domenica 12 gennaio 2020

Il 3° giorno resuscitò - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 12 Gennaio

L'immagine può contenere: 3 persone, vestito elegante

Più leggiamo i giornali, più ci convinciamo che stiano facendo di tutto per convincere i lettori dell’inaffidabilità dei giornalisti, categoria ormai inutile, se non dannosa. Per due giorni, dopo che il presidente libico Al Sarraj aveva revocato all’ultimo momento la visita al premier italiano Conte, programmata a breve distanza da quella del suo nemico Haftar, le mejo firme del bigoncio hanno fatto a gara nello scrivere che quella era una “gaffe” del nostro capo del governo, o del suo portavoce Casalino, o del ministro degli Esteri Di Maio, o di tutti e tre: l’ennesima prova del fatto che l’Italia non conta più niente (diversamente da prima, quand’era padrona dell’Europa e del mondo), non ha una politica estera, anzi non ha una politica punto, perché chi la governa non sa proprio come si fa. Mancava poco che la guerra civile in Libia fosse colpa di Conte, Casalino e Di Maio. Breve antologia: “Conte vede solo Haftar, Sarraj diserta. Gaffe diplomatica sul conflitto in Libia”, “Il pasticcio inquieta i diplomatici: ‘Errore madornale, ci costerà caro’” (Corriere), “Gaffe, flop e debolezze. Le inutili fatiche di Di Maio. Sarraj ha scaricato l’Italia e aperto ai turchi dopo che il grillino ha visto Haftar” (Stampa), “Conte vede Haftar. Ira di Serraj che non va a Palazzo Chigi”, “In Libia contiamo meno di zero… Di Maio vuol abolire il ministero degli Esteri”, “L’Italia perde la sua guerra” (Repubblica), “Gaffe italiana su Haftar” (Sole 24 ore), “Conte senza l’oste” (manifesto), “Anche il premier di Tripoli prende a ceffoni Giuseppi. Figuraccia internazionale”, “C’è l’impronta di Mattarella sul disastro libico di Conte”, “Governanti per caso”, “I volponi del deserto”, “Lo smacco subito da Conte”, “Non sanno che pesci prendere” (La Verità), “Conte e Di Maio dilettanti senza frontiere. Organizzano un vertice sulla Libia disertato dal leader libico”, “Berlusconi è preoccupato: ‘Così il Paese esce di scena’”, “L’Italia fatta fuori dalla Libia” (il Giornale), “Governo pattumiera. Non conta più nulla nel mondo” (Libero).

Bastava aspettare due giorni per scoprire che Serraj, ieri, ha regolarmente incontrato Conte a Palazzo Chigi: pressato da turchi e russi e minacciato dalle milizie nemiche, ha preferito venire 48 ore dopo il rivale. Il che naturalmente non significa che ora le cose in Libia andranno meglio, o che l’Italia conti più di prima, o che Conte e Di Maio, morti mercoledì, siano resuscitati il terzo giorno. Significa più modestamente che non hanno mai smesso di muoversi nel campo minato di una guerra per bande che più caotica non si potrebbe ed esigerebbe una presenza diplomatica compatta dell’Europa, non di questo o quel Paese.

