domenica 22 luglio 2012

Imu pazza, il governo sbaglia i conti. Contribuenti di nuovo a rischio salasso. Thomas Mackinson

Imu-interna-nuova


Le previsioni di incasso fornite dal ministero del Tesoro a marzo si sono rivelate in gran parte sballate: il saldo è inferiore di solo 100 milioni, ma le cifre sono errate in molti Comuni. Un pasticcio che rischia di costare caro ai cittadini. Per giunta mette in difficoltà gli enti locali: "Alcune città - denuncia l'Anci - rischiano il default".

Dopo gli esodati esplode la grana dell’Imu-pazza. Il ministero del Tesoro ha pubblicato i dati definitivi sui versamenti del primo acconto sull’aliquota base, stavolta non aggregati per provincia, ma distinti per singolo comune. E per molti sindaci non è proprio una bella notizia e neppure per i cittadini che rischiano di pagare un salasso a dicembre con il saldo dell’imposta immobiliare. Tutto perché le previsioni di incasso fornite dal Tesoro a marzo si sono rivelate oggi in gran parte sballate.
Il saldo generale doveva essere di 9,7 miliardi ed è stato di 9,6, 100 milioni in meno. Uno scarto non grandissimo frutto però della compensazione negli errori commessi: le città che incassano più del previsto compensano le minori entrate delle altre. Il rischio di errori era stato segnalato per tempo dall’Anci che a marzo aveva invitato il governo a usare come dato le cifre contabili inserite a consuntivo dalle singole amministrazioni. Il Ministero è andato dritto per la sua strada facendo proiezioni e analisi su dati nazionali.
Il risultato è una collezione di errori, una raccolta a macchia di leopardo che in alcuni casi ci prende (pochi), in altri va sotto (tanti) e qualche volta sopra gli importi stimati. Insomma, un pasticcio che rischia di costare caro ai contribuenti che a dicembre saranno chiamati a versare il saldo per rimettere a posto le cose e che getta nel panico gli amministratori. L’effetto immediato dell’Imu-impazzita è infatti l’impossibilità per molte amministrazioni di rispettare le previsioni inserite nel bilancio 2012. Alcune città, denuncia l’Anci, rischiano il “default“.
LA MAPPA DEGLI ERRORI
La ripartizione per comuni fa capire dove la seconda rata potrebbe fare più male. A Firenze, ad esempio, l’acconto è stato di 57 milioni di euro contro i 68 preventivati dal Tesoro. La discrepanza era stata già messa in luce nelle audizioni di bilancio a Palazzo Vecchio che avevano indicato uno scarto di 11 milioni di euro. E ora viene puntualmente viene confermata. La ricca Bergamo ha registrato un ammanco che si aggira intorno ai 35 milioni. Gli uffici tecnici comunali avevano calcolato (e poi messo a bilancio) 30 milioni, il ministero 5 di più. Alla fine l’incasso reale è stato ancora minore: 25,3 milioni da ripartire tra comune (15) e Stato (10,3).
Così nel Bresciano sono saltati tutti i parametri. Desenzano, ad esempio, per il Mef avrebbe dovuto incassare con la prima rata 7 milioni mente il dato pubblicato oggi dallo stesso ministero si ferma a 5,3. Per alcune amministrazioni l’errato calcolo apre la breccia a un buco di bilancio come Palazzolo, che doveva incassare 6 milioni ma si è fermata a 2 con la prima rata, il 33% del tributo. Gli uffici comunali avevano lanciato l’allarme settimana scorsa il consiglio comunale ha dovuto varare una variazione di bilancio per sanare quello che per il sindaco Giuseppe Zanni è “un buco di bilancio da 2 milioni di euro”.
