè.



Registrato anche un colloquio con l'ex capo dei Servizi Pollari: «quello non vende, manda la Finanza»

MILANO - È dicembre 2005 e don Luigi Verzè, il gran capo dell'ospedale San Raffaele, ha le microspie nel suo ufficio. Non sa che un'inchiesta della magistratura sta legalmente violando la sua privacy. Non si era mai saputo finora.
Non lo sa mentre parla con Nicolò Pollari, l'allora direttore dei servizi segreti militari (Sismi), delle difficoltà politiche dell'amico comune Silvio Berlusconi, della scalata alla Bnl e dei controlli fatti su Stefano Ricucci a favore di Sergio Billè. È ignaro, don Verzè, che qualcuno lo sta ascoltando quando accoglie Cesare Geronzi per parlare di politica o quando risponde alla telefonata dell'«eminenza» vaticana che gli chiede un favore. Con Mario Cal, il manager suicida, conversa di una «grana» giuridica da sistemare con Roberto Formigoni e la Regione Lombardia. E certo il prete che si ispira a San Matteo apostolo («Guarite gli infermi») non immagina che le cimici elettroniche stiano captando il suo piano diabolico per fiaccare la resistenza di un vicino che non intende liberare un terreno.
I BROGLIACCI SEPOLTI - L'inchiesta in corso dovrebbe essere un rivolo di quella sulla maga Ester Barbaglia per presunto riciclaggio (accusa poi rivelatasi infondata) del denaro del clan calabrese dei Morabito. La Barbaglia alla fine del 2004 aveva creato, nello studio di Enrico Chiodi Daelli, notaio storico del San Raffaele, una Fondazione con un patrimonio di 28 milioni destinato alla Fondazione Monte Tabor di don Verzè. È il nesso, probabilmente, alla base delle intercettazioni. Le indagini, però, hanno subito escluso qualsiasi ipotesi a carico del fondatore del polo sanitario milanese. Tant'è che è rimasto sepolto per anni il fascicolo con centinaia di pagine di brogliaccio, cioè il riassunto di conversazioni captate nell'ufficio di don Verzé tra dicembre 2005 e settembre 2006. Molti i «buchi» per i guasti alle apparecchiature e le difficoltà di ricezione. Alla fine non sono molte le conversazioni «rilevanti».
LA FINANZA AL CAMPO DI CALCETTO - È il 13 gennaio 2006 alle 11,32 del mattino quando nell'ufficio di presidenza del San Raffaele «entra l'ing. Roma (capo dell'ufficio tecnico, ndr) al quale don Verzè - riassume l'operatore delle Fiamme Gialle all'ascolto - anticipa che farà venire la Guardia di Finanza per fare i verbali a coloro che giocano a calcio presso gli impianti sportivi vicini al San Raffaele che lo stesso don Verzè vuole acquisire ma che uno dei titolari, tale Lomazzi, non vuole cedere».
I Lomazzi, secondo le informazioni raccolte dal Corriere , avevano un regolare contratto d'affitto (scadenza 2008) su quei terreni del San Raffaele. Ci avevano investito costruendo campi da tennis, calcio e calcetto, spogliatoi ecc. Nel 2005 e nell'inverno 2006 hanno anche subìto due incendi dolosi con blocco dell'attività e danni notevoli. Sembravano avvertimenti. Carabinieri e polizia fecero indagini, senza risultato.