Ora non sarà certo una visita in più o in meno di Sarraj o di Haftar o di entrambi, nello stesso giorno o a tre giorni di distanza, a cambiare le cose. Nè tantomeno a misurare il peso dell’Italia nel mondo. Ma chi aveva tratto giudizi catastrofici sul nostro governo dalla (momentanea) buca di Sarraj a Conte, per coerenza dovrebbe riconoscere di aver scritto un sacco di fregnacce e scusarsi. Non succederà, naturalmente, e questo convincerà vieppiù i lettori superstiti che i giornali servono a incartare il pesce. Così come dimostrato dall’intera copertura informativa della prescrizione, dove si parla solo di cose che non c’entrano nulla con la prescrizione: la presunzione di non colpevolezza, il garantismo, il giustizialismo, le manette, la funzione rieducativa della pena, la lunghezza dei processi. E mai del fatto che l’Italia è l’unico Paese d’Europa che spende un capitale per scovare e mandare a giudizio gli indiziati di reato e poi ne lascia impuniti 3-400mila all’anno perché il tempo è scaduto. L’altro giorno, a 40 anni esatti dalla strage di Bologna, è stato condannato in primo grado un altro neofascista, Gilberto Cavallini. Unanime e giusta esultanza perché la verità, sempre depistata, fa un altro passetto in avanti verso i mandanti che, se tutto va bene, saranno beccati a funerali avvenuti. Per fortuna le stragi, come gli omicidi, non si prescrivono mai. Tant’è che fu possibile processare Priebke e altri ufficiali tedeschi nonagenari per le stragi naziste del 1943-’45. Qualche anima bella de sinistra, che si straccia le vesti per i “processi eterni” che violano la “ragionevole durata” e la “funzione rieducativa della pena” condannando chi intanto è molto cambiato, dirà mai che bisogna smetterla di indagare sulle stragi impunite solo perché chi le faceva ora ha smesso?
No, per un motivo semplice: i padroni del dibattito pubblico non sono coinvolti nelle stragi, dunque per quelle la prescrizione non serve e la ragionevole durata dei processi è un optional. Vale solo per le specialità della casa: ruberie, mafierie, omicidi colposi e così via. E non per abbreviarli (prima finiscono, prima i colpevoli vanno dentro), ma per allungarli e farli prescrivere. Infatti lorsignori tuonano contro i processi lunghi solo perché rivogliono la prescrizione. Infatti, quando Davigo o Gratteri spiega come si accorciano, strillano come vergini violate. Da un anno il povero Bonafede fa il piazzista per farsi approvare la riforma del processo penale che ne taglia i tempi (se cambia un giudice, non si riparte da zero; i processi monocratici restano tali anche in appello; termini più stringenti per le indagini e i vari gradi di giudizio, con azioni disciplinari per i magistrati che non li rispettano per “dolo o negligenza inescusabile”; notifiche non più a mano, ma sulla Pec dei difensori dalla seconda in poi; nuove “assunzioni” di magistrati e cancellieri). Purtroppo cambiano i governi, ma non si trova nessuno -nè Lega, nè Pd&Iv – che la voti. Il sistema non vuole processi più brevi, ma più lunghi, possibilmente prescritti. 

L’informazione dovrebbe smascherare questi impostori. Invece fa il palo e regge il sacco.

Libia, forze Haftar annunciano il cessate il fuoco.


Libia, forze Haftar annunciano il cessate il fuoco. ANSA/EPA

A Roma l'incontro tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il primo ministro libico Fayez Sarraj.

Ahmed Al Mismari, portavoce dell' Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar, ha annunciato in un video il cessate il fuoco a partire dalla mezzanotte. Una dura rappresaglia, ha affermato, verrà attuata contro chi non lo rispetterà.

Intanto a Roma il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha incontrato con il primo ministro libico Fayez Sarraj.
"Siamo estremamente preoccupati - ha detto Conte - per l'escalation" in Libia gli ultimi sviluppi stanno rendendo un paese una polveriera con forti ripercussioni, temiamo, sull'intera regione". Bisogna "assolutamente fermare il conflitto interno e le interferenze esterne". "L'Italia ha sempre linearmente, coerentemente lavorato per una soluzione politica, per contrastare l'opzione militare, ritenendo l'opzione politica l'unica prospettiva che possa garantire al popolo libico benessere e prosperità. Non abbiamo altri obiettivi, non abbiamo agende nascoste" ha detto il premier. "Possiamo rivendicare come Italia e governo in particolare, una posizione lineare e coerente nel linguaggio, nelle azioni e negli obiettivi". "Lunedì sarò in Turchia, martedì in Egitto, ma ho già programmato colloqui telefonici con leader di governo e presidenti di vari Paesi che sono coinvolti nello scenario libico. Voglio continuare a tessere questa tela che deve portarci a una soluzione pacifica". Lo dice il presidente del Consiglio Giuseppe Conte al termine dell'incontro con il primo ministro libico. 


