mercoledì 23 febbraio 2011

Berlusconi: il premier non ha alcun potere.




Roma, 23 feb. (Adnkronos) - Nell'assetto costituzionale previsto dall'attuale Carta "al governo rimane solo il nome e l'immagine del potere". Lo ha affermato il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi intervenendo agli Stati generali di Roma Capitale.

Una situazione, ha spiegato, che rende impossibili le riforme, perché i provvedimenti del governo, decreti e disegni di legge, debbono passare alla firma del capo dello Stato e poi vengono profondamente modificati dal Parlamento e così un testo varato dal Consiglio dei ministri da "focoso destriero purosangue" si trasforma in "ippopotamo".

''Quando leggo articoli di ottimi editorialisti che rimproverano noi che siamo al governo di non aver fatto le riforme - ha affermato il premier - mi viene una gran voglia di raccontare perché non si riescono, nella situazione in cui siamo, a fare le riforme, perché il nostro governo, come tutti i governi precedenti è dentro un assetto istituzionale che è stato determinato dai padri costituenti che, giustamente, per non rendere possibile, dopo il ventennio, un regime dittatoriale, spartirono il potere tra il presidente della Repubblica, il Parlamento, e la Corte Costituzionale. Al governo rimane soltanto il nome e la pura immagine del potere. Vi assicuro che chi occupa la presidenza del Consiglio di potere non ne ha alcuno''. ''Mi trovavo ad essere un imprenditore che disponeva di mezzi di comunicazione - ha detto ancora Berlusconi - ero guardato con attenzione e con rispetto da molti protagonisti della politica, perché si attendevano un trattamento oggettivo su quello che facevano, potevo almeno assumere e licenziare, anche se non ho mai licenziato nessuno''.

Il presidente del Consiglio a questo punto ha descritto l'iter dei vari provvedimenti del governo, da quando vengono approvati dal Consiglio dei ministri a quando diventano legge, partendo dalla firma del presidente della Repubblica e dal suo ''consenso totale'' che deve accompagnare i decreti legge, sicché ''non è nella disponibilità del governo di fare i decreti, ci deve essere l'accordo e la firma del capo dello Stato''. Il premier ha poi ricordato le varie letture delle Camere e le eventuali modifiche e così ''quello che il presidente del Consiglio e il suo governo avevano concepito come un focoso destriero purosangue quando esce dal Parlamento se va bene è un ippopotamo e ricorda il nome di ippocavallo. Io vorrei che tutti foste consapevoli che se noi non facciamo le riforme istituzionali non c'è nessuna speranza'', ha concluso Berlusconi, confessando il suo ''sogno'' di potersi confrontare con un'''opposizione socialdemocratica''.





PERCHE' L'ITALIA NON SI RIVOLTA ? - di Massimo Fini.




Perché non ci ribelliamo? In Italia la disoccupazione giovanile è al 29%, la più alta d'Europa. Tutti noi genitori abbiamo il problema dei figli, quasi sempre laureati, che non trovano lavoro o che devono accettare ingaggi precari molto al di sotto del loro titolo di studio, senza nessuna prospettiva per il futuro (questo è stato uno degli elementi scatenanti della rivolta tunisina innescata da un ingegnere costretto a fare il venditore ambulante e, impeditagli anche la bancarella, si è dato fuoco).

Tutti gli scandali più recenti, dal "caso Mastella" in poi, ci dicono che la classe dirigente italiana, intesa come mixage di politici, amministratori pubblici, imprenditori, finanzieri, speculatori, esponenti dello star system, piazzano i propri figli, nipoti, generi, amici degli amici, in posti di lavoro ben remunerati e sicuri.

Del resto nemmeno un chirurgo, nel nostro Paese, può fare il chirurgo se non ha gli agganci giusti con questa o quella banda di potere. Perché il sistema clientelare di Mastella non è il "sistema Mastella" è il sistema dell'intera classe dirigente italiana. Se non altro Mastella ha lo spudorato coraggio e la spudorata onestà di non farne mistero.

