lunedì 6 agosto 2012

Caro Emanuele, questa non me la bevo. - Giuseppe Casarrubea


Lo storico Giuseppe Casarrubea
Nella recente controversia tra Ingroia e Macaluso sulla trattativa Stato-mafia, ci sono diversi punti non chiariti. Forse vale la pena tentare di renderli meno confusi. Con una pregiudiziale sulla quale non si può discutere: i magistrati facciano il loro dovere, come stanno facendo.  E quelli che si dilettano con la penna in disquisizioni varie, utilizzino come gli pare il loro tempo. Ma senza prendere persone e cose sottogamba o, peggio ancora, a pedate o a scappellotti come facevano i maestrini, quando usavano la bacchetta. E’ troppo comodo farlo. E anche disdicevole per molti pennivendoli che, oggi più che mai, si dànno a delegittimare il prezioso lavoro dei magistrati, fondamentale alla nostra democrazia. Come aveva previsto e scritto Giovanni Falcone.
A Emanuele Macaluso, che conosco dai miei tempi di militanza nel Pci negli anni Settanta, devo dire che i suoi recenti articoli su Ingroia non mi hanno aiutato nella direzione sperata e per questo vengo a interrogarmi e a interrogarlo.
Perchè tentare di sminuire i caratteri e la consistenza della trattativa tra Stato e mafia è irragionevole. Fa a pugni con la storia che è sempre maestra di vita. Così un vecchio militante del Pci come lui, non può alterare il senso delle cose. Dovrebbe dare ad esse il giusto peso, la direzione che hanno avuto, visto, peraltro, che il nostro ex senatore è stato un dirigente nazionale del Pci e direttore de l’Unità.
Per questo non può venirci a raccontare che “il grande compromesso tra mafia e Dc” risale al 1948. A quella data i giochi erano stati già fatti. Bastò un anno, come egli stesso fa notare. Dalle regionali siciliane del 1947, quando il Blocco del popolo ebbe la maggioranza relativa dei voti, alle politiche del 1948, quando la Dc sfiorò la maggioranza assoluta. In Italia. Ma anche in Sicilia, dove si sarebbe dovuto formare, già dall’anno precedente, un governo di centro-sinistra con il contributo del partito di Sturzo, e invece ci furono prima la strage di Portella della Ginestra e, dopo, il governo di centro-destra. La sequenza fu questa: strage, rinvio all’opposizione della sinistra, che aveva vinto le elezioni regionali,  sbarco dei comunisti dal governo di De Gasperi.
Ma ci fu di peggio al momento del trionfo della democrazia cristiana: la completa decapitazione del movimento sindacale siciliano. Dalla strage di Alia (settembre 1946) alle stragi di Messina (marzo 1947) e di Partinico (22 giugno 1947).
Macaluso sa bene che non furono quattro, dunque, i sindacalisti ammazzati, come incredibilmente scrive su l’Unità del 1° agosto scorso. La mafia, con l’accordo della Dc, provvide a una loro decapitazione sistematica. Il che è cosa ben diversa da quella che egli narra. Tanto più se si pensa che per diversi di loro, come Accursio Miraglia di Sciacca e Calogero Cangelosi  di Camporeale, non si arrivò neppure a una fase processuale. Si faceva così allora, nel silenzio generale: socialisti e comunisti venivano ammazzati e i tribunali non arrivavano neanche a istruire un processo. Tutti contenti. Mi sono sempre interrogato su questo punto e sempre mi sono dato una sola risposta. I morti, i caduti venivano richiamati nei comizi. Ma nulla di più. Non servivano per la verità e la giustizia. La prima veniva deviata, la seconda resa impossibile.
Portella è una cartina di tornasole. Macaluso ci dice poco in merito. Dovrebbe ricordare gli articoli di prima pagina de l’Unità del 1947 usciti nel primo semestre di questo fatidico anno di piombo. Non c’era compagno che non sapesse che dietro figure losche come il bandito di Montelepre si annidavano le fecce più nauseabonde della Rsi e del neofascismo dell’epoca. E Macaluso sa bene che il suo dovere di militante storico della sinistra gli impone di dubitare di molte versioni propalate dal sistema di potere come verità indiscusse, specie quando fondate su falsi rapporti, su depistaggi, su conflitti mai avvenuti, sulla distorsione intenzionale della verità. Cosa che fecero ampiamente uomini dell’Arma che nulla avevano da invidiare a Mori o Subranni, come il colonnello Ugo Luca e il capitano Antonio Perenze, un agente segreto attivo già all’epoca del nazifascismo.
