giovedì 30 gennaio 2020

PALAZZO MADAMA – L’ORGANO DI GIUSTIZIA INTERNO HA GIÀ PRONTA LA DELIBERA PER IL 20 FEBBRAIO. VENGONO ANNULLATI I TAGLI IN VIGORE DAL 2018: IN FUMO 22 MILIONI ALL’ANNO. - Ilaria Proietti

 
Un insolito Massimo Teodori in scarpe da tennis minaccia di fare fuoco e fiamme perché la battaglia va combattuta fino allo stremo, come ai tempi belli dei digiuni radicali. Giuseppe Gargani, tutt’altro genere, da buon Dc si accomoda su una poltrona, elegantissimo ma pure lui in trepida attesa. Il più tranquillo di tutti però è l’avvocato Maurizio Paniz che ha già vinto perché sono quasi tutti suoi clienti gli ex parlamentari che hanno perso il sonno da quando un anno fa sono stati tagliati i loro onorevoli vitalizi. E che, tanto per dire quale sia posta in gioco, lunedì sera sfidando freddo e pioggia e pure qualche acciacco legato all’età, si sono affollati di fronte alla porta della commissione del Senato che dovrà decidere. Anzi, che ha già deciso senza nemmeno aspettare la camera di consiglio convocata per il 20 febbraio: riavranno i loro assegni fino all’ultimo centesimo.
La sentenza è infatti già scritta e da tempo: il Senato ripristinerà i vitalizi così come li abbiamo sempre conosciuti e cioè senza la sforbiciata imposta dal ricalcolo su base contributiva in vigore dal 1 gennaio 2019. E gli oltre 700 ex senatori colpiti negli affetti e soprattutto nel portafogli dalla mannaia contro cui hanno fatto ricorso possono dunque tornare a brindare. A decidere l’organo di “giustizia” interna di Palazzo Madama ai cui vertici la presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati ha voluto giusto un anno fa il suo collega di partito Giacomo Caliendo, già sottosegretario alla giustizia con Berlusconi come lei. A fare da braccio destro a Caliendo l’ex magistrato Cesare Martellino che invece è in rapporti di antica amicizia con il capo di gabinetto di Sua presidenza, Nitto Palma. Neanche a dirlo anche lui tra gli ex senatori che beneficeranno della decisione della commissione da cui a novembre si dimise la pentastellata Elvira Evangelista proprio per prendere le distanze dal curioso intreccio di amicizie e conoscenze che si è coagulato nell’organismo. “Un conflitto di interessi” lo aveva addirittura chiamato senza giri di parole Paola Taverna, la pasionaria del Movimento 5 Stelle che della lotta ai vitalizi ha fatto una battaglia identitaria. E che adesso, a meno di ripensamenti dell’ultima ora che sembrano improbabili, rischia di essere cancellata con un tratto di penna. Il conto da pagare per il Senato è salato: 22 milioni all’anno che riprenderanno a essere erogati ai senatori fuori corso a cui verranno restituiti pure gli arretrati.
Ma partiamo dalla fine. Perché la commissione Caliendo (di cui fanno parte oltre ai due membri laici Martellino e Alessandro Mattoni anche i senatori Simone Pillon della Lega e Alessandra Riccardi del M5S) ha già pronto il suo verdetto nonostante l’istruttoria si sia conclusa appena poche ore fa.
Eccolo qui: la delibera del 2018 con cui il Senato si è adeguato ai tagli imposti mesi prima dalla Camera sarà cancellata perché “si sostanzia in una totale rimozione di provvedimenti di liquidazione a suo tempo legittimamente adottati in riconoscimento e attuazione del diritto assicurato dalle norme allora vigenti e impone, anche dopo più decenni, una nuova liquidazione sulla base di una diversa disciplina che introduce criteri totalmente diversi, con assoluta negazione del legittimo affidamento”. E ancora. La delibera del 2018 è un intervento “non in linea con gli insegnamenti della Corte Costituzionale” perché, per la commissione Caliendo, il vitalizio sarebbe equiparabile alla pensione. Anzi un po’ meno, ma fa lo stesso. “Il vitalizio ha una connotazione previdenziale, quanto meno prevalente che lo rende soggetto alle regole e ai principi affermati dalla Corte Costituzionale… che ammette che tali trattamenti possano essere modificati solo a certe condizioni e ponendo limiti a mutamenti peggiorativi”.
In soldoni vuol dire che il Senato, se proprio lo vorrà, potrà al massimo pretendere dai suoi ex inquilini un contributo più “ragionevole” del taglio oggi in vigore e che sia soprattutto limitato nel tempo. La delibera del 2018 che ha invece imposto per sempre il ricalcolo su base contributiva facendo dimagrire sensibilmente gli assegni va dunque cestinata.
La commissione contenziosa, si legge sempre nel dispositivo che il Fatto è in grado di anticipare, “accoglie i ricorsi e annulla le disposizioni nella parte in cui prevedono una rideterminazione degli assegni vitalizi anziché la loro riduzione”. In alto i calici, non è più tempo almeno per gli ex senatori, di tirare la cinghia.