LA CONFERENZA STAMPA CONTE-AL SARRAJ.
Apprezzamenti per il ruolo dell'Italia sono stati espressi dal premier libico al Sarraj. "Accogliamo con piacere l'iniziativa di Russia e Turchia per un cessate il fuoco e sempre disponibili ad accogliere qualsiasi tipo di iniziativa possa andare in questa direzione. La condizione è il ritiro della parte che attacca, che non sembra disponibile a ciò" perché ha un altro modus operandi. Lo ha detto il premier libico Fayez al Sarraj, al termine dell'incontro a palazzo Chigi con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. "Siamo estremamente convinti della bontà della conferenza di Berlino che tende a ripristinare il processo politico che per noi è molto importante e apprezziamo gli sforzi in questa direzione, con il coinvolgimento della Germania ma anche di Paesi vicini a noi come l'Algeria e la Tunisia" dice il primo ministro libico Fayez Sarraj al termine dell'incontro con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte durato tre ore. "Confidiamo che questa iniziativa possa porre fine all'offensiva di cui soffriamo e che si traduce anche nell'invio di armi e supporto militare di Paesi terzi alla fazione che attacca. Ci auguriamo che possa aiutarci a porre fine a ciò", aggiunge. "Sappiamo che ogni Paese mira sempre a difendere i propri interessi ma ciò può essere fatto in maniera etica, morale e giusta, perciò siamo costretti ad assumere una posizione difensiva e difendere i nostri diritti".

Amenità.





sabato 11 gennaio 2020

Chi è attaccato alla poltrona? - Massimo Erbetti

voltagabbana

Di seguito la lista completa dei senatori che hanno firmato per salvare le poltrone.

Forza Italia: Aimi, Alderisi, Barboni, Battistoni, Berardi, Biasotti, Binetti, Caliendo, Caligiuri, Cangini, Carbone, Causin, Cesaro, Craxi, Damiani, De Poli, De Siano, Fantetti, Fazzone, Floris, Gallone, Gasparri, Giro, Lonardo, Malan, Messina A., Minuto, Modena, Moles, Pagano, Papatheu, Paroli, Perosino, Pichetto Fratin, Rizzotti, Saccone, Schifani, Sciascia, Serafini, Siclari, Toffanin, Vitali.

Lega: Barbaro, Candura, De Vecchis, Grassi, Lucidi, Marti, Montani, Pepe, Urraro.

Misto: Bonino, Buccarella, Cario, De Bonis, De Falco, Fattori, Laforgia, Martelli, Merlo, Nugnes.

Pd: Giacobbe, Nannicini, Pittella, Rampi, Rojc.
Italia viva-Psi: Garavini, Nencini.

M5S: Di Marzio, Marilotti.
Senatore a vita: Rubbia.

Ognuna di queste persone da una motivazione, più o meno condivisibile, ognuno parla di "ultima parola al popolo", non voglio entrare nel merito della questione, ognuno ha la propria visione e ognuno è libero di pensarla come vuole, ma siamo certi che sia solo un problema di rappresentatività? O c'è dell'altro? Come mai all'ultimo momento, quando mancavano 6 firme, la Lega ad esempio è corsa in soccorso dei firmatari, nonostante avesse per ben quattro volte votato a favore? Far slittare il taglio significa in soldoni e con le percentuali della lega, nel caso in cui si andasse ad elezioni, raddoppiare gli eletti, oggi sono poco meno di 200, per cui arriverebbe a circa 400, il che significa che se ogni parlamentare oggi restituisce al partito 3.000€ al mese, a fine anno nelle casse leghiste entrano 7 milioni di euro...con un numero doppio di eletti, la cifra salirebbe a 14 milioni...
la "Bestia" leghista ha fame e quei 7 milioni in più potrebbero placare il suo appetito. Nel caso invece, in cui avvenisse il taglio, per la Lega con le percentuali attuali, il numero sarebbe di poco superiore a quello attuale e gli introiti per il partito pressoché quelli attuali...adesso domandatevi chi è attaccato alla poltrona?

UN PAESE IMMAGINARIO. - Gherardo Colombo

Risultato immagini per evasione, illegalità corruzione"

All'angolo di una via c'è una salumeria. Entra in negozio un vigile urbano, ha il compito, tra l'altro, di verificare la bilancia. Dopo alcune allusioni, mezze frasi, e occhiatine, il vigile esce con un paio di borse della spesa ricolme. Le ha avute gratis e in cambio non ha controllato nulla. Il negoziante può continuare a vendere la carta della confezione allo stesso prezzo del prosciutto.