«L'ing. Roma - prosegue il sunto della conversazione intercettata - dice che i finanzieri dovranno chiedere la ricevuta ai giocatori, ricevuta che non avranno perché pagano tutti in nero e così la Finanza inizierà a fare le multe sia ai giocatori sia a Lomazzi ...». Don Verzè non si scompone, tutt'altro, «chiede a che ora dovrebbe mandare la Finanza e l'ing. Roma risponde dalle 21 circa». Non risulta però che un sacerdote abbia titolo per «mandare la Finanza». Dunque?
UN «PIACERINO» DAL SISMI - Passa un'oretta ed «entra in studio tale dott. Pollari». Cioè Nicolò Pollari, generale della Guardia di Finanza, in quel momento anche direttore del Sismi, i servizi segreti militari, finito sotto processo per il sequestro di Abu Omar e attività di «dossieraggio», oggi consigliere di Stato. Da poco Pollari, come ha documentato Il Fatto, aveva acquistato una villa a Roma dal San Raffaele pagandola (500 mila euro) la metà dei soldi sborsati anni prima da don Verzè.
Parlano di politica e a proposito di Berlusconi (in quel momento capo di un governo agli sgoccioli) «Pollari confida a don Verzè che sono momenti difficilissimi», che «lui è preso da molti problemi e la misura della sua buona fede io la valuto ... prima di tutto perché gli voglio bene». «Don Verzè dice: "È travolto dal suo entusiasmo ... lui adesso purtroppo si è lasciato andare ..un pochettino eh eh ... per correttezza morale... però tiene molto alla famiglia". Pollari: "Sì qualche giro di valzer" ...».
La conversazione scivola sulle scalate bancarie, tema caldissimo in quell'inizio 2006. I due parlano di Sergio Billè, ex presidente della Confcommercio. «È un amico - dice il capo del Sismi - sto cercando di difenderlo in tutti i modi ... la storia di Ricucci... posso dirti la verità... Billè è stato informato... puntualmente sulla vicenda di Ricucci almeno da un anno e mezzo». Dossier Ricucci pro Billè, par di capire. Mezz'ora di chiacchiere e poi don Verzè va al punto: «Chiede un aiuto a Pollari per mandare la Gdf da Lomazzi in modo che lo stesso Lomazzi possa cedere una parte del terreno per costruire un residence per studenti. Poi si salutano e Pollari dice che si interverrà su Letta per il finanziamento sulla ricerca ...».
IL BASTONE E IL VANGELO - Temi alti. Poi terra terra. Il sacerdote nato nel 1920 da un latifondista e da una nobildonna veneta, ex segretario del Santo don Giovani Calabria e prediletto del Beato Cardinale Ildefonso Schuster, vuole cacciare il Lomazzi, quello del centro sportivo. «Don Verzè - rilevano le microspie - dice (all'ingegner Roma, ndr) di fare un sabotaggio e di stare attento ai cavalli e all'asilo», che sono del San Raffaele.
«L'ing. Roma specifica di aver individuato il generatore... sarà sabotato il quadro elettrico ... quindi i campi non potranno essere illuminati e quando gli amici dell'ing. Roma andranno da Lomazzi a fargli la proposta di acquisto (per conto del San Raffaele) "sarà in ginocchio..."».
Qualche giorno dopo l'ingegner Roma bussa alla presidenza. I microfoni nascosti afferrano la conversazione, così riassunta: «Roma dice a don Verzè che quando lui sarà in Brasile ci sarà del fuoco, facendo riferimento ai fili del quadro elettrico degli impianti sportivi di Lomazzi che verranno liquefatti».
Metodo don Verzè: il bastone e il vangelo.