Mantova la previsione era di 20 milioni tra parte comunale e statale. L’incasso è stato di 13,2 (7,5 locale e 5,6 per lo Stato). Fano, terza città delle Marche ha incassato 1,5 milioni in meno. A Salerno la stima del Tesoro era di 12 milioni ma il gettito reale è stato di 10. A Reggio Emilia il governo contava di incassare 55 milioni ma l’operazione Imu-prima-rata ne porta 10 in meno. Le cifre ballano anche per le ammnistrazioni di BolognaNapoliTorino. Poi ci sono quelle in cui l’errore del governo è stato per difetto: Milano, ad esempio, ha incassato 410 milioni, cioè il 10% in più rispetto alle stime.
COMUNI NEL PANICO
A fronte di incassi eccedenti o inferiori le attese dovranno scattare le perequazioni, un sistema dalla logica farragginosa che finisce per premiare chi ha pagato di meno: chi avrà versato di più infatti dovrà restituire allo Stato la quota parte eccedente, chi invece sarà sotto le previsioni non dovrà farlo e sarà sostenuto dal “fondo sperimentale di riequilibrio”. Ma a questo punto le certezze sono poche e forte è il rischio che i Comuni debbano tagliare ancora servizi o rifarsi sui contribuenti aumentando la fiscalità locale.
Ecco perché i sindaci martedì mattina protesteranno davanti al Senato per chiedere al governo un tavolo per rimettere in ordine le cose. “Tra Imu e spending review – accusa il presidente dell’Anci Graziano Delrio – il governo ha giocato una partita durissima sulla pelle dei comuni e i parlamentari si sono lasciati andare a entusiasmi troppo facili. Gli incassi dell’Imu sono a macchia di leopardo e i tagli sono stati invece lineari per tutti, sulla base di previsioni che si sono rivelate sbagliate. Saremo costretti a intaccare servizi essenziali o a aumentare la pressione fiscale”.
I sindaci insomma non la prendono bene, anche perché hanno fatto la parte degli esattori per conto dello Stato e indietro hanno ottenuto ben poco. “L’Imu sulla prima casa – spiega Delrio – non l’abbiamo neanche vista perché è andata dritto alle casse dello Stato. Per contro tutti i comuni hanno subito l’aggravento degli obiettivi del Patto di stabilità interno e l’effetto delle manovre finanziarie degli ultimi governi su risorse e trasferimenti. Dal 2007 al 2013 hanno fatto mancare 22 miliardi e oggi è altissimo il rischio che i comuni debbanno correre ai ripari con nuove imposte”, dice Delrio che richiama il governo a una responsabilità precisa. “Metta in moto subito le compensazioni per quei comuni ai quali ha tolto risorse sbagliando i conti. Se le amministrazioni randranno in default ci saranno conseguenze pesanti per tutta l’economia e il governo dovrà assumersi la reponsabilità di aver messo in ginocchio il sistema delle autonomie locali. Forse bisogna ricordare ai tecnici che è nelle città che si produce il Pil italiano, non nei ministeri”.