Due piani sopra, nello stesso edificio, una signora sta pagando l'idraulico che le ha appena aggiustato il rubinetto. "Se vuole la fattura sono centoventi euro, se non la vuole novanta, un piccolo sconto." "Faccia senza fattura, non mi serve, grazie per lo sconto."

A due passi c'è l'ufficio delle imposte. Un distinto signore sta parlando con il funzionario a proposito di una presunta evasione. Dopo un po', quando ha capito che non rifiuterà, gli fa scivolare tra le mani una busta piena di denaro. Ancora qualche scambio di battute, si stringono la mano e si salutano: l'evasione è scomparsa.

Poco più in là c'è una banca. Entra un cliente, titolare di conto corrente. Saluta il cassiere, apre la valigetta che porta con sé e pone sul banco una serie di mazzette di banconote. Il cassiere, allertato dal direttore, gli suggerisce il sistema per depositarle sfuggendo ai controlli antiriciclaggio. Intanto nella stessa banca, negli uffici della dirigenza, si approva l'idea di suggerire ai clienti meno importanti l'acquisto di bond che diverranno presto carta straccia.

Due isolati più in là c'è il palazzo di giustizia (i lavori di sopraelevazione sono stati assegnati all'impresa che ha versato una cospicua tangente). Un avvocato e un giudice stanno mercanteggiando l'esito di un processo che riguarda persone potenti.

Nelle prigioni vicine un altro avvocato millanta al cliente le sue entrature con il gip che segue il processo: "Sei messo male, ma la libertà è cosa fatta con un adeguato regalo al giudice".

Nel suo studio, un altro avvocato, riceve un nutrito "fondo spese" senza fattura, esentasse.

Un paio di chilometri più in là, allo stadio, c'è la partita. L'arbitro fischia un rigore assai dubbio a favore della squadra di casa, dai cui dirigenti aveva ricevuto qualche giorno prima in riconoscimento della sua competenza un bell'orologio di marca.

La sera, in un luogo appartato, l'esponente di un grande partito riceve una borsa dal dirigente dell'impresa capofila nella costruzione della metropolitana. Sono le tangenti meticolosamente raccolte fra tutte le società che partecipano ai lavori. Chi le riceve chiama al telefono i colleghi degli altri partiti che contano: "Ci vediamo domani", e l'indomani il denaro viene spartito secondo tariffe prestabilite, un tanto ciascuno, a percentuale variata a seconda del peso politico.

La sera tardi, in una strada di periferia, un distinto signore contratta le grazie di una ragazzina “importata” da un paese più povero con l'inganno e ridotta tramite violenza e minacce in condizioni non lontane dalla schiavitù.

La mattina seguente nell'ospedale civile vengono impiantate valvole cardiache che si dimostreranno difettose, il cui acquisto era stato accompagnato (anche quello) da tangenti.

Frattanto alcuni medici di base prescrivono ai loro clienti esami dei quali non hanno bisogno, da effettuare in cliniche private con spese a carico della regione, o specialità di industrie farmaceutiche che già li hanno invitati al convegno - weekend tutto compreso per medico e famiglia - in una rinomata località balneare.

In una caserma vicina il maresciallo della fureria si porta a casa, ben confezionato per essere conservato in freezer, un quarto di bue destinato alla mensa sottoufficiali, e nei locali del comando si perfezionano contratti d'acquisto per forniture di dubbia utilità, in cambio, anche qui, di un po' di denaro contante.

Tre strade più in là c'è un cantiere edile: bussa agli uffici l'ispettore del lavoro, dovrebbe controllare presenza e adeguatezza delle misure antinfortunistiche. Gli mettono in mano un elenco di oggetti (elmetti, cinture di sicurezza, scarpe antiscivolo) e una busta (di soldi), compila la sua certificazione di regolarità del cantiere e se ne va.

All'istituto delle pensioni c'è qualcuno che falsifica i dati al computer di chi l'ha pregato (con obolo) di farlo apparire professionalmente più anziano di quello che è.