mercoledì 29 gennaio 2020

Referendum 2020 sul taglio dei parlamentari, la data scelta per il ‘salva-poltrone’ è il 29 marzo. Ora manca solo il decreto di Mattarella.

Referendum 2020 sul taglio dei parlamentari, la data scelta per il ‘salva-poltrone’ è il 29 marzo. Ora manca solo il decreto di Mattarella

Il Consiglio dei ministri ha aspettato appena quattro giorni per scegliere il giorno del voto, che tra l'altro è stato fissato nell'immediato inizio dell'arco di tempo utilizzabile per legge. Insomma: velocità record.

Il referendum sul taglio dei parlamentari si terrà il 29 marzo: è questa la data indicata dal Consiglio dei ministri per fissare la consultazione popolare sulla riforma costituzionale. La notizia è stata diffusa dalle agenzie di stampa, secondo cui la decisione del governo è stata già ufficializzata. La convocazione ‘definitiva’ delle urne spetta ora al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che deve emanare un decreto ad hoc dopo la deliberazione del Consiglio dei ministri. Per scegliere la data del voto, quest’ultimo aveva a disposizione sessanta giorni a partire dal 23 gennaio, data in cui è stata depositata l’ordinanza della Cassazione che ha dato il via libera all’iniziativa sottoscritta da un fronte vario di 71 senatori contrari alla riduzione di 345 ‘poltrone’ parlamentari, compreso un ‘grillino’. Palazzo Chigi, quindi, ha evaso la pratica in tempi record: appena quattro giorni. Non solo: per il giorno in cui tenere il referendum, il governo poteva scegliere una data compresa tra il 50esimo e il 70esimo giorno successivo allo svolgimento del Consiglio dei ministri, quindi tra gli ultimi giorni di marzo e la prima domenica di giugno. Anche in questo caso, il consiglio dei ministri ha deciso di scegliere la prima data utile, quindi alla fine di marzo.
Il primo rappresentante politico a parlare è stato il capo politico ‘reggente’ del Movimento 5 Stelle Vito Crimi: “Oggi cominciamo a parlare delle cose da fare subito. Il primo appuntamento che abbiamo è il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari: la prima cosa di cui dobbiamo parlare è questa”. Il voto referendario di marzo è la diretta conseguenza di quanto accaduto lo scorso 18 dicembre, quando tre senatori (Nannicini del Pd, Cangini e Pagano di Forza Italia) hanno presentato le 64 firme necessarie (poi divenute 71) per chiedere il referendum confermativo sul taglio dei parlamentari, riforma targata 5 Stelle e già approvata a ottobre 2019 dalla Camera all’unanimità. Sessanta giorni dopo, però, la politica ha provato a ribaltare il tavolo, per cercare di evitare la sforbiciata a Montecitorio e Palazzo Madama. Considerando che non si tratta di un voto abrogativo, il referendum del 29 marzo non avrà quorum.


https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/01/27/taglio-dei-parlamentari-la-data-scelta-per-il-referendum-salva-poltrone-e-il-29-marzo-ora-manca-solo-il-decreto-di-mattarella/5687019/?fbclid=IwAR09-AKShh6ClIf_b0K8oYN01U40gSQZvkw6T6Op1VYyNV5Iq_nMhA2qVqQ

Latina, arrestata l’ex consigliera regionale Cetrone (Pdl): “Usava uomini del clan Di Silvio come esattori per crediti di una sua società.”



Cetrone, ora coordinatrice regionale di Cambiamo! con Giovanni Toti, e gli altri 4 arrestati sono accusati a vario titolo di estorsione, atti di illecita concorrenza e violenza privata, aggravati dal metodo mafioso. L'inchiesta nata da le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia: nel 2016 fece minacciare un imprenditore che le doveva 15mila euro.


