Maurizio Dècina, Antonio Preto, Francesco Posteraro, Antonio Martusciello.
È agghiacciante la storia che viene fuori dalla sentenza con la quale il Tar Lazio ha accolto un ricorso proposto da Sky Italia contro l’Autorità Garante per le comunicazioni e nei confronti di Rai e Tivù s.r.l., ricorso nel quale – tanto basterebbe per dare la cifra dell’anomalia televisiva italiana – Mediaset è intervenuta in soccorso dell’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni e della Rai.
La Rai – concessionaria pubblica del servizio radiotelevisivo e società controllata per il 99,6% dal Ministero dell’Economia – nel 2009 decide di rendere inaccessibili i propri contenuti agli utenti Sky e di renderli fruibili, via satellite, esclusivamente, attraverso la piattaforma TivùSat, gestita da Tivù s.r.l., società le cui quote appartengono per il 48% alla stessa Rai, per il 48% alla sua diretta concorrente – almeno sulla carta – Mediaset e per il restante 4% a Telecom.
Il risultato perseguito con l’operazione è evidente: spostare milioni di telespettatori da Sky a TivùSat e, quindi, centinaia di milioni di euro di fatturato pubblicitario dalla prima alla seconda. Tutto avviene sotto gli occhi dell’AgCom che, tuttavia, prima preferisce girarsi dall’altra parte e poi, quando Altroconsumo – una delle più rappresentative associazioni di consumatori italiane – le segnala immediatamente la vicenda chiedendo che intervenga, apre un’istruttoria per chiuderla, dopo poco, ritenendo tutto regolare.
Oggi – ma ci sono voluti oltre due anni di giudizio – i giudici amministrativi fanno, finalmente, giustizia di quanto accaduto: la Rai ha violato la legge e il contratto di servizio pubblico oscurando la trasmissione della propria programmazione su Sky. L’Autorità Garante, da parte sua, ha fatto vergognosamente male il suo lavoro ritenendo regolare una plateale violazione del contratto di servizio pubblico in forza del quale la Rai avrebbe dovuto garantire la presenza dei propri contenuti, gratuitamente, su tutte le piattaforme tecnologiche e commerciali, inclusa, quindi, Sky.
Ma non basta. C’è un’altra parte della storia che merita di essere raccontata.
Nello stesso periodo, infatti, il ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani – sodale del premier e uomo di punta del suo impero televisivo – procede al rinnovo del nuovo contratto di servizio pubblico con la Rai. Ci si aspetterebbe che il ministro faccia tesoro di quanto appena accaduto. Accade, invece, esattamente il contrario. Lo Stato obbliga Rai – ovvero sé stesso – esclusivamente ad essere presente su una piattaforma per ciascuna tecnologia e, dunque, su una sola piattaforma satellitare e le consente poi di mettere a disposizione la propria programmazione su tutte le piattaforme commerciali i cui gestori ne facessero richiesta a condizioni eque e non discriminatorie. Rai può dunque limitarsi ad essere accessibile attraverso TivùSat e riservarsi poi il diritto di negoziare un contratto, a titolo oneroso, con Sky.
Ma non basta ancora. Lo stesso contratto obbliga Rai e ,quindi, lo Stato a “promuovere la diffusione di TivùSat” e, quindi, di una società per il 48% della propria concorrente Mediaset. Tale attività di promozione – scrivono oggi i giudici del Tar Lazio nel pronunciarsi sulla domanda proposta da Sky di annullamento delle citate previsioni del contratto di servizio pubblico – “è destinata a risolversi in un vantaggio patrimoniale apprezzabile nei confronti non soltanto di Tivù… ma anche nei confronti degli operatori televisivi che l’hanno costituita insieme a Rai (Rti e Telecom Italia)”.
Per questa ragione – aggiungono i Giudici amministrativi – la disposizione del contratto di servizio pubblico in questione, “costituisce un aiuto di Stato illegittimo… e integra un elemento di alterazione della parità di condizioni del mercato concorrenziale televisivo a favore di alcuni operatori privati attraverso l’impiego di risorse pubbliche, introducendo una misura che, benché inserita in un quadro di misure volte a garantire la piena fruibilità del servizio pubblico televisivo, favorisce anche attività commerciali private che nulla hanno a che vedere con il servizio pubblico”. Impossibile essere più chiari: lo Stato – rappresentato dal Governo di Silvio Berlusconi – ha favorito una società del Cavalier Silvio Berlusconi, regalandole i contenuti del servizio pubblico radiotelevisivo, prodotti e trasmessi con i nostri soldi. Un ennesimo regalo di Stato.
Ciò che, tuttavia, in questa vicenda suscita più rabbia è vergogna e il comportamento dell’Autorità Garante per le comunicazioni che davanti ad un simile scandalo si è, prima, girata dall’altra parte e ha poi, persino, provato ad “incartare il regalo al Cavaliere con una propria delibera di favore”. Ecco perché non c’è partito che sia disposto a rinunciare a una poltrona in AgCom.