Il maxidebito di Berlusconi [ rapporto sui suoi 4 governi ]. - Adriano Bonafede e Massimiliano Di Pace




Che cosa resterà di Silvio Berlusconi? Qual è l’eredità che i suoi governi lasciano nei conti dello Stato e nell’economia italiana? Al di là dei giudizi di parte, sia negativi che positivi, che per lungo tempo (ora un po’ meno) hanno diviso l’opinione pubblica, i suoi esecutivi possono essere valutati anche in termini puramente numerici. 
E, si sa, almeno la matematica non è un’opinione. 
Il numero più importante da tenere in mente è 546. Miliardi di euro. 
Ovvero l’incremento del debito pubblico causato dagli esecutivi del Cavaliere
Questo numero si ottiene come differenza tra il livello del debito pubblico alla fine e all’inizio di ciascuno dei quattro governi di Berlusconi. Si tratta di quasi un terzo, esattamente il 28,7 per cento, di tutto il debito pubblico italiano. Tenuto conto che la durata complessiva degli esecutivi di Berlusconi (9 anni) rappresenta solo il 14,2% della storia dell’Italia repubblicana (63,5 anni), se ne deduce che il Cavaliere ha accumulato debito ad una velocità doppia rispetto alla media degli altri governi repubblicani. 
Di conseguenza, i vari governi targati centrodestra sono costati all’Italia, in termini di incremento del debito pubblico, 60 miliardi di euro all’anno, ossia 1.000 euro per ogni cittadino italiano. Quindi, la permanenza di Berlusconi a Palazzo Chigi per 9 anni ci ha lasciato un conto da pagare di 9mila euro a persona, ovvero, per una famiglia tipo di 4 persone, di 36mila euro, cifra da ripagare con futuri tagli della spesa e dei servizi pubblici, e un incremento delle imposte.
E anche se si valuta l’operato dell’expremier dal punto di vista del rapporto debito/Pil, risulta ancora più evidente la sua pessima performance. Nel 2008, quando Berlusconi prendeva per l’ultima volta le redini del governo, poteva contare su un rapporto debito/Pil lasciato da Prodi con i conti del 2007 pari a 103,6 per cento, mentre dopo 3 anni di governo lo lasciava, a fine 2010, a 119,1 per cento. Si tratta di ben 15,5 punti in più di crescita del debito rispetto al Pil, ossia 5,2 punti in più all’anno. Per trovare uno sprint così fulmineo del debito italiano bisogna risalire alla metà degli anni ’80 e ai primi anni ’90, ma allora non c’era il Patto di stabilità, che costringe (o dovrebbe costringere) i paesi dell’area euro a una politica economica virtuosa.
Non possono davvero essere dimenticati questi numeri, 546 miliardi e il 119,1 per cento del Pil, perché se l’Italia è stata ed è ancora sotto attacco da parte dei mercati, ciò è dovuto proprio al peso di un debito che appare insostenibile.
E’ vero che anche gli altri paesi europei hanno sperimentato dopo il 2008 una crescita significativa del debito pubblico, in alcuni casi anche più veloce dell’Italia, ma è anche vero che, contrariamente a quanto affermato dalla propaganda del centrodestra, la loro situazione era e resta di gran lunga migliore di quella italiana. Se ne ha conferma esaminando i dati del bollettino periodico della Banca d’Italia "Statistiche di finanza pubblica nei paesi dell’Ue": a fine 2010 il rapporto debito/Pil dell’Italia era al 119%, molto di più della Francia, che ne aveva uno dell’82%, della Germania (83%), della Gran Bretagna (80%), per non parlare della Spagna (60%). 
Ma, se si vuole, la più grande colpa dei governi Berlusconi non è tanto quella di aver accresciuto dopo il 2008 il debito pubblico, in condizioni certo eccezionali in tutto il mondo, quanto di non averlo ridotto abbastanza nei cinque anni cruciali, dal 2001 al 2006. Un paese, come l’Italia, che era stato ammesso nel Club dell’Euro anche se non rispettava il parametro del debito al 60 per cento, avrebbe dovuto proseguire a tappe forzate in questa riduzione, e non soltanto perché lo reclamavano i trattati, ma anche per mettere un po’ di fieno in cascina in previsione di tempi meno buoni (quello che poi è davvero accaduto). E invece non lo ha fatto con la necessaria convinzione e con la necessaria rapidità, visto il livello monstre raggiunto dal debito italiano. Tra il 2001 e il 2004, il governo Berlusconi è riuscito a ridurre di soli 2,2 punti il rapporto debito/pil, passando dal 108,8 al 106,6 per cento, mentre poi Prodi in un solo anno, tra il 2006 e il 2007, lo ha ridotto di 3 punti, portandolo al livello più basso mai visto in Italia da quando c’è l’euro, ovvero il 103,6. Con il ritorno del centro destra, nel 2008, è iniziata la rapida rincorsa verso il livello di 119,1, valore che verrà superato di parecchio nel 2011. Anche qui un’osservazione: l’Italia, pur dovendo affrontare una crisi epocale, avrebbe dovuto farlo con più sapienza, magari tagliando le spese improduttive e dando più soldi alle imprese, anche attraverso il rilancio delle opere pubbliche. Invece la verità è che il governo di centrodestra non ha mai voluto scegliere una rotta chiara per portare in salvo la nave Italia, limitandosi invece a riparare le falle via via che apparivano, un po’ qui e un po’ là.