“Ha usato gli uomini del clan Di Silvio come esattori per un suo credito”. Con questa accusa è stata arrestata, su disposizione del giudice per le indagini preliminari di Roma, Gina Cetrone, ex consigliera regionale del Pdl tra il 2010 e il 2013 e attualmente coordinatrice regionale di Cambiamo!, il movimento di Giovanni Toti. Con lei sono finiti in cella tre esponenti dei Di Silvio – ArmandoGianluca e Samuele – e il suo socio e marito Umberto Pagliaroli. Le accuse, a vario titolo, sono di estorsione, atti di illecita concorrenza e violenza privata, aggravati dal metodo mafioso.
Le indagini costituiscono l’esito di un ulteriore approfondimento investigativo che la squadra mobile sta conducendo, sotto la direzione ed il coordinamento della Direzione distrettuale antimafia di Roma, circa le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Renato Pugliese e Agostino Riccardo. Stando alla ricostruzione degli investigatori, nel 2016, l’ex consigliera vantava un credito nei confronti di un imprenditore abruzzese per una fornitura da parte della società Vetritalia Srl.
Nello specifico, Cetrone e Pagliaroli – sempre stando all’inchiesta – avevano convocato l’imprenditore presso la loro abitazione per richiedergli il pagamento immediato della somma dovuta, impedendogli di andare via a bordo della sua macchina. E lo avevano costretto ad attendere Agostino Riccardo, Samuele Di Silvio e Gianluca Di Silvio, i quali, una volta giunti, lo minacciavano, prospettando implicitamente conseguenze e ritorsioni violente.
Il giorno dopo l’imprenditore si recò in banca – sotto la stretta sorveglianza di dei tre Di Silvio e di Umberto Pagliaroli, tutti in attesa fuori dall’istituto bancario – per effettuare un bonifico di 15mila euro a favore della società Vetritalia Srl, riconducibile a Cetrone e Pagliaroli, nonché a consegnare a loro “per il disturbo” la somma di 600 euro. Durante l’inchiesta, gli investigatori hanno anche ricostruito come, sempre nel 2016quando Cetrone si candidò come sindaco di Terracina, gli uomini legati al clan Di Silvio “costringevano addetti al servizio di affissione dei manifesti elettorali di altri candidati alle elezioni” ad “omettere la copertura dei manifesti” di Cetrone, “costringendoli ad affiggere i propri manifesti solo in spazi e luoghi determinati, in modo che i manifesti di quest’ultima fossero più visibili degli altri”.
Per il gip ciò avvenne in cambio di un contributo di 25mila euro. Il giudice fa riferimento all’episodio di violenza messo in atto ai danni di due addetti al servizio di affissione dei manifesti degli altri candidati costretti da uomini del clan a mettere in evidenza quelli della Cetrone rispetto agli altri. L’accordo stretto con i Di Silvio prevedeva, infatti, l’affissione “anche abusiva” dei manifesti elettorali della Cetrone a “scapito degli altri candidati”. “Non coprite Gina Cetrone altrimenti succede un casino… fatevi il vostro lavoro e noi ci facciamo il nostro”, la minaccia che Riccardo fece ai due addetti. In particolare Riccardo, diventato collaboratore di giustizia, sentito dagli inquirenti nel luglio del 2018 ha raccontato che “Cetrone si era lamentata perché la sua visualizzazione non era buona, non si vedeva abbastanza bene nei manifesti di Terracina”.
Come aveva raccontato Il Fatto Quotidiano lo scorso 10 gennaio, sempre Pugliese ha raccontato che nel 2013 Cetrone non venne rieletta perché “all’ultimo momento ci fu uno scambio di voti – ha raccontato il pentito – Praticamente i 500 voti che sarebbero andati a Gina Cetrone dalla curva del Latina Calcio… (…) essendo presidente del Latina Calcio, Pasquale Maietta ci mandò a di’ che ‘sti 500 voti li dovevamo gira’ a Nicola Calandrini. Infatti i 500 voti della curva li girammo a Nicola Calandrini”.