Senza neanche chiedere un compenso, il medico di base rilascia su richiesta telefonica un certificato di malattia al dipendente pubblico che si è allungato un po' le vacanze.

Il titolare delle pompe funebri ha stabilito un accordo con gli infermieri dell'ospedale: un tot per la notizia in esclusiva di ogni decesso.

Intanto il benzinaio ha apportato qualche modifica agli erogatori di carburante, per lucrare quasi impercettibili differenze di prezzo per litro, che diventeranno sommette alla fine della settimana;

i sottoufficiali della polizia tributaria sono addolciti dalla solita busta e il loro controllo dei conti della grande compagnia darà risultati del tutto regolari.

La marca del cibo alla mensa scolastica è scelta in cambio di soldi;

sempre per soldi qualcuno consente che in carcere entri qualche stupefacente;

agenzie di pubblicità e di consulenza aiutano i loro clienti a creare fondi occulti, restituendo in nero parte del prezzo delle prestazioni.

Irreprensibili imprenditori si rivolgono al crimine organizzato per far sparire i rifiuti tossici e pericolosi prodotti dalle loro aziende.

Un giornalista decanta sul proprio giornale pregi e virtù del tale oggetto, dopo essere stato adeguatamente invogliato;

si costruiscono e ricostruiscono alcune autostrade perché è stato lesinato il cemento; si truccano i concorsi per essere ammessi all'università;

si rendono edificabili terreni che dovrebbero essere destinati a parco (ancora in cambio di soldi);

si paga per farsi assegnare la costruzione della pista del nuovo aeroporto, per essere preferiti nella fornitura di materiale ferroviario, per ottenere un posto al cimitero.

Poi, c'è la mafia. C'è chi una volta al mese (là dove la mafia è più forte) passa tra i vari negozi e le imprese per raccogliere il "premio dell'assicurazione contro gli atti vandalici", la tariffa della "protezione" garantita a chi non si oppone alla riscossione. C'è chi si infiltra nelle istituzioni, chi chiede e ottiene per la mafia la propria parte negli appalti. C'è chi traffica droga, e chi esseri umani. C'è anche (talvolta ma c'è) chi fa degli accordi anche a bassi livelli: il poliziotto che tira a campare, e riceve favori (denaro, coca, ragazze compiacenti) in cambio di chiudere un occhio.

Trionfano il sotterfugio, la furbizia, la forza, la disonestà sotto l'apparenza delle leggi uguali per tutti, del rispetto per ogni diritto di base. Coloro che si attengono alle leggi formali (che non è detto siano pochi) sono scavalcati ogni giorno da chi non le osserva.

Ma tutto questo non è reale. Questo Paese non esiste.

-In questo paese immaginario il reddito di cittadinanza è uno spreco e non può esistere-

https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=817996195332202&id=100013654877344

L’onore delle armi - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano dell'11 Gennaio.