sabato 21 luglio 2012

Nessuno ascolti il Presidente. - Bruno Tinti.


Napolitano ha un ex collega che lo ha preceduto nella sua lotta con la Giustizia. Nel 1990 Cossiga rifiutò di testimoniare avanti al pm Casson che indagava sulla vicenda Gladio e che aveva chiesto di potersi recare al Quirinale per interrogarlo quale persona informata sui fatti. Anche allora la piramide si frazionò: i vertici, tutti dalla parte di Cossiga; la base e il centro, sovranamente indifferenti; e qualche libero pensatore dubbioso e propositivo. Più o meno come adesso.
Ricordo che pensai: ma se a Cossiga fosse stato richiesto di testimoniare su un incidente stradale avrebbe fatto tanto casino sulle sue prerogative costituzionali violate? Sarà che, pensai, il problema non è la prerogativa costituzionale del Presidente della Repubblica, ma l’eventualità di trovarsi in una scomoda situazione nell’indagine Gladio? Proprio come oggi. Com’è che le telefonate tra Napolitano e Bertolaso da cui emerge il pio interessamento del Presidente per i terremotati de L’Aquila non lo stimolarono (né lo stimolano) a evitare “precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”. 
Mentre quelle con Mancino, a caccia di raccomandazioni e interventi, invece sì?  Tra i pochi liberi pensatori che allora presero posizione ci fu Gustavo Zagrebelsky. Scrisse (La Stampa 10.11.90) che la testimonianza del Presidente della Repubblica era prevista dalla legge e che però, per via dell’art. 90 della Costituzione, non potevano essere adottate misure coercitive se Cossiga avesse rifiutato di testimoniare né incriminazioni se avesse detto il falso; che un conflitto avanti alla Corte costituzionale tra il Presidente e un giudice sarebbe stato “un fatto inaudito, un cattivo servizio alla Repubblica”; che si sarebbe potuto uscire da questa micidiale situazione se la Procura avesse sollevato di sua iniziativa (avanti al gip) un’eccezione di legittimità costituzionale (dunque una questione di carattere generale e non un duello tra istituzioni) delle norme che regolamentavano la testimonianza del Capo dello Stato. Ma non se ne fece nulla, Cossiga non testimoniò e l’arroganza del potere, come sempre, prevalse.
Oggi la Procura di Palermo è più fortunata (in verità di fortune così ne farebbe volentieri a meno): faccia Napolitano quello che vuole; le indagini proseguono e le intercettazioni restano in cassaforte, tanto non servono a niente perché non hanno rilevanza penale; si assuma Napolitano la responsabilità di fare “un cattivo servizio alla Repubblica” e soprattutto convinca i cittadini che tra lui e Mancino non si parlò di cose inconfessabili. In realtà ho sbagliato a scrivere che le intercettazioni non servono a niente; in un paese a normale democrazia conoscere quali rapporti intercorrano tra un Presidente della Repubblica e un indagato per falsa testimonianza in un processo come quello di Palermo (trattativa Stato-mafia, mica taccheggio al supermercato) potrebbe indurre i cittadini a cambiare Presidente; o quantomeno a provarci.
Sicché queste intercettazioni servono a molto; sono, come si dice, rilevanti. Ecco, si potrebbe cominciare a pensare che la “rilevanza” delle intercettazioni non è solo quella penale; anzi, in democrazia, dovrebbe essere soprattutto politica, sociale e, naturalmente – ma diciamolo sottovoce, non è un concetto popolare – etica.
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Roma, primo trapianto al mondo salvafegato da staminali.



Le cellule sono state usate per riscostruire l'organo devastato dalla cirrosi epatica.

ROMA
Cellule staminali prelevate da feti abortiti terapeuticamente sono state usate per ricostruire il fegato devastato dalla cirrosi epatica. Il primo trapianto al mondo di questo tipo è stato eseguito in Italia, nel Policlinico Umberto I di Roma, nell'ambito di un protocollo di ricerca che comprende 20 pazienti, tutti nello stadio avanzato della malattia.

Le cellule prelevate dal feto, abortito a causa di una malformazione, sono state infuse in un uomo di 72 anni ad uno stadio molto avanzato della malattia. La ricerca è stata sostenuta da finanziamenti del ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca e dal Consorzio Interuniversitario dei Trapianti d'Organo e dall'Agenzia Regionale dei Trapianti. L'intervento è stato eseguito circa una settimana fa con il coordinamento di Domenico Alvaro, Eugenio Gaudio, Pasquale Berloco e Marianna Nuti. Dal fegato del feto, dal peso 10-15 grammi, sono state isolate le cellule che servono a rigenerare il fegato, in tutto circa 50 milioni. «Sono cellule staminali pluripotenti», ha spiegato Alvaro. Sono cioè staminali in grado di maturare dando origine a cellule adulte di tipo molto diverso. Cellule di questo tipo, ha aggiunto, non danno alcun rischio di rigetto e non richiedono perciò che i pazienti debbano seguire cure immuno soppressive, volte cioè a ridurre le difese immunitarie perché queste non attacchino le nuove cellule.

Il risultato è il punto di arrivo di cinque anni di ricerche condotte dal gruppo di Alvaro e Gaudio, della facoltà di Medicina e Farmacia dell'università Sapienza di Roma, in collaborazione con il gruppo statunitense di Lola Reid, della North Carolina University. Il prelievo delle cellule fetali ha richiesto sei ore e le cellule non hanno subito alcuna manipolazione. Sono state quindi infuse nel fegato del paziente attraverso l'arteria epatica. «L'obiettivo - ha spiegato Alvaro - è di ripopolare in questo modo il fegato del paziente, in modo da ottenere aree di fegato funzionanti, che dovrebbero essere in grado di sostenere il fegato malato».