La morte apparente del Movimento. - Tommaso Merlo



Questa volta giornalai e politicanti sono certi, il Movimento è morto. E godono come non mai. Vanno capiti. Con l’ascesa del Movimento hanno temuto di scomparire ed invece sono ancora tutti lì ad infestare il dibattito pubblico da giornali e televisioni godendosi stipendi e status. Sono ancora tutti lì convinti di avere ragione e perfino senso. Godono perché pensano di aver vinto la battaglia contro il cambiamento. Poveri illusi. Il cambiamento vero lo puoi ostacolare e ritardare, ma mai fermare. Per il vecchio regime è solo questione di tempo. Checché blaterino lorsignori, il Movimento ha rappresentato istanze di cambiamento sacrosante e profonde. Il Movimento è stato solo la scatola, ma quello che conta sono i contenuti che erano e sono politici ma anche culturali. Milioni di cittadini hanno scoperto di condividere non solo l’esasperazione verso un sistema marcio che li ha umiliati ed impoveriti, ma anche consapevolezze più evolute rispetto alle caste parassitarie e mafiose che li hanno malamente governati. Contenuti e consapevolezze che non scompaiono certo perché qualche giornalaio o politicante farnetica contro il Movimento in qualche talkshow. Possono rovinare la scatola – e in parte ci sono riusciti controllando tutti i media – ma quei contenuti prima o poi riemergeranno con ancora più veemenza. E se non troveranno più rappresentanza pacifica e democratica, potranno esplodere violentemente come in Francia. Il modello neoliberale è fallito, la democrazia tradizionale pure. C’è un sistema da ridisegnare, altro che melina partitocratica da quattro soldi. Arroccandosi nella sua arroganza e nel suo egoismo, il vecchio regime ha solo rimandato il suo tramonto. Errore fatale. Non proponendo nulla di nuovo e non ammettendo i propri errori, le istanze per cui è nato il Movimento sono ancora tutte vive e vegete.  Ma c’è di più. Stando ai vituperati fatti, l’esperienza governativa del Movimento 5 Stelle è stata un successo clamoroso. Rispetto ai vecchi partiti e coalizioni – senza rubare e senza tramare alle spalle dei cittadini – il Movimento ha sfornato una quantità di leggi e provvedimenti da far vergognare i presunti esperti e competenti del vecchio regime. Giornalai e politicanti fanno finta di nulla, ma grazie al Movimento l’Italia è già cambiata e di molto. Certo, le macerie e le sfide sono tali che affinché il cambiamento si percepisca ci vuole tempo e ulteriore lavoro. Ma l’esperienza del Movimento rimane assolutamente storica. Cittadini che si prendono il potere. Senza soldi, senza santi. E che fanno. Una esperienza che resterà nei libri di storia, altro che Craxi e i quaranta ladroni. Il tutto nonostante l’opposizione feroce di un regime che controlla ancora avamposti strategici come l’informazione, ma anche nonostante pecche intestine. Lacune, slealtà, divisioni, lentezze. Vedremo se il virale egoismo italico riuscirà ad inghiottirsi anche questa primavera collettiva. Vedremo se il Movimento riuscirà ad imparare dai propri errori e con gli stati generali trovare un nuovo assetto e rilanciarsi attorno a nuovi portabandiera e nuovi programmi. Vedremo. Giornalai e politicanti sono certi che il Movimento sia già morto e godono come non mai. Poveri illusi. Se anche la scatola del Movimento non dovesse più funzionare, le sue istanze politiche prima o poi risorgeranno più veementi che mai. Il cambiamento vero lo puoi ostacolare e ritardare, ma mai fermare e per il vecchio regime è solo questione di tempo.

https://infosannio.wordpress.com/2020/01/28/la-morte-apparente-del-movimento/?fbclid=IwAR2MWLj7CtD6lRv_F76OJEMcwdsr8PDBogq7p7UiOiveFQC6tTDStz7PIWs

Il salame disseta - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 29 Gennaio