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Non sappiamo se Luigi Di Maio terrà ferma la decisione di lasciare già nei prossimi giorni la carica di capo politico del Movimento 5Stelle. Quel che sappiamo, al momento, è ciò che abbiamo scritto ieri dopo aver verificato la notizia con varie fonti: e cioè che ha comunicato a pochi fedelissimi l’intenzione di dimettersi prima delle Regionali in Emilia-Romagna e in Calabria (che lui non voleva, ma gli sono state imposte da uno scriteriato voto su Rousseau). Perché non ne può più di fare il parafulmine e il capro espiatorio di tutto ciò che non va e anche di ciò che va, nel Movimento e fuori. E per tentar di frenare la frana di miracolati, furbastri, poltronari, opportunisti e scappati di casa nei gruppi parlamentari. Ora può sempre darsi che cambi idea o che qualcuno gliela faccia cambiare, ma è improbabile: il ragazzo ha vari difetti, ma non è un cialtrone né un improvvisatore. A dispetto dell’apparente freddezza, a volte eccede in impulsività: come quando chiese l’impeachment per Mattarella per i no a Savona e dunque a Conte e poi due giorni dopo salì al Colle a scusarsi. Ma quella di passare la mano ha tutta l’aria di una scelta meditata da tempo e precipitata dopo la rottura col gemello diverso Di Battista sul caso Paragone. E va capita, anche da chi – come noi – non la condivide. Anzitutto per un dato che spesso si dimentica: Di Maio ha 33 anni, è stato eletto capo politico a 29, ha vinto le elezioni col 32,7% ed è diventato vicepremier e biministro quando ne aveva 31.
Non so voi, ma io a 30 anni, con tutte quelle responsabilità e tensioni sul groppone, sarei stramazzato al suolo. Lui, il “bibitaro” senza bibite, ha retto gli urti con disinvoltura e intanto ha raccolto molti risultati senza vendersi l’anima. Ha portato i 5Stelle al massimo storico e al governo. Ha rinunciato due volte alla premiership per ragioni di principio (non baciare la pantofola a B. e a Salvini). Ha scelto con Grillo un premier degno e abile come Conte. È stato un buon ministro del Lavoro (e lì doveva fermarsi, lasciando il Mise a un altro), mentre agli Esteri è presto per giudicarlo.
Ha piantato in due anni quasi tutte le bandiere del M5S: il dl Dignità e il Reddito di cittadinanza; le leggi contro la corruzione, la prescrizione, il bavaglio sulle intercettazioni, la svuotacarceri, le trivelle, gli inceneritori, il gioco d’azzardo; i risarcimenti ai truffati dalle banche, il taglio ai vitalizi, ai parlamentari e alle pensioni d’oro, i referendum propositivi, le manette ai grandi evasori. Ha pilotato la svolta governista dando al M5S una classe dirigente tutt’altro che disprezzabile in diversi elementi, sia interni sia della società civile.
Ha limitato le lottizzazioni, nominando negli enti pubblici anche figure indipendenti anziché portaborse di partito (Salini e Freccero alla Rai, Tridico all’Inps, giuristi super partes al Csm). Ha gestito al meglio la crisi di agosto, risparmiandoci un voto anticipato che ci avrebbe consegnati al Cazzaro con pieni poteri e accompagnando con qualche mal di pancia il M5S sulla nuova linea Grillo: l’alleanza col centrosinistra, nella speranza di accelerarne il rinnovamento. E potrà sempre vantare due legislature e due governi senza che un solo scandalo o sospetto di corruzione o peggio di mafia abbia anche soltanto sfiorato un suo ministro o parlamentare. Purtroppo non sempre l’onestà ha fatto rima con capacità e questo, anche se è un tratto comune a tutti i partiti, Di Maio l’ha pagato più degli altri, perché chi vuole mandare a casa tutti non può essere come tutti, dev’essere meglio. Accanto alle battaglie vinte, ci sono quelle perse per mancanza di numeri (spacciate per incoerenze e voltafaccia): su Tav, Tap e riconversione dell’Ilva. E le sconfitte elettorali: dopo il trionfo del 2018, le disfatte in tutte le regioni al voto e soprattutto alle Europee, cui non è mai seguita una seria e collegiale autocritica.
E questo è il primo di una serie di errori, anche gravi, al netto della scarsa capacità di comunicare (il “mandato zero” resterà negli annali come esempio da non seguire): il salvataggio di Salvini dal processo Diciotti, lo scarso sostegno alla sindaca Raggi (che pure di errori ne ha commessi parecchi), l’eccessiva remissività sul razzismo (più parolaio che fattuale) di Salvini, le resistenze alla lotta contro i piccoli e medi evasori e la rinuncia frettolosa alle alleanze nelle regioni su candidati civici dopo l’infausta esperienza umbra, la tendenza a sospettare di tutti e quindi a circondarsi di yesmen, l’enorme ritardo nel rimetter mano all’organizzazione con i “facilitatori” tematici e territoriali e l’annuncio degli stati generali programmatici. Ma, più che i suoi errori, Di Maio sta pagando paradossalmente i suoi meriti: per esempio, aver tenuto duro sul vincolo dei due mandati e le restituzioni degli stipendi, che è il vero movente delle fuoriuscite di chi vuol tenersi lo stipendio e/o vuol essere ricandidato per la terza volta e si traveste da Solgenitsin contestando scelte politiche e regole interne a suo tempo sottoscritte, o scoprendo all’improvviso l’esistenza di Casaleggio. Forse Di Maio avrebbe dovuto anticipare l’uscita a giugno, subito dopo la débâcle alle Europee: i tanti abituati a prendersi gli applausi e a fuggire ai primi fischi l’avrebbero richiamato in servizio a forza. Certo avrebbe dovuto dialogare di più coi gruppi parlamentari. Ma, per quanto indebolito, amareggiato da tradimenti e ingratitudini, sfibrato dall’eterna graticola che lo incolpa di tutto e del suo contrario (troppo filo-Salvini e poi troppo anti, troppo anti-Conte e ora troppo filo), rimane il più capace dei suoi. Il movimentista Dibba, per dire, destabilizzerebbe il governo. Ora, per riempire il vuoto della transizione, dovrà parlare Grillo. Ma il futuro vertice dei 5Stelle, monocratico o collegiale che sia, non potrà rinunciare a Di Maio.