Ma il poco gradito lascito del nostro expremier non finisce qui. Infatti nell’asse ereditario del Cavaliere c’è anche il blocco dello sviluppo economico italiano. Tra il 2001 e il 2010, un decennio quasi tutto ad appannaggio del Cavaliere, visto che il secondo esecutivo di Prodi è durato meno di 2 anni, il Pil italiano è cresciuto in media di uno striminzito 0,4 per cento all’anno. Decisamente poco. Il centrodestra ha sempre detto che la colpa era della crisi internazionale. Ma allora come spiegare che nello stesso periodo il Pil della Francia è cresciuto in media dell’1,1%, del 1% quello tedesco, dell’1,7% quello inglese, del 2,1% quello spagnolo, e del 1,4% quello medio della Ue?
Dunque i casi sono due: o Bin Laden (che scatenò con i suoi attacchi terroristici la recessione del 2001) e la finanza internazionale (che determinò la crisi del 2008) ce l’avevano proprio con il nostro paese, oppure è la politica economica del leader del centrodestra, tutta centrata sugli annunci televisivi e sull’invito all’ottimismo, ma priva di contenuti concreti, a non essere stata efficace, nonostante le indimenticabili e reiterate promesse di un nuovo miracolo economico italiano.
E non è neppure colpa dell’euro – un altro refrain che Berlusconi ha ripetuto spesso agli italiani anche dopo aver lasciato la poltrona di Palazzo Chigi visto che 3 dei 4 paesi che abbiamo utilizzato per il confronto condividono con noi la moneta unica. Se vi è stato un miracolo di Berlusconi in Italia, è stato quello di avviarne in maniera inarrestabile il declino economico, situazione testimoniata dal fatto che a inizio decennio (quando il nostro paese era la quintasesta potenza economica mondiale), il Cavaliere ereditava un paese che aveva un reddito pro capite del 18 per cento superiore alla media comunitaria (Ue a 27 paesi). Presentandosi al Quirinale per le dimissioni il 12 novembre scorso, Berlusconi consegnava un’Italia il cui Pil pro capite era pari a quello medio comunitario (dato del 2010), un valore modesto, visto che include il reddito dei paesi più poveri dell’Europa orientale. Una decadenza tutta italiana, visto che tra il 2001 ed il 2010 il Pil pro capite della Francia è sì sceso, passando dal 115 al 107 per cento, ma molto meno. Quello tedesco è invece salito dal 116 al 117 per cento, mentre quello inglese è calato dal 120 al 114 per cento; quello spagnolo è cresciuto dal 98 al 100 per cento. Dunque, nessuno dei principali paesi comunitari ha perso in questo periodo 18 punti di pil pro capite, e comunque tutti stanno meglio dell’Italia, salvo la Spagna, che tuttavia in questo decennio, nonostante la crisi, ha guadagnato 2 punti.
È un mito berlusconiano, coniato a uso e consumo di chi non sa guardare i numeri dell’economia, anche quello di non aver "messo le mani nelle tasche degli italiani". Ancora una volta gli spietati numeri forniti dalla Banca d’Italia nelle sue relazioni annuali dimostrano che anche quella di non aver accresciuto le imposte è un’altra favola raccontata da questo formidabile creatore di miti alla rovescia. Tra il 2000, anno di un governo di centrosinistra, e il 2010, le imposte dirette sono infatti aumentate comunque del 30,8 per cento, molto di più dell’incremento dell’inflazione, pari al 23,1 per cento. Quelle indirette sono cresciute del 24, i contributi sociali del 45,8, le altre entrate del 42,9, mentre il complesso del gettito è aumentato del 33,7 per cento, ossia 11 punti in più rispetto all’incremento dei prezzi. In pratica le imposte sono cresciute in termini reali di oltre un punto l’anno.
Parallelamente è cresciuta, durante gli esecutivi di centrodestra, la spesa pubblica. Nel 2010 la spesa era pari a 794 miliardi di euro, il 46,5 per cento in più rispetto ai 542 mld del 2000, pur essendo nello stesso periodo i prezzi aumentati solo del 23,1 per cento. Insomma, l’imprenditore che si era presentato agli italiani come l’homo novus della politica, capace di rimettere a posto i disastrati conti dell’Italia, in realtà è stato l’ennesimo assaltatore della diligenza della spesa pubblica, tanto da dare quasi il colpo di grazia alle nostre finanze, come dimostra il giudizio delle agenzie di rating, che si basano non sulle simpatie o antipatie, ma sui numeri che abbiamo visto.
A questo punto dovrebbe essere chiaro anche ai non addetti ai lavori perché i mercati abbiano preso particolarmente di mira l’Italia. Il motivo è semplice: al di là dei nodi irrisolti della costruzione europea <\-> che certo pesano <\-> il nostro paese non soltanto è molto indebitato ed ha una crescita economica ridotta al lumicino, ma ha anche una classe politica, e buona parte della stessa cittadinanza, assolutamente prive della consapevolezza della gravità della situazione.
A questo punto bisognerà pagare il conto dell’eredità negativa di Berlusconi. Chi lo farà, e come? Sarà il Governo Monti a dare queste risposte. E si potranno avere opinioni diverse sulle misure da prendere. Ma sull’eredità del Cavaliere, almeno, i numeri non dovrebbero permettere ulteriori discussioni.