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Si pensava che il Premio Cazzata 2020 l’avesse già vinto in un mese Salvini con l’immortale annuncio “Domenica non vinciamo, ma stravinciamo in Emilia Romagna e lunedì citofoniamo a Conte l’avviso di sfratto”: sia perché domenica ha perso, sia perché i governi nascono e muoiono con le elezioni politiche nazionali. 
Ma ormai è così malmesso che ha perso pure quel premio. I candidati più accreditati ad aggiudicarselo sono i pidini e i giornaloni al seguito che da due giorni martellano il seguente sillogismo. Premessa maggiore: “Bonaccini batte la Borgonzoni”. Premessa minore: “I 5Stelle straperdono”. Conclusione: “Ora nel governo il Pd ordina e il M5S esegue”. Sarebbe comprensibile in bocca a Salvini, convinto non si sa da chi che il governo dipenda dal voto in una regione. Ma è bizzarro che lo dica chi ripeteva il mantra “Se perdiamo in Emilia Romagna, al governo non cambia niente”. Se l’“asse politico del governo”, che Zingaretti e Orlando vorrebbero spostare dal M5S al Pd, dipendesse dai sondaggi (che peraltro danno il M5S terzo a poca distanza dal Pd) o dalle Regionali, il Pd dovrebbe abbattere il Conte 2 e chiedere subito le elezioni con gli stessi argomenti di Salvini, visto che al momento il centrodestra è davanti ai giallorosa. Anzi, cinque mesi fa non avrebbe mai dovuto fare il governo con i 5Stelle, visto che già in agosto la somma di Pd, LeU e M5S era inferiore a quella di Lega, FdI e FI. Ma all’epoca per il Pd valevano le regole della democrazia parlamentare. E già i 5Stelle furono molto generosi, regalando a Pd e LeU metà dei ministri avendo il doppio dei loro parlamentari. È cambiato qualcosa? Zero. Dunque non si capisce di quale riequilibrio, rimpasto, cambio di asse si vada cianciando.
Ma l’abolizione della logica ha questo di bello: che poi vale tutto. Infatti anche Renzi ha il suo sillogismo. Premessa maggiore: “I 5Stelle sono finiti e non hanno futuro”. Premessa minore: “Non ha vinto il Pd, ma Bonaccini che è riformista come me”. Conclusione: “Bisogna stilare un’agenda di governo riformista contro il populismo”. E parla di elezioni dove Italia Viva era così viva da non presentarsi neppure, dunque non poteva perdere perché non giocava proprio. Uno spasso. Ma riecco Orlando, con un’altra conclusione delle sue: “Ora vogliamo una norma diversa da quella di Bonafede sulla prescrizione”. Cioè: siccome Bonaccini ha vinto anche coi voti del M5S e il M5S ha perso perché i suoi elettori han votato quasi tutti Bonaccini, il Pd cancella la legge promessa quattro anni fa dal Pd solo perché l’hanno fatta i 5Stelle. E riesuma la vergogna della prescrizione che falcidia 120mila processi all’anno.
Come se la bontà di una legge dipendesse da chi la vota o dalle elezioni in Emilia Romagna. Siamo ai livelli del falso sillogismo di Montaigne: “Il salame fa bere. Bere disseta. Dunque il salame disseta”. Ma un falso sillogismo tira l’altro. La Stampa: “La Calabria volta le spalle ai grillini: meno voti che redditi di cittadinanza”. E il Messaggero: “Calabria, un beneficiato su 3 dal Reddito ha preferito non dare il voto al Movimento”. Titoli che denotano un’idea raccapricciante della democrazia e degli elettori: quella feudale, malata, clientelare, corrotta, mafiosa che si facciano le leggi per comprare voti e i beneficiari debbano ricambiarne gli autori votandoli a scatola chiusa. Del resto, quando il Rdc partì, si disse che i 5Stelle non lo facevano perché lo ritenevano giusto e doveroso, ma per fare voto di scambio al Sud. Poi i 5Stelle persero le Europee anche al Sud, allora si disse che il Rdc era stato bocciato, ergo era un errore, anzi “un flop” (come se 500 euro al mese anziché 0 fossero niente). E ora ci si scandalizza se chi lo riceve vota per chi gli pare anziché fare come nella Napoli di Lauro: una scarpa regalata prima del voto e l’altra dopo.
Ma ormai la logica non abita più qui, neppure fra i 5Stelle. Che, con tutti i guai che hanno, continuano a scannarsi su un falso problema: se debbano allearsi di qui all’eternità col Pd, o con la Lega, o con nessuno. La risposta l’han data domenica i loro elettori in Emilia Romagna: dovendo scegliere fra un energumeno che li ha umiliati e traditi per un anno e mezzo e un governatore normale e rispettoso, hanno votato il secondo contro il primo. Ora nessuno chiede ai 5Stelle di rinunciare alla propria identità-diversità, né di sposare il centrosinistra finché morte non li separi (se al posto di Zinga arrivasse un Calenda o un Gori, ci sarebbe da fuggire a gambe levate). Ma oggi quello è il campo meno indigeribile e incompatibile con loro. Con buona pace dei (pochi) nostalgici della Lega, cui non è bastata la batosta alle Europee per l’alleanza cannibalizzante con Salvini. E con buona pace dei soloni della Salvinistra, che han sempre equiparato 5Stelle e Lega come “le due destre” e messo in guardia il Pd dal contaminarsi col M5S: ancora quattro mesi fa sfilavano luttuosi in tv, profetizzando sette secoli di sventure per la sinistra se si fosse mischiata con quei pericolosi incensurati e avesse accettato un imbroglione “senz’anima” come Conte. Quello – oracolavano – era il miglior regalo a Salvini. Infatti… Ora qualcuno si stropiccerà gli occhi per questo titolo a pag. 6 di Repubblica: “Conte adesso parla da leader: ‘Un fronte contro le destre’”. E per questo a pag. 10: “Il salto a sinistra degli ex grillini: per Bonaccini 4 su 10”. Manca solo la conclusione: “Quindi chi scriveva che i 5Stelle sono di destra e il governo Conte fa il gioco di Salvini è un pirla”.
Ps. A proposito di sillogismi, ci sarebbero pure i “giornalisti” e i “politici” che solidarizzano da tre giorni con Gaia Tortora perché ho scritto cose vere senza nominarla né pensarla, lei mi ha mandato affanculo su Twitter, dunque lei è la vittima e io l’aggressore. Ma quella non è né logica né illogica: è cabaret.