Il paziente è stato dimesso senza complicanze e saranno necessari circa due mesi per ottenere questo risultato. Se la risposta sarà positiva, la nuova tecnica permetterà alle persone con la cirrosi epatica allo stadio avanzato, che hanno solo pochi mesi di vita, di attendere il trapianto di fegato. «Sostenere pazienti in lista attesa per il trapianto è il nostro primo obiettivo - ha detto ancora Alvaro - e in futuro la stessa tecnica potrebbe essere utilizzate nei pazienti con l'epatite fulminante e nei bambini colpiti da malattie metaboliche».

Paperoni di Stato, ecco le dichiarazioni dei redditi dei manager pubblici. - Stefano Feltri e Carlo Tecce

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Il bollettino su quanto guadagnavano nel 2010 i super dirigenti, da Bankitalia, alla Rai e al Tesoro. Il presidente di Finmeccanica Orsi ha dichiarato 1,6 milioni, meno del predecessore Guarguaglini (5,5). Il presidente dell'Inps Mastrapasqua 1,3. Da sei anni diversi governi hanno cercato invano di mettere un tetto agli stipendi.

Sono ricchi, talvolta ricchissimi, hanno storie diverse, alcuni lavorano tantissimo, altri hanno solo cariche di rappresentanza ma ben remunerate. Ma hanno tutti una cosa in comune: lavorano per la Pubblica amministrazione. Grazie a una legge del 1982, ogni anno i “titolari di cariche elettive e direttive di alcuni enti”, cioè manager scelti dalla politica per guidare pezzi del potere economico statale o parastatale, devono rendere nota la loro dichiarazione dei redditi dell’anno precedente e la loro situazione patrimoniale, le auto che possiedono e le società di cui hanno azioni. Attenzione: si parla dei redditi complessivi, non degli stipendi pagati dalla pubblica amministrazione (anche se per molti le due cose coincidono, soprattutto per quelli al vertice di istituzioni che rendono incompatibili gli incarichi privati). Dal bollettino pubblicato il 16 luglio sui redditi 2010 che Il Fatto Quotidiano ha potuto consultare emerge uno spaccato della società italiana, il racconto di chi sono i veri ricchi di questo Paese (almeno i veri ricchi che non evadono, o quasi).
Nell’elenco compaiono alcuni politici, tipo Piero Fassino (128.191 euro) o Matteo Renzi (109.573 euro) in quanto presidenti di fondazioni locali, a Torino il teatro Regio, a Firenze il Maggio Fiorentino. Gianni Alemanno, citato in quanto presidente della Fondazione teatro dell’Opera di Roma, dichiara 152.055. Ma sembrano indigenti a confronto degli altri. Gli stipendi più alti si trovano nella prima linea delle società controllate dal Tesoro, nomi poco conosciuti al grande pubblico ma strapagati: guadagna 727.170 euro Domenico Arcuri, amministratore delegato di quell’Invitalia che aveva scelto lo squattrinato Massimo Di Risio per rilevare la Fiat di Termini Imerese (ora è stato scaricato da tutti, dopo aver fatto perdere un anno di tempo). Il vicepresidente di Fintecna, società che sta passando dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti, Vincenzo Dettori, dichiara 392.392 euro. Mentre i due vertici della Cassa depositi e prestiti sono su un altro ordine di grandezza: il presidente Franco Bassanini ha un reddito di 567.262, l’amministratore delegato Giovanni Gorno Tempini 1.925.997.