I ceti popolari sono stati espulsi da Milano e mandati nell'hinterland, in "non luoghi" direbbe Biondillo, che hanno il nome di paesi ma non sono paesi, perché non hanno una piazza, una chiesa, un cinema, un luogo di aggregazione.

Le deportazione dei ceti popolari ha distrutto Milano, città interclassista dove nei quartieri del centro, Brera, Garibaldi, Pirelli abitava accanto al suo operaio, il primo, naturalmente, in un palazzo di Caccia Dominioni, il secondo in una casa di ringhiera. Questa interfecondazione dava alla città una straordinaria vivacità che è andata inesorabilmente perduta. Oggi una giovane coppia non può trovar casa a Milano, né in affitto né tantomeno in proprietà nemmeno con mutui che impegnino tre o quattro generazioni. Quando ci si lamenta che certe zone periferiche, come viale Padova, sono state occupate più o meno illegalmente dagli immigrati, si sbaglia perché se non altro hanno restituito un po' di vita, e in particolare una vita notturna a una città che non ne ha più se non in quei quattro o cinque bordelli di lusso, a tutti noti, che ogni tanto vengono chiusi per eccesso di escort e di droga. In questi posti senti uomini fra i quaranta e i sessanta fare discorsi di questo tipo: «Domani parto per New York, poi faccio un salto a Boston e ritorno in Italia via Tailandia dove mi fermerò una decina di giorni». Se per caso ti capita di parlargli e gli chiedi: «Scusi, lei che lavoro fa?», le risposte son vaghe. In genere si dicono finanzieri, intermediari, immobiliaristi.

Quando agli inizi degli anni '70 era già cominciata la deportazione dei milanesi verso l'hinterland, lo Iacp, Istituto Autonomo Case Popolari, non dava i suoi appartamenti alla povera gente, ma a politici, amministratori locali, giornalisti, in genere socialisti perché, prima del ribaltone della Lega, Milano, è stata governata da sindaci del Psi (Aniasi, Tognoli, Pilliteri, gli ultimi).

È ovvio che il centro di Milano, depauperato dei suoi ceti popolari, sia abitato oggi solo dai ricchi. Noi milanesi le case di piazza del Carmine, di via Moscova, di via della Spiga, di via Statuto possiamo solo sfiorarle e occhieggiarne i lussuosi androni. Meno ovvio è che il Pio Albergo Trivulzio, la Baggina come la chiamiamo noi, che ha accumulato un ingente patrimonio immobiliare, grazie a dei benefattori che intendevano, con ciò, non solo alleviare la condizione dei vecchi soli e invalidi ma anche che i loro quattrini avessero un utilizzo sociale, svenda questo patrimonio, con affitti o vendite "low cost" come si dice elegantemente oggi, a politici, amministratori, manager, immobiliaristi, speculatori, modelle, giornalisti, che di questo "aiutino" non avrebbero alcun bisogno, sottraendo risorse a chi il bisogno ce l'ha.

Io bazzico bar frequentati da impiegati, da piccoli manager, da lavoratori del terziario e un'antica piscina meneghina, la Canottieri Milano, dove si sono rifugiati, come in uno zoo per animali in estinzione, i cittadini di una Milano che fu, gente anziana. Tutti schiumano rabbia impotente di fronte a queste storie dei figli delle oligarchie del potere che hanno il posto assicurato o delle case del centro occupate "low cost" da queste stesse oligarchie o dai loro pargoli (nello scandalo del Pio Albergo Trivulzio c'è un nipote di Pilliteri, una figlia di Ligresti). Queste cose li colpiscono più dei truffoni di Berlusconi perché toccano direttamente la loro carne.
v Schiumano rabbia ma non si ribellano. Perché? Le ragioni, secondo me, sono sostanzialmente due. In questo Paese il più pulito c'ha la rogna. Quasi tutti hanno delle magagne nascoste, magari veniali, ma ce l'hanno. Non che sia gente in partenza disonesta. Ma, com'è noto, la mela marcia scaccia quella buona. Se "così fan tutti", tanto vale che lo faccia anch'io. Così ragiona il cittadino. Per resistere a quel "tanto vale" ci vuole una corazza morale da santo o da martire o da masochista.