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martedì 28 gennaio 2020

Addio alle pensioni senza tasse in Portogallo. Lisbona mette un'imposta del 10% agli stranieri. - Ettore Livini

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Il governo di Antonio Costa cambia il regime fiscale per gli assegni previdenziali dei residenti non abituali. La norma inserita nella finanziaria del 2020 non è retroattiva e sarà applicata solo alle nuove richieste ed è stata varata per il pressing della sinistra radicale e della Ue.

MILANO - Il Portogallo riduce i benefici fiscali per i pensionati stranieri che scelgono di vivere nel paese. Un emendamento della finanziaria 2020 proposta dal governo socialista di Antonio Costa prevede una tassa del 10% (con un pagamento minimo di 7.500 euro) su tutte le entrate previdenziali degli stranieri "residenti non abituali" in loco, categoria che fino ad oggi beneficiava di una totale esenzione fiscale per 10 anni. La misura - ha precisato il portavoce dell'esecutivo - si applicherà solo ai nuovi arrivati e non riguarda dunque retroattivamente chi sta già usufruendo di queste agevolazioni. Durissima la reazione degli imprenditori del settore edilizio che hanno beneficiato negli ultimi anni del boom della domanda estera: "Scoraggiare gli investimenti stranieri è un crimine contro la nazione", ha commentato Luis Lima, numero uno dell'associazione degli intermediari immobiliari).

La trasformazione del Portogallo in una sorta di paradiso fiscale per pensionati risale al 2009 quando il Paese, in piena crisi finanziaria e alla ricerca di nuove entrate, varò il programma di incentivi che consentiva agli "immigrati economici" di percepire per intero i loro assegni previdenziali senza pagare un euro di tasse. Il programma ha avuto enorme successo e almeno 27mila stranieri hanno fatto i bagagli riorganizzandosi una seconda vita a Lisbona, Porto o in Algarve. Sfruttando non solo l'"aiutino" erariale ma pure il costo della vita decisamente competitivo del paese. Gli italiani emigrati in Portogallo a tasse zero erano nel 2019 ben 2.897, mille in più dell'anno precedente, con una pensione lorda media (quindi netta nel loro caso) di 2.719,99 euro al mese.
 
Ora i tempi sono un po' cambiati. Affitti e ristoranti, specie nelle zone più turistiche, sono cresciuti. Molte nazioni europee hanno protestato con Bruxelles per la concorrenza fiscale lusitana. Il Bloco de Esquerda ha più volte contestato gli aiuti ai residenti non abituali accusandolo di essere discriminatorio contro i pensionati locali che pagano tutte le loro tasse. E Costa, che guida un governo di minoranza appoggiato proprio dalla sinistra radicale, ha deciso di provare a prendere più piccioni con una fava: imponendo una tassa "light" in grado di non spaventare troppo gli aspiranti nuovi cittadini stranieri, di garantire l'appoggio in Parlamento dei partner di governo al budget e di allentare le tensioni con la Ue.   


https://www.repubblica.it/economia/2020/01/28/news/addio_alle_pensioni_senza_tasse_in_portogallo_lisbona_mette_un_imposta_del_10_agli_stranieri-246961176/

Andrea Scanzi: “Il Tajani rianimato da una regione ancora masochista.”