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venerdì 10 gennaio 2020

Contro il taglio dei parlamentari i Radicali nelle piazze raccolgono solo 669 firme. Ma arrivano i senatori leghisti in aiuto dei salva-poltrone.

Contro il taglio dei parlamentari i Radicali nelle piazze raccolgono solo 669 firme. Ma arrivano i senatori leghisti in aiuto dei salva-poltrone

I banchetti tra i cittadini per chiedere il referendum confermativo della legge costituzionale si sono rivelati un flop. Ma il supporto necessario per chiedere la consultazione è arrivato dai parlamentari del Carroccio. E anche se solo ieri un gruppo di sottoscrittori di Pd e Fi si era tirato indietro o comunque aveva congelato la sua partecipazione, oggi i promotori hanno depositato 71 firme. Tra le new entry nella lista: 5 senatori di Fi, 6 della Lega e 1 di Leu. M5s: "Incollati alla poltrona".

La raccolta firme del Partito radicale per il referendum contro il taglio dei parlamentari si è rivelata un flop, ma ci hanno pensato i leghisti a resuscitare quella dei senatori. Quando ormai sembrava che l’operazione di chi vuole salvare le poltrone di Camera Senato fosse destinata a fallire, è arrivato l’intervento di sei parlamentari del Carroccio. Da una parte infatti i radicali hanno annunciato di aver raccolto solo 669 firme sulle 500mila necessarie, ma dall’altra l’iniziativa dei senatori ha raggiunto il quorum superando la soglia dei 64 e lo ha fatto grazie all’apporto dei leghisti. Intorno alle 15 i tre promotori del referendum contro il taglio, Andrea Cangini (Fi), Tommaso Nannincini (Pd) e Nazario Pagano (Fi) si sono presentati in Cassazione per depositare le 71 firme necessarie per la richiesta. Ben 7 in più del numero minimo richiesta di 64 e appena due giorni prima della data utile. Le new entry che hanno aderito dopo le defezioni sono: cinque senatori di Fi, 6 della Lega e 1 di Leu. “Non hanno resistito alla voglia di tenersi strette le poltrone e a quanto pare è arrivato l’aiutino’ della Lega”, filtra da alcune fonti del M5s. “Non vediamo l’ora di dare il via alla campagna referendaria per spiegare ai cittadini che ci sono parlamentari che vorrebbero bloccare questo taglio, fermando così il risparmio di circa 300mila euro al giorno per gli italiani che produrrebbe l’eliminazione di 345 poltrone”.
Eppure ieri sembrava che i partiti fossero ritornati sui loro passi con quattro esponenti di Forza Italia che hanno ritirato il proprio sostegno all’ultimo minuto e le perplessità di una decina di sottoscrittori. La defezione è partita proprio per un ripensamento dell’ala di Forza Italia vicina a Mara Carfagna e quindi a quell’area che ha più voglia di sostenere il governo Conte 2. E quindi non ha nessuna intenzione di minare gli equilibri dell’esecutivo. “Quello sul taglio dei parlamentari è un referendum salva-poltrone“, ha scritto (non a caso) oggi in una nota la stessa Carfagna. “È un vero e proprio trucchetto, che ha come unico obiettivo quello di costringere gli italiani a eleggere nuovamente mille parlamentari, anziché seicento. Per questo ai colleghi senatori che mi hanno chiesto un parere ho detto: non prestatevi a un giochino di Palazzo che screditerà la politica, squalificherà Forza Italia, resusciterà il populismo. La riduzione dei parlamentari è stata approvata con il sì di Forza Italia appena tre mesi fa, dopo quattro letture”. E ha concluso: “Chi vuole il referendum per rimandare il taglio dei parlamentari lo dica apertamente, ci metta la faccia e non utilizzi giochi di palazzo”.