La seconda ragione sta in una mancanza di vitalità. Basterebbe una spallata di due giorni, come quella tunisina, una rivolta popolare disarmata ma violenta disposta a lasciare sul campo qualche morto per abbattere queste oligarchie, queste aristocrazie mascherate che, come i nobili di un tempo, si passano potere e privilegi di padre in figlio, senza nemmeno avere gli obblighi delle aristocrazie storiche. Ma in Tunisia l'età media è di 32 anni, da noi di 43. Siamo vecchi, siamo rassegnati, siamo disposti a farci tosare come pecore e comandare come asini al basto. Solo una crisi economica cupissima potrebbe spingere la popolazione a ribellarsi. Perché quando arriva la fame cessa il tempo delle chiacchiere e la parola passa alla violenza. La sacrosanta violenza popolare. Come abbiamo visto in Tunisia e in Egitto, come vediamo in Libia o in Bahrein (in culo al colossale Barnum del Circuito di Formula Uno, che è, in sé, uno schiaffo alla povera gente di quel mondo).

Massimo Fini
Fonte: www.ilfattoquotidiano.it
Link: http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/02/22/perche-non-ci-ribelliamo-in-italia-la/93334/
22.02.2011


martedì 22 febbraio 2011

Leggi eversive per la Consulta.-di Alessandro Pace.



La proposta del presidente del Consiglio di elevare il quorum deliberativo delle pronunce della Consulta, dall'attuale maggioranza dei giudici presenti al voto a quella dei due terzi, stravolge una delle caratteristiche essenziali della nostra Carta costituzionale.

Modificare l'articolo 16 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e dall'articolo 17 comma 3 delle Norme integrative della Corte costituzionale, nel senso auspicato da Berlusconi, esplica conseguenze pregiudizievoli non solo sulla funzionalità della Corte, come è stato fin qui autorevolmente rilevato, ma sulla stessa rigidità della nostra Costituzione.

La proposta incide infatti su quella caratteristica delle costituzioni scritte, ormai fatta propria da pressoché tutti gli ordinamenti vigenti, democratici e non, di porsi come atti normativi "formalmente superiori" rispetto alla restante attività normativa e provvedimentale degli organi dello Stato (leggi statali e regionali, decreti-legge, decreti-legislativi, decreti ministeriali, ordinanze, sentenze e così via). Con la conseguenza che tutti questi atti, per definizione "gerarchicamente inferiori", non possono contraddire la Costituzione, essendo questa la "legge fondamentale".

Per contro, qualora il Parlamento, recependo la proposta del premier, decidesse che, per dichiarare l'incostituzionalità di una legge o di una norma di legge, siano necessari i due terzi dei 15 giudici presenti (e quindi almeno 10 giudici su 15 nel caso che tutti i giudici siano presenti alla votazione o almeno 7 giudici su 11, essendo questo il numero minimo richiesto perché la Corte possa deliberare), la conseguenza sarebbe che, nel suo raffronto con la Costituzione, la legge ordinaria si troverebbe paradossalmente in una posizione più favorevole rispetto alla Costituzione ancorché sia questa, e non quella, la legge fondamentale.

Infatti, messa la legge ordinaria su un piatto della bilancia e la Costituzione sull'altro piatto, i 6 voti dei giudici favorevoli alla legge ordinaria peserebbero assai di più dei 9 voti dei giudici favorevoli alla Costituzione (né più né meno come la spada di Brenno…).