Domenica sera, durante la maratona di Enrico Mentana su La7, poco dopo le 23 è accaduto qualcosa di prodigioso: è comparso Antonio Tajani. Da sempre, Tajani brilla dello stesso fascino luminoso che caratterizza le bietole lesse. Anche quando il berlusconismo era arrembante e non come adesso tramontante, lui pareva un ballerino di quarta fila (per giunta infortunato). Del resto Tajani è uno che, nel ’68, mentre i coetanei scendevano in piazza, faceva il leader dei giovani monarchici (non è una battuta). E già questo fotografa appieno il personaggio. Tajani – per quanto la natura glielo consenta, s’intende – era tutto garrulo: tal Jole Santelli aveva innegabilmente e come previsto spezzato le reni al bolscevico Pippo Callipo, che a dispetto del nome da Walt Disney sott’acido era un ottimo candidato. Non pervenuti i 5 Stelle, che da sempre alle Regionali sono competitivi come Mazzarri contro l’Atalanta e che, a questo giro, si sono persino superati in masochismo. Tajani esultava beffardo in tivù, sempre con quella bella presenza scenica da mausoleo egizio caduto anzitempo in disgrazia. Mentana ha provato a ricordargli che in Emilia-Romagna, dove la presenza delle spoglie mortali di Sgarbi ha puntualmente coinciso con l’ennesima Waterloo elettorale, Forza Italia ha faticato a superare il 2%. Tajani ha però fatto finta di nulla. Poi si è dileguato, intendo più del solito, per consegnarsi agli ameni baccanali forzisti e ai balli sinuosi con Gasparri & Santelli.
Letteralmente: l’allegra comitiva ha proprio fatto il trenino moscio sulle note di Gloria di Tozzi, e in tutta onestà neanche Pasolini in Salò aveva osato tanto per raccontare la tragicommedia malsana insita nei poteri che crollano. Vedere Tajani e derivati che esultano a fine gennaio 2020, mentre su scala nazionale Forza Italia si fa superare da chiunque (forse persino da Italia Viva: una gogna che non si augura a nessuno), è stata un’immagine oltremodo surreale. Un po’ come vivere nel presente e, di colpo, scivolare in un varco spaziotemporale assai sadico. Qual è il nichilismo antico a cui la maggioranza dei calabresi non vuol proprio rinunciare? Certo, il centrosinistra di Oliverio ha regalato praterie al centrodestra. E i 5 Stelle son bravi come nessuno a evirarsi da soli (per poi andarne pure fieri, spacciando il gesto insano per coerenza). È però allucinante come, dopo tutti questi decenni e sfaceli forzitalioti, una regione così potenzialmente straordinaria si sia voluta consegnare a Berlusconi. Quello stesso Berlusconi che, in campagna elettorale, scherzava (?) sul fatto che conosce Jole Santelli da 26 anni ma lei “non me l’ha mai data”. Quello stesso Berlusconi accolto da sindaci locali addirittura col baciamano (il primo cittadino di Soriano, Vincenzo Bartone). Pure l’affluenza al voto, ancor più se rapportata a quella in Emilia-Romagna, è stata stitica. Quasi che votare, per molti calabresi, fosse una iattura o come minimo una perdita di tempo. È noto come un’eroica ma cospicua minoranza combatta come nessuno e soffra in Calabria come nessuno, cercando di non lasciare solo Gratteri e quelli belli come lui, ma non riescono a far breccia. Tocca ribadirlo con durezza e temo disillusione: la Calabria è riuscita a regalare un mezzo plebiscito a un partito pressoché morto, che in natura ormai non esiste quasi più e che in Emilia-Romagna ha superato a fatica il 2%. Perché la maggioranza di voi vuole così poco bene a una regione così bella, amici calabresi? Quand’è che le cose cambieranno, ma cambieranno davvero e in meglio? Buona fortuna.