Ci sono anche figure di cui ci eravamo un po’ dimenticati: a fine 2011 il professor Augusto Fantozzi si è dimesso da commissario straordinario di Alitalia, incaricato di liquidare quel che restava della bad company, ma per il 2010 ha dichiarato un reddito di 3.686.272. Il suo compenso per l’attività di commissario è sempre stato misterioso e tuttora non sappiamo quanta parte di quei 3,6 milioni sia dovuta a tale attività. Il suo successore Stefano Ambrosini, che nel 2010 ancora non era subentrato a Fantozzi, si ferma a 957.379. L’ex leghista Dario Fruscio è stato per anni nel cda dell’Eni, poi è passato all’Agea, la società che gestisce i finanziamenti all’agricoltura, Umberto Bossi lo aveva rimosso e lui è riuscito a riprendersi la poltrona a colpi di ricorsi al Tar: deve essere ben pagata, visto che nel 2010 Fruscio ha dichiarato 1.048.478 euro. Un altro manager di area leghista, il varesotto Giuseppe Bonomi, alla Sea che gestisce l’aeroporto di Malpensa, dichiarava 919.847 euro.
NEL RAPPORTO curato dalla presidenza del Consiglio ci sono anche curiose eccezioni verso l’alto e verso il basso. L’imprenditrice milanese Diana Bracco, che figura in quanto presidente di Expo 2015, ha un reddito di 5,6 milioni di euro, ma non stupisce più di tanto, è noto che il suo gruppo sia redditizio. Sorprende invece un po’ la situazione di Mauro Cipollini, amministratore delegato di TechnoSky, una controllata dell’Enav, l’ente nazionale per l’aviazione civile che è finito al centro di alcune inchieste per presunte tangenti. Cipollini nel 2010 ha dichiarato soltanto 3.987 euro. Eppure nel 2007 ha comprato una Mini Cooper e l’anno successivo, nel 2011, immatricola una Porche Cayenne. Altra curiosità: nell’elenco c’è perfino il professor Francesco Alberoni, un tempo guru della sociologia all’Università di Trento oggi pensionato ed editorialista (nel 2010 ancora al Corriere della Sera) e presidente del Centro sperimentale di cinematografia: reddito da 396.389 euro.
Chi lavora alla Rai e alla Banca d’Italia ha redditi decisamente superiori. L’ex presidente della tv pubblica, il giornalista Paolo Garimberti, nel 2010 guadagnava 670.304 euro, l’allora direttore generale Mauro Masi ne dichiarava quasi altrettanti, 695.466, la sua sostituta Lorenza Lei si fermava a 424.106. Alla Banca d’Italia nel 2010 il più ricco era Mario Draghi, allora governatore, con 1,021 milioni di euro. Il suo direttore generale, Fabrizio Saccomanni, che ora potrebbe essere riconfermato dopo aver sfiorato la nomina a governatore, non se la passava tanto peggio: 838.596 euro. Ignazio Visco, suo vice all’epoca e oggi governatore, dichiarava la metà ma comunque cifre consistenti: 405.201 euro. Poi c’è Finmeccanica, società controllata dal Tesoro e di cui tutto è noto, visto che è quotata in Borsa. O meglio, sono noti gli stipendi dei suoi top manager ma non le loro dichiarazioni dei redditi. Eccole: nel 2010 Giuseppe Orsi, oggi presidente, dichiarava 1,654 milioni, l’allora presidente Pier Francesco Guarguaglini 5,5 milioni, Giorgio Zappa e Alessandro Pansa, entrambi con la carica di direttore generale, avevano rispettivamente un reddito di 2,5 e 2,6 milioni.
DA QUASI SEI ANNI diversi governi hanno provato a mettere un tetto agli stipendi, anche cumulati, dei manager che lavorano nel settore pubblico. L’ultimo tentativo è del governo Monti che a marzo ha fissato il limite a 294mila euro lordi all’anno. Sarebbe un bel crollo del reddito di molti dei protagonisti del rapporto di palazzo Chigi. Per rendere operativo il tetto serve un decreto del ministero del Tesoro che, come ricordato ieri da Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, ancora non si è visto. Qualche mese fa il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua, reddito 2010 da 1,36 milioni, si era detto sicuro che nel 2013 avrebbe dichiarato soltanto i 294 mila euro previsti dal governo. Forse era stato troppo pessimista.
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venerdì 20 luglio 2012

Sotto indagine i conti dei familiari di Dell'Utri.



L'ipotesi degli inquirenti è che i 40 milioni di euro che Berlusconi ha dato all'ex senatore, come prestiti, possano essere finiti in altri conti bancari.