Il nodo della questione sta infatti tutto qui. Essendo le percentuali di un terzo e di due terzi in relazione tra loro, se Berlusconi ritiene che un terzo valga più dei due terzi, ciò significa che per lui la Costituzione vale, in linea di massima, meno della legge ordinaria. Il che ovviamente non costituisce una novità nel pensiero dell'attuale presidente del Consiglio, mentre conferma, sotto altro aspetto, la sua insofferenza per le forme e per i limiti che dovrebbero caratterizzare, per disposto costituzionale, l'agire dei titolari degli organi rappresentativi della sovranità popolare (articolo 1 comma 2 della Costituzione).

Un'ultima chiosa. Si è ricordato, all'inizio, che la regola della maggioranza dei giudici presenti per le pronunce della Corte costituzionale è prescritta nella legge n. 87 del 1953 e nelle Norme integrative della Corte costituzionale. Ebbene, ciò tuttavia non significa che basterebbe modificare la legge (ordinaria) n. 87 del 1953 perché l'obiettivo del premier possa essere raggiunto.

Proprio perché, in conseguenza di una siffatta modifica, la Costituzione acquisirebbe un grado di "cedevolezza" nei confronti della legge ordinaria contrastante con la sua "rigidità", è di tutta evidenza che, per introdurre una siffatta norma eversiva dell'attuale sindacato di costituzionalità delle leggi, sarebbe quanto meno necessaria una legge di revisione costituzionale, come tale sottoposta alle speciali procedure di cui all'articolo 138 della Costituzione. A meno che si ritenga, com'è lecito ritenere, che tra i "principi supremi" della nostra Costituzione - come tali immodificabili anche con legge costituzionale - ci sia anche l'inderogabile superiorità della Costituzione su tutti gli atti del nostro ordinamento.




Milleproroghe, per Napolitano è ''a rischio d'incostituzionalità''


Il capo dello Stato scrive una lettera al premier e ai presidenti delle Camere.


Monia Cappuccini , Martina Aureli
Norme troppe eterogenee, in contrasto con puntuali norme della Costituzione. Così il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano avverte che il Milleproroghe non va. Lo scrive in una lettera ai Presidenti delle Camere (Fini e Schifani) e al Presidente del Consiglio Berlusconi, nella quale ha richiamato l'attenzione sull'ampiezza e sulla eterogeneità delle modifiche fin qui apportate nel corso del procedimento di conversione al testo originario del decreto-legge. "Il Capo dello Stato - si legge nella nota diffusa dal Quirinale - nel ricordare i rilievi ripetutamente espressi fin dall'inizio del settennato, ha messo in evidenza che la prassi irrituale con cui si introducono nei decreti-legge disposizioni non strettamente attinenti al loro oggetto si pone in contrasto con puntuali norme della Costituzione, delle leggi e dei regolamenti parlamentari, eludendo il vaglio preventivo spettante al Capo dello Stato in sede di emanazione dei decreti-legge".



Libia, Gheddafi: non mi dimetto, manifestanti mercenari.


TRIPOLI/ROMA (Reuters) - Il presidente libico Muammar Gheddafi, bersaglio di una rivolta popolare repressa nel sangue, ha promesso oggi di morire da martire in Libia, mentre i soldati ribelli sostengono che la zona orientale del paese non sia più sotto il controllo del suo leader.

"Non lascerò questa terra, morirò qui come martire", ha detto Gheddafi in una discorso tv, rifiutando di cedere alle richieste di soldati e manifestanti di mettere fine ai suoi 40 anni di governo.

"Resterò qui", ha aggiunto il presidente, parlando all'esterno di una delle sue residenze, pesantemente danneggiata da un raid Usa del 1986 che tentò di ucciderlo.

Nel discorso, Gheddafi ha invitato i suoi sostenitori a scendere in strada, aggiungendo che i manifestanti meritano la pena di morte e promettendo una vaga riorganizzazione delle strutture di governo. Gheddafi ha anche affermato di non aver usato la forza contro i manifestanti antigovernativi, ma di essere deciso a farlo se necessari.