E’ strano perciò che egli releghi ancora oggi la vicenda di Portella o gli assalti alle Camere del lavoro all’esclusiva responsabilità di Giuliano. Furono opera di un accordo in cui mafia, Servizi e Stato agirono all’unisono. Come cercò di spiegare Gaspare Pisciotta quando disse al giudice di Viterbo Tiberio Gracco D’Agostino: “Siamo una cosa sola come il padre, il figlio e lo spirito santo”.
Non capisco, quindi, come egli possa scrivere: “Non ci furono trattative: le grandi famiglie mafiose benestanti, notabili rispettati nei grandi paesi della Sicilia occidentale e di Palermo, erano grandi elettori e frequentavano familiarmente i capi della Dc siciliana”.
Questi amici che si incontrano per caso nei salotti dei palazzi nobiliari sono gli stessi che stipulano accordi a Roma, con criminali e banditi, sono l’aristocrazia nera, criminali che si dànno appuntamento nei pressi delle abitazioni del principe Borghese e di Nino Buttazzoni, o del segretario monarchico Covelli, al bar del Traforo (ancora esistente fino a qualche anno fa), a piazza San Silvestro o in via dei Due Macelli e che poi decidono al Viminale o nelle sedi romane della Dc, o in qualche convento, come meglio fare a evitare che l’Italia sia consegnata ai comunisti, alla sinistra.
Come è pensabile che una vecchia volpe come Macaluso non sappia queste cose? E come può egli ritenere che stragi di quelle proporzioni non avessero una copertura internazionale per un Paese strategico della guerra fredda? Eppure il Nostro scrive: “Senza trattative la mafia, che aveva sostenuto i liberali, i separatisti, i monarchici transitò nel partito che ormai deteneva il potere. Con la benedizione del cardinale Ruffini. La rivista di Giuseppe Dossetti ‘Cronache sociali’ documentò il transito guidato dalla mafia di elettori dai collegi di Vittorio Emanuele Orlando, nel palermitano, alla Dc”.
Per questo il vecchio senatore si riferisce al blocco anticomunista del 1948 che vedeva la mafia “parte del sistema, nel ‘quieto vivere’”. E aggiunge che i democristiani di spicco pensavano “di poter ‘governare’ una convivenza con la mafia nella ‘legalità’ consentita dai tempi”. Ma quale metro avevano i comunisti come lui per valutare il superamento del grado di ‘legalità’ consentito dai tempi? Certo è che Macaluso non era Pio La Torre, la cui tolleranza della ‘convivenza con la mafia’ era zero. Pio La Torre che contro i latifondisti e gli agrari aveva combattutto e che per queste lotte aveva fatto la galera, per poi morire ammazzato assieme a Rosario Di Salvo negli anni della guerra contro i missili atomici a Comiso. E il varo della prima legge antimafia, quando l’associazione mafiosa diventa un crimine per lo Stato (1982).
Resta un’altra piccola questione che Macaluso dovrebbe spiegare. Questo ‘quieto vivere’ interessava solo la Dc o faceva parte di una strategia politica generale che investiva anche certi ambienti del Pci? Voglio dire i vertici comunisti. Perché, analogamente a quanto avveniva con i carabinieri, per lo più giovani ragazzi del Nord, mandati al macello in una vera e propria guerra che essi combattevano per un ideale e per un pezzo di pane, allo stesso modo forse si realizzava, a livello territoriale, una carneficina di teste pensanti e oneste del sindacalismo di sinistra, mentre ai piani alti si sognava il processo democratico. La mia non è un’affermazione, né tanto meno una provocazione, ma una domanda che è mio dovere pormi, per saperne un po’ di più di questa nostra storia nazionale in parte retorica e in gran parte a colabrodo. E senza verità.
Come sono certamente i casi di: Moro, Chinnici, Terranova, Mattarella, Boris Giuliano, Costa, Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino.
Nel 1993 succede qualcosa di analogo al 1947. La sinistra vince in quasi tutti i grandi Comuni italiani. A Palermo Leoluca Orlando ottiene il 70% dei consensi. Si intravede la vittoria politica delle sinistre sul piano nazionale. Invece arriva  Berlusconi. E’ di nuovo la paura a trionfare, dopo il segnale dell’uccisione di Lima, il pupillo di Andreotti in Sicilia. E così tornano gli anni di piombo che questa volta sono al tritolo. Macaluso stranamente nega la trattativa e dice che manca questa volta la “contropartita”. Ma come si fa a credergli? Non c’è solo il 41 bis. C’è qualcosa di più grave, di pesante. Il potere, la legittimazione al potere che Cosa Nostra aveva sempre avuto. E’ possibile che Macaluso non lo sappia?
Giuseppe Casarrubea

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