Non solo l'ex senatore Marcello Dell'Utri, ma anche i suoi familiari sarebbero sotto indagine da parte degli inquirenti, per l'inchiesta sulle presunte estorsioni a danno di Silvio Berlusconi. In realtà ad essere oggetto di interesse sarebbero i conti bancari dell'entourage di Dell'Utri, per capire se quei 40 milioni di euro che l'ex premier ha dato all'ex manager di Pubblitalia, siano stati distribuiti ad eventuali altri beneficiari di quei "prestiti".

Quello che gli investigatori sanno per certo è che 15 dei 21 milioni spesi da Silvio Berlusconi per l'acquisto della villa sul lago di Como e di proprietà di Marcello Dell'Utri, sono finiti sul conto di Miranda Anna Ratti, moglie dell'ex senatore. Sul versamento c'è la data dell'8 marzo, ovvero il giorno prima che la Cassazione si pronunciasse sulla condanna per concorso in associazione mafiosa che Dell'Utri aveva subito nel secondo grado di giudizio.

11 di quei 15 milioni, vennero poi girati su un conto corrente bancario di Santo Domingo, per il quale ora la magistratura sta per chiedere una rogatoria, per capire esattamente che fine abbiano fatto quei soldi. Le ipotesi al vaglio degli investigatori sono quelle che l'ex president del consiglio possa aver pagato Cosa nostra per il tramite di Dell'Utri, proprio come si pensa sia avvenuto negli anni '70.



http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=30813&typeb=0&Sotto-indagine-i-conti-dei-familiari-di-Dell-Utri

"Sono diventato un bersaglio Andrò un anno in Guatemala". - Guido Ruotolo





Ingroia: “La logica della guerra non mi appartiene”

Nell’aula magna del primo piano di palazzo di Giustizia, quando il presidente della Corte d’Appello finisce di leggere il messaggio del Capo dello Stato, la platea di magistrati rimane fredda. Qualche timido applauso parte dalle autorità presenti. «Ho apprezzato e condiviso il richiamo del Capo dello Stato alla necessità di lavorare senza sosta e senza remore per accertare la verità sulla strage di via D’Amelio». Dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia arrivano segnali di pace in direzione dell’Alto Colle. Nel giorno del ventennale della strage di via D’Amelio, Ingroia racconta delle indagini e delle polemiche che lo hanno visto al centro dell’attenzione, in questi giorni. E annuncia che a settembre partirà per il Guatemala, accettando l’offerta delle Nazioni Unite per un incarico annuale.

Sostiene il procuratore di Torino, Giancarlo Caselli, che è stata dichiarata guerra contro di lei e l’ufficio di Palermo.
«Io non mi sento in guerra con nessuno, però che sia diventato un bersaglio questo lo avverto anch’io. Non mi appartiene la logica della guerra, in questi anni ho cercato di muovermi sempre seguendo gli insegnamenti di Paolo Borsellino».

Quali?
«Cercare la coesione istituzionale e la collaborazione tra le istituzioni per quello che dovrebbe essere l’obiettivo di tutti: la ricerca della verità».

Nel suo messaggio in occasione dell’anniversario di Borsellino, il Capo dello Stato fa un appello perché vengano scongiurate sovrapposizioni nelle indagini su torbide ipotesi di trattativa tra Stato e mafia...
«È vero che in passato c’è stata qualche incomprensione tra le procure che indagano sul biennio stragista del ‘92-’93. Ma da tempo ormai il coordinamento funziona a perfezione come attestato dal procuratore nazionale antimafia Piero Grasso».

Non è irrituale che la Procura di Palermo si appelli all’opinione pubblica?
«Noi lavoriamo nel rispetto delle regole ma se occorre ci appelliamo all’opinione pubblica per denunciare quello che non va. Ricordo che nell’estate del 1988 anche Paolo Borsellino si rivolse all’opinione pubblica denunciando un calo di tensione all’interno della magistratura, e perciò rischiò in prima persona un provvedimento disciplinare del Csm».