Gheddafi ha definito "ratti e mercenari che non rappresentano il popolo libico" i manifestanti che chiedono le sue dimissioni, dicendo che questi vogliono trasformare la Libia in stato islamico, "un nuovo Afghanistan".

Intanto, nel Paese sconvolto dalla rivolta, soldati libici a Tobruk hanno detto oggi ad un corrispondente Reuters che non sostengono più Gheddafi.

Anche alcuni abitanti hanno riferito che la città è ora nella mani della gente, precisando che il fumo che è salito in alcuni punti della città proviene da magazzini di munizioni bombardati da soldati fedeli a uno dei figli di Gheddafi.

"Tutte le regioni orientali ora sono fuori dal controllo di Gheddafi...Le gente e l'esercito qui vanno mano nella mano", ha detto l'ormai ex maggiore dell'esercito Hany Saad Marjaa.

UE: SOSPESO ACCORDO QUADRO CON LIBIA

L'associazione per i diritti umani Human Rights Watch quantifica in almeno 62 i morti negli ultimi due giorni di scontri nella capitale, mentre l'Alto commissariato per i rifugiati dell'Onu (Acnur) ha lanciato oggi un appello all'Italia e ai paesi confinanti della Libia affinché non respingano le persone in fuga dalle violenze nel paese nordafricano.

Oggi il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha discusso a porte chiuse della crisi in Libia, con i rappresentanti dei paesi occidentali - e la stessa delegazione libica, che ha rinnegato il governo di Gheddafi - che hanno chiesto di passare all'azione. Ma oggi si è trattato solo di una prima riunione, quasi esclusivamente procedurale, e bisognerà vedere quale sarà la reazione di paesi come la Russia e la Cina alla richiesta di intervento.

Intanto, il capo della politica estera Ue Catherine Ashton ha detto che l'Unione europea ha deciso di sospendere l'accordo quadro che sta negoziando la Libia. "Deploro la perdita di vite e condanno tutti gli atti di violenza", ha detto Ashton ai giornalisti al Cairo. "Sospenderemo l'accordo quadro che stavamo negoziando", ha aggiunto.

REPRESSIONE ARMATA

Gheddafi ha impiegato carri armati, elicotteri e aerei da guerra per soffocare la rivolta che sta dilagando nel paese, come hanno raccontato oggi diversi testimoni.

Jet militari hanno bombardato oggi alcuni quartieri della capitale Tripoli in una nuova ondata di attacchi e i mercenari hanno sparato sui civili, ha detto la tv araba al Jazeera.

Nella città orientale di Al Bayda, un abitante, Marai Al Mahry, ha detto al telefono a Reuters che 26 persone, tra cui il fratello, sono state uccise nella notte da filo-governativi.

"Ci hanno sparato addosso solo perché camminavamo per strada", ha detto tra le lacrime, chiedendo aiuto.

I dimostranti sono stati attaccati con tank e aerei, ha aggiunto l'uomo, definendo "un genocidio" quanto sta accadendo.

Centinaia di profughi sono affluiti stamani in Egitto, stipati in camion e trattori, e raccontano che la rivolta ha scatenato omicidi e banditismo.

"Cinque persone sono morte nella via dove abito", ha detto Mohamed Jalaly, 40 anni, a Reuters a Salum, sulla strada da Bengasi al Cairo. "Quando lasci Bengasi, non vedi altro che bande e giovani armati".

Un giornalista Reuters ha testimoniato che il lato libico al confine con l'Egitto è in mano ai rivoltosi anti Gheddafi.

Nel frattempo aumenta il numero di dirigenti e diplomatici libici che hanno preso le distanze dal regime, lanciando un appello alla destituzione di Gheddafi. Da ultimo, l'ambasciatore libico negli Stati Uniti, Ali Aujali, ha detto oggi ad una tv americana che non intende più rappresentare il "regime dittatoriale" di Gheddafi.