http://www.repubblica.it/supplementi/af/2011/11/28/copertina/001talento.html

lunedì 28 novembre 2011

Ministri a tutto spreco. - di Emiliano Fittipaldi





Tour elettorali. Difesa dei dialetti. Comitati ed enti inutili. Ecco come durante il governo Berlusconi nei piccoli dicasteri si sono moltiplicati uffici e poltrone. E le spese pazze.


All'ex ministro Gianfranco Rotondi piace viaggiare. Responsabile dell'"Attuazione del programma di governo", in tre anni ha girato una ventina di città italiane per spiegare ai cittadini quanto belli e bravi fossero il premier e la sua squadra. Dal palco ometteva di ricordare, però, che gli eventi "Governincontra" ci sono costati un occhio della testa: nel 2010 per la propaganda di Rotondi e del sottosegretario Daniela Garnero Santanché sono stati bruciati 1,6 milioni di euro. Una somma, va detto, che comprende anche l'importante "Osservatorio sulla valutazione delle politiche governative", di cui non si ha traccia. L'anno scorso Rotondi ha investito anche 41 mila euro per "spese di rappresentanza", 260 mila euro per esperti ed incarichi speciali, 397 mila per i suoi fedelissimi collaboratori. Alla fine dell'anno la baracca è costata 2,5 milioni, uno sproposito, visto che ai tempi di Romano Prodi ne costava 800 mila di meno.

Il dipartimento che fu di Rotondi secondo i maligni è l'espressione perfetta del "ministero inutile". Quegli organismi che fanno capo alla presidenza del Consiglio, che costano milioni di euro e che producono poco o nulla. Retti in genere da ministri senza portafoglio che spesso hanno funzioni e deleghe che potrebbero essere accorpate ad altri ministeri più importanti. Il neo premier Mario Monti ne ha cancellati sei, ma leggendo gli ultimi bilanci scovati dall'"l'Espresso" forse avrebbe potuto tagliarne ancora di più: i costi di comitati inoperosi, iniziative bislacche, sedicenti esperti e spese pazze non si contano. 

Partiamo dagli uffici retti fino a qualche giorno fa da Raffaele Fitto, responsabile dei "Rapporti con le Regioni e la coesione territoriale". Il dipartimento costa 1,7 milioni di euro l'anno (tra stipendi, interpreti e indennità varie), ma oltre la metà delle sue erogazioni servono unicamente a "tutelare" le cosiddette minoranze linguistiche "storiche". Tra interventi ad hoc e l'apposito "fondo nazionale", nel 2010 gli italiani hanno speso per la difesa della lingua albanese, di greco, catalano, croato (tre comuni in Molise parlano, in effetti, il dialetto croato-molisano), della lingua francoprovenzale, occitana, germanica, del ladino e del friulano ben 5,6 milioni di euro. A cui vanno aggiunti, of course, altri finanziamenti regionali: anche il sardo è tutelato per legge, così lo scorso maggio a Olbia, Tempio Pausania e Santa Teresa hanno aperto sportelli "linguistici" dove si possono chiedere informazioni e documenti in isolano stretto. Il progetto prevede pure corsi di formazione per quei dipendenti comunali che conoscano, ignoranti, solo l'italiano. Non è tutto. Nel bilancio 2010 spunta pure il "comitato istituzionale paritetico per i problemi delle minoranze slovene" (46 mila euro l'anno) e il dimenticabile Ente italiano della Montagna. Cancellato nel luglio 2010, l'anno scorso c'è comunque costato un milione: per "valorizzare le aree montane" venivano stipendiati un presidente, un direttore generale e 18 tra responsabili (uno, Fabrizio Traversi, è stato arrestato due mesi fa nell'ambito di una presunta truffa da 12 milioni ai danni dello Stato), esperti e segretari.