Procuratore Ingroia, chiariamo la questione delle intercettazioni indirette che coinvolgono il Capo dello Stato...
«Proprio per evitare il rischio di precipitosi o intempestivi depositi di intercettazioni che a nostro parere devono assolutamente rimanere segrete - così come fino a oggi è avvenuto - , sono state depositate soltanto le intercettazioni ritenute rilevanti (tra le quali non risultano telefonate del Presidente della Repubblica, ndr.). Quelle del tutto irrilevanti sono rimaste in un altro procedimento che avrà tempi certamente molto più lunghi rispetto al fascicolo definito in questi giorni».

Si invoca la necessità di far chiarezza sulla trattativa e implicitamente si accusa il Capo dello Stato di frapporre ostacoli a questo obiettivo. Ma scusi, procuratore Ingroia, nei prossimi giorni non chiederete il processo per la trattativa?
«La Procura di Palermo ritiene di aver ricostruito la trama e lo svolgersi di questa trattativa; di aver individuato i principali protagonisti, ma non ancora tutti coloro che hanno avuto un ruolo nella trattativa, nella consapevolezza che rimangono ancora dei buchi neri».

Quali?
«Più che quali insisterei oggi nel segnalare che per risolvere i punti ancora da chiarire dobbiamo superare l’omertà in Cosa nostra di quel tempo, e reticenze nel mondo istituzionale di quel tempo».

Come superare queste reticenze?
«Credo sia necessario che la politica, le istituzioni comprendano di dover procedere quanto prima alla revisione della legge sui pentiti, allungando il periodo dei sei mesi entro i quali il collaboratore di giustizia deve dichiarare tutti i temi sui quali vuole parlare».

Allora, procuratore Ingroia accetta l’offerta delle Nazioni Unite? Va in Guatemala?
«Da tempo le Nazioni Unite mi hanno proposto un incarico annuale di capo dell’unità di investigazione e analisi criminale contro l’impunità in Guatemala. La proposta la considero una sorta di prosecuzione della mia attività in Italia. In quelle latitudini, per fortuna, i giudici antimafia italiani sono apprezzati anziché denigrati e ostacolati».

Sembrava che volesse rinunciare all’offerta dell’Onu...
«I fatti accaduti negli ultimi giorni, la delicatezza del momento mi stanno facendo riflettere sui tempi entro i quali accettare la proposta. Intanto ho deciso di rinunciare alle mie ferie».

Scarpinato: quale realtà del potere dello Stato si celava dietro lo stragismo?


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“In tutti questi anni c’è un dubbio che non ha mai smesso di tormentarmi e che si riaccende ogni volta che penso alla disperata rassegnazione di Paolo Borsellino” ha esordito il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Caltanissetta Roberto Scarpinato nel corso della conferenza “perché lui si convinse che nessuno poteva fermare la mano dei suoi carnefici? Perché si sentì tradito al punto di avere una crisi di pianto? Perché lo Stato questa volta non poteva, o peggio non voleva proteggerlo? Perché disse a sua moglie: mi ucciderà la mafia ma saranno altri a volermi uccidere? Chi erano questi che lo volevano morto? Troppi interrogativi, che a mio parere non trovano ancora risposte plausibili.
Troppe anomalie, troppi fatti inquietanti, che non trovano spiegazione neppure con la cosiddetta trattativa. E il nodo della riflessione che dobbiamo fare non può che essere lo Stato”. Ha proseguito poi elencando una serie di domande che esigono una risposta “Qual era la realtà del potere che si celava dietro lo Stato negli anni dello stragismo? In altri termini: c’era un solo Stato oppure lo Stato aveva più volti? E ancora: la questione stragista del ‘92 e ‘93 è solo una drammatica vicenda criminale o è anche una questione di Stato? E in che senso? Solo nel senso di cui si discute in questi giorni? Oppure c’è una realtà più drammatica e sommersa? Forse anche qui gli esecutori mafiosi poterono contare su suggerimenti e apporto logistico che avevano un piede dentro lo stato, appartenevano a strutture deviate dello stato. Se facciamo un elenco di tutte le anomalie che hanno caratterizzato le stragi e le fasi successive sembra di trovarsi dinanzi alla replica di un know how sperimentato durante stragismo della prima Repubblica.”

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