Non c’è ancora la lista definitiva delle 71 firme raccolte a Palazzo Madama. In quella lista, però, non compariranno gli autografi dei senatori del Pd Francesco Verducci e Vincenzo D’Arienzo che hanno ritirato, a quanto si apprende, il proprio sostegno alla petizione. I dem spiegano che i due senatori lo avrebbero fatto in conseguenza “di un fatto politico nuovo” e cioè la presentazione di quella proposta di legge elettorale proporzionale, che fin dall’inizio era stata chiesta dal Pd in relazione al taglio dei parlamentari. Si è tirato indietro anche il senatore M5s Mario Michele Giarrusso: “L’ho ritirata, perché la mia posizione è stata strumentalizzata da alcuni e travisata da altri. Rimango dell’idea che dare la parola ai cittadini con un referendum confermativo senza quorum, è una scelta in linea con la nostra storia di impegno per la democrazia diretta”. E ha chiuso: “A me dispiace aver lasciato la bandiera della democrazia diretta, nelle mani di chi non la merita. Peccato”.
Su 61 azzurri componenti del gruppo di Fi al Senato, restano in 4 ad aver ritirato la firma. A guidare, invece, il drappello forzista dei sostenitori del referendum (oltre la metà del gruppo) c’è Andrea Cangini, uno dei promotori della raccolta firme e tra i più convinti sostenitori della necessità di chiamare in causa i cittadini. Tra gli azzurri hanno firmato (molti da tempo) vari big del partito: dall’ex ministro e attuale presidente della Giunta per le immunità parlamentari, Maurizio Gasparri all’ex presidente del Senato, Renato Schifani. A firmare la richiesta referendaria anche l’ex sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, che mette in guardia dai rischi legati alla “mancanza di una riforma organica” e rievoca Benito Mussolini: ”Una riduzione di questo genere dei parlamentari senza altre modifiche comporta uno squilibrio costituzionale rilevante: si passa dalla centralità del Parlamento alla centralità dell’esecutivo, con una ingerenza dei partiti sull’attività parlamentare di gran lunga più forte dell’attuale”. Ricordiamoci che Mussolini ridusse la Camera a 400 deputati per avere maggior potere dell’esecutivo, poi si rese conto che non bastava e di fatto la soppresse…”, ammonisce.
Tra i sottoscrittori c’è anche Stefania Craxi: “Non l’ho fatto per tattica o altro, ma l’ho fatto per convinzione profonda, perché riformicchie rischiano di creare della storture democratiche. Al contrario, sono sempre più convinta della necessità di una grande riforma istituzionale, che Bettino Craxi iniziò a chiedere nel 1979, ovvero il presidenzialismo, per dare al Paese, governabilità, rappresentanza e stabilità”. Per Schifani invece, il taglio dei parlamentari è “una misura demagogica, che non risolve i problemi di funzionamento dello Stato, da affrontare invece, con una riforma organica della seconda parte della Costituzione”.
I Radicali, dopo aver gridato alla “censura” per non aver raggiunto (e nemmeno sfiorato) il quorum di 500mila firme di sottoscrittori, hanno prima accusato “la censura dei media“. E poi invocato l’intervento del Carroccio. “Abbiamo dato il nostro contributo affinché anche la gamba istituzionale”, hanno dichiarato segretario e tesoriera del Partito Radicale Maurizio Turco Irene Testa, “quella della raccolta delle firme tra i senatori andasse a buon fine. Dobbiamo innanzitutto ringraziare la Lega per aver raccolto il nostro appello e i senatori firmatari per aver consentito che si tenga il referendum”.