Renato Brunetta, si sa, è stato titolare dei dipartimenti della Funzione pubblica e dell'Innovazione. Nel 2010 per farli funzionare abbiamo pagato 6,8 milioni di euro, mentre gli impegni per investimenti e spese correnti sono arrivati a 133 milioni. Passi per gli incarichi speciali costati, come ai tempi di Prodi, 355mila euro, passi per il mezzo milione speso per la pulizia dei giardini e dei palazzi e i 427 mila euro per il "restauro di mobili e spese telefoniche", ma leggendo le tabelle qualcuno si potrebbe domandare perché siano stati bruciati quasi 6 milioni di euro per "il funzionamento della commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche". Un organismo lanciato in pompa magna dall'ex ministro veneziano che avrebbe dovuto fornire strumenti concreti per valutare i dipendenti pubblici e fissare standard di produttività per premiare i meritevoli. La Civit, però, non ha fatto molto, tanto che pochi giorni fa la Commissione europea ci ha domandato quando la Commissione "sarà pienamente operativa?". All'inizio del 2011 uno dei commissari, inoltre, se ne andò sbattendo la porta. "Una decisione", spiegava nella lettera di dimissioni, "dovuta alla valutazione dell'impossibilità di perseguire in maniera soddisfacente gli obiettivi per i quali (la Civit, ndr) è stata istituita". 
Ma Brunetta ha speso un pacco di milioni pure per la Scuola superiore della pubblica amministrazione (11 milioni), per il funzionamento dell'agenzia Aran (2,3 milioni), per il Formez (per il centro si prevedeva si investire 19 milioni, ma si è arrivati a 24,2), per non meglio precisati "interventi per la valorizzazione delle risorse umane" (7,3 milioni). Per innovare l'Italia, poi, Brunetta ha messo 4,5 milioni nel progetto "Un cappuccino al giorno", 774 mila euro per una "struttura di missione per l'e-government" e la bellezza di 30,9 milioni per la Pec, la "posta elettronica certificata". Un sistema che per ora è stato adottato solo da 13 Regioni e da 1,1 milioni di cittadini: la grande maggioranza degli italiani non ne ha nemmeno sentito parlare.




Roberto CalderoliRoberto CalderoliPochissimi, d'altronde, sanno che per far divertire Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione normativa, abbiamo speso 732 mila euro. Tanto sono costati nel 2010 stipendi e uffici del dipartimento che secondo il vecchio governo "ha contribuito all'espansione dell'economia del Paese e a diminuire gli oneri a carico dei cittadini e delle imprese". L'ex ministro per le Riforme istituzionali Umberto Bossi ha invece speso "solo" 381 mila euro: 280 mila per "i diretti collaboratori" del leader leghista, altri migliaia per qualche conferenza (si ricorda quella di febbraio 2010, ospite d'onore Aldo Brancher) e il funzionamento dell'ufficio "Affari amministrativi e relazioni esterne". Riforme importanti fatte: zero.

Anche il ministero che fu di Mara Carfagna è un pozzo senza fondo. Le spese correnti toccano i 65 milioni di euro (erano 25 nel 2007), e per gli stipendi di ministro, dirigenti e il funzionamento degli uffici si spendono 3,2 milioni l'anno (ma c'è da sottolineare che rispetto ai governi di centrosinistra i costi dei collaboratori diretti del ministro si sono quasi dimezzati). Qualche risparmio in più, forse, si poteva fare sulla voce del bilancio numero 537, quella relativa all'"Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza e sull'origine etnica". Un organismo che costa 2,3 milioni, usati per raccogliere in un contact center le segnalazioni su possibili casi di razzismo e per compiere ricerche tematiche. Il direttore è Massimo Monnanni, un ex consigliere di Franco Frattini che ha a disposizione tre segretari, quattro esperti (stipendi biennali da 28 a 30 mila euro), un magistrato, più un dirigente generale e dieci dipendenti fissi. Un po' troppo, visti i risultati: a parte qualche finanziamento alle associazioni di genere e un concorso di fotografia, l'Unar - si legge in una Relazione al Parlamento - ha trattato nel 2010 appena 766 casi. Meno di due al giorno, e nel 2009 era andata peggio: solo un caso ogni 24 ore. Il call center? Costa 648 mila euro l'anno, e ci lavorano altre 16 persone provenienti dalle Acli.