EVACUAZIONI, PARTE DALL'ITALIA ANCHE UN C-130 DELL'AERONAUTICA

Come altri Paesi, l'Italia sta cominciando le operazioni di evacuazioni di civili e di personale non essenziale. Il ministero della Difesa invierà un C-130 oggi in Libia - ha detto una fonte militare - anche se non è ancora chiara la destinazione, mentre un volo speciale dell'Alitalia per Tripoli dovrebbe riportare oltre 200 connazionali a Roma questa sera.

Il governo francese ha annunciato l'invio di tre aerei oggi per evacuare i suoi cittadini. Anche la Gran Bretagna ha annunciato l'invio di un aereo per il rimpatrio dei proprio connazionale, oltre al dispiegamento di una fregata della Marina al largo della Libia per dare eventuale aiuto ai britannici.

La Libia ha acconsentito all'atterraggio di due aerei militari egiziani e uno olandese per rimpatriare i connazionali, hanno detto i rispettivi ministeri. Mentre centinaia di lavoratori turchi saranno rimpatriati via mare, partendo dal porto di Bengasi.

Ieri sera il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, si è detto "allarmato per l'aggravarsi degli scontri e per l'uso inaccettabile della violenza sulla popolazione civile", e ha chiesto un intervento internazionale per evitare che nel paese nordafricano scoppi una guerra civile".

A Palazzo Chigi si terrà un vertice per far fronte all'emergenza-immigrazione legata alla crisi in Libia al quale prenderanno parte il ministro degli Esteri Franco Frattini - che deve rientrare dall'Egitto - dell'Interno Roberto Maroni, della Difesa Ignazio La Russa e dello Sviluppo economico Paolo Romani.

Le potenze mondiali hanno condannato l'uso della violenza contro i manifestanti, e il segretario generale dell'Onu Ban Ki- moon accusa la Libia di avere sparato sui civili "da aerei da guerra ed elicotteri".

La violenza "deve cessare immediatamente", ha detto Ban. Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu terrà un vertice sulla Libia in giornata, riferiscono diplomatici.

Per Navi Pillay, alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, gli attacchi contro i dimostranti condotti dalle forze di sicurezza libiche potrebbero costituire un crimine contro l'umanità, e serve dunque un'indagine internazionale.

L'attività dei porti merci libici è stata chiusa a causa delle violenze che hanno investito il paese, secondo fonti marittime, che riferiscono che gli scali di Bengasi, Tripoli e Misurata - che gestiscono il traffico merci e container del paese - sono stati chiusi.

"I nostri uffici in Italia ci hanno comunicato stamane che i porti di Tripoli, Bengasi e Misurata sono stati tutti chiusi" ha detto John Bader, responsabile degli agenti commerciali in Gran Bretagna della compagnia italiana Tarros Spa.

"Abbiamo smesso di proporre spedizioni laggiù fino a che non avremo sentito che la situazione è migliorata", ha detto a Reuters.

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domenica 20 febbraio 2011

Financial Times:"Italia paese arabo d'Europa, Berlusconi autocrate eletto".




In questo momento che gli occhi di tutti sono puntati verso il Mondo arabo, dove la infuriano proteste contro i dittatori, dove stanno crollando i tiranni che si erano creduti di essere infallibili. Tuttavia, c'è anche chi vuole concentrare la sua attenzione sulla situazione politica, economica e sociale in Europa, e mette in evidenza un particolare noto a tutti ma che si tenta a minimizzare. Il Financial Times, oggi definisce l'Italia il "Paese arabo d'Europa". Il presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi viene paragonato con leaders autocrati del Mondo arabo che in questi giorni stanno tremando e lo definisceautocrate eletto.

Dal quotidiano si nota un Paese con molte caratteristiche comuni ai Paesi arabi, dall'economia stagnante, una cultura consumata dalla corruzione e dal crimine organizzato e un conflitto generazionale... Un Paese controllato da una classe politica gerontocratica arroccata nella politica e negli affari, escludendone i giovani.