Se il Fondo per le pari opportunità costa 49 milioni di euro l'anno (nel bilancio non ci sono dettagli di spesa più precisi) e 2,8 milioni sono serviti per le attività di contrasto alla pedofilia (esiste un Osservatorio, dove due esperte "a supporto" prendono 52 mila euro per un anno e mezzo di lavoro), altri 891 mila sono finiti per la lotta alla repressione delle pratiche di mutilazioni genitali femminili. Non sappiamo se l'importante battaglia abbia avuto successo. Ma sappiamo che nella commissione preposta siedono personalità come Anna La Rosa, Emma Bonino, Fiamma Nirenstein ed Eugenia Roccella (la moglie di Alemanno Isabella Rauti s'è dimessa qualche mese fa) e che la voce di spesa è triplicata rispetto alle previsioni d'inizio anno.

Anche l'ex collega Giorgia Meloni aveva un sacco di denaro a disposizione. Il ministero della Gioventù (cancellato da Monti) non avrà alleviato i problemi dei giovani italiani, stretti tra precariato e disoccupazione che sfiora il 30 per cento, ma ha impegnato comunque 222 milioni di euro, di cui solo 898 mila per gli stipendi del ministro e della sua squadra. Cinquanta milioni sono andati al fondo di garanzia per l'acquisto della prima casa, 70 alle politiche giovanili, mentre 101 milioni sono stati prestati ai co.co.co. e agli autonomi under 29 in difficoltà. Il prestito, ovviamente, deve essere restituito in tempi considerati "generosi": 2 o 3 anni al massimo. Sfogliando il bilancio, anche il dipartimento dello Sport offre sorprese a iosa: se le missioni all'estero (?) sono costate 85 mila euro, l'Italia ha raddoppiato il contributo alla Fondazione internazionale per la lotta al doping (ora giriamo all'agenzia mondiale 1,1 milione di euro) e pure le spese per i mutui concessi grazie a una legge varata alla vigilia dei mondiali di calcio del 1990: per la realizzazione o la ristrutturazione di impianti sportivi nel 2010 si sono spesi 65 milioni di euro.





Paolo BonaiutiPaolo BonaiutiInvece Paolo Bonaiuti, ex portavoce di Berlusconi e gran capo del dipartimento per l'editoria (tra stipendi e uffici il suo funzionamento costa 1,4 milioni), non solo ha dovuto versare ben 170 milioni per contributi a quotidiani e periodici, 18 milioni a radio e tv private e i sacrosanti 999.998 euro all'"editoria speciale periodica per non vedenti prodotta con caratteri tipografici normali su nastro magnetico e in braille", ma pure 3 milioni "da corrispondere alla Rai" per un misterioso accordo di collaborazione "tra Repubblica Italiana e Repubblica di San Marino" firmato nel lontano 1987. Oltre a 7 milioni per la "diffusione di notizie italiane" in tutto il mondo (i soldi finiscono ad alcune agenzie di stampa) e ben 626 mila euro per "un patto radiotelevisivo" tra Italia e Tunisia.

Altro ministro rimasto praticamente sconosciuto alle cronache è invece Elio Vito, titolare del dipartimento per i Rapporti con il Parlamento insieme al sottosegretario Laura Ravetto: tra dipendenti, capo di gabinetto e il suo vice, capo del settore legislativo e capo ufficio stampa Vito (che di fatto ha il compito di rispondere alle interrogazioni parlamentari) ci è costato quasi 600 mila euro. Molto di più, invece, s'è mangiato il dipartimento per la Programmazione della politica economica (ma non c'è già il ministero dell'Economia?) retto fino al 16 novembre da Gianfranco Miccichè. Il Dipe ha speso 28,9 milioni, per "l'unità tecnica finanza di progetto", "la segreteria tecnica della cabina di regia", consulenze varie, "le unità tecniche per il monitoraggio degli investimenti pubblici". Nonostante gli sforzi, gli uomini di Miccichè non hanno potuto far molto contro la crisi. 

Anche Carlo Giovanardi, ex gran capo dei dipartimenti per la famiglia e le politiche antidroga e nel tempo libero presidente dell'Associazione nazionale insigniti onorificenze cavalleresche, ha lasciato le sue impronte digitali su qualche spesa discutibile: se il fondo per la famiglia è passato dai 180 milioni del 2007 ai 100 del 2010 e i soldi per i servizi socio-educativi sono stati azzerati, la discussa Conferenza triennale sulla droga di Trieste è costata 444 mila euro, le campagne di comunicazione sui tossicodipendenti 464 mila euro, l'arcano "sistema di allerta precoce" altri 408 mila.



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