Un capo del governo italiano con molte caratteristiche comuni ai leaders dei Paesi arabi:"E' immensamente ricco, controlla la gran parte dei mezzi di comunicazione ed è circondato da yes-men; sfida apertamente il sistema giudiziario ogni qualvolta questo si pronuncia contro di lui".

Il capo del governo italiano somiglia molto agli autocrati arabi: "sopravvivere fino all'estremo".


http://www.net1news.org/financial-timesitalia-paese-arabo-deuropa-berlusconi-autocrate-eletto.html


Il pagliaccio devoto. di Alessandro Gilioli.



Questa volta, Berlusconi non potrà dire che i dispacci di Wikileaks vengono da «funzionari di terzo grado». Infatti è l’ambasciatore Ronald Spogli, spedito a Roma da Bush nel 2005, che nel febbraio del 2009 fa il bilancio dei suoi quattro anni a Roma, spedendo una lettera di consigli al nuovo ministro degli esteri, Hillary Clinton.

Ne ha viste parecchie, Spogli: è arrivato con Berlusconi premier, ha vissuto i due anni di Prodi e mentre sta per lasciare l’Italia c’è di nuovo il Cavaliere a Palazzo Chigi. Quindi alla Clinton spiega che cosa bisogna fare secondo lui per trarre il massimo vantaggio, dal punto di vista americano, dalle relazioni con Roma, anche se – inevitabilmente – poi scivola in analisi sulla politica nel nostro Paese.

Ne viene fuori un quadro impressionante. Non solo e non tanto per la scarsissima considerazione con cui gli Usa guardano a Berlusconi, quanto per il patto che ne esce: gli Stati Uniti sosterranno quello che per loro è un politico impresentabile solo perché è completamente prono ai loro interessi.


Secondo gli Usa, infatti, non siamo un Paese irrilevante: «L’Italia è la sede del più completo arsenale militare di cui noi disponiamo al di fuori del territorio degli Stati Uniti», scrive l’ambasciatore «e rappresenta una piattaforma geostrategica unica in Europa che consente di raggiungere facilmente zone a rischio in tutto il Medio Oriente, l’Africa e l’Europa».

Insomma, un po’ come negli Anni ‘50, per gli americani siamo una gigantesca portaerei in mezzo al Mediterraneo. E «considerati i compiti strategici che si profilano in futuro e le richieste che faremo a breve, su questioni che vanno dall’Aghanistan alla chiusura di Guantanamo, varrebbe la pena di fare un piccolo investimento iniziale per spianarci la strada».

L’investimento, come vedremo, è l’appoggio di Washington a Berlusconi, in cambio del quale l’amministrazione americana otterrà tutto quello che vuole.

Peccato che, agli occhi dell’ambasciatore, il nostro Paese stia andando in malora: «Il declino economico è lento ma sostanziale», mentre «la classe dirigente dimostra spesso di non avere una visione strategica» ed è evidente la «mancanza di volontà e l’incapacità dei leader italiani di affrontare i problemi strutturali» come «la decadenza delle infrastrutture, il debito pubblico che aumenta, la corruzione endemica», tutte cose che «danno l’impressione di un governo inefficiente e debole».

Poi arriva la mazzata: «Il primo ministro Silvio Berlusconi è involontariamente diventato il simbolo di questo processo. Le sue continue gaffe e la sua povertà di linguaggio hanno più di una volta offeso gran parte del popolo italiano e molti leader europei. La sua chiara volontà di anteporre i propri interessi personali a quelli dello Stato, il suo privilegiare le soluzioni a breve termine a discapito di investimenti lungimiranti, il suo frequente utilizzo delle istituzioni e delle risorse pubbliche per ottenere benefici elettorali sui suoi avversari politici hanno danneggiato l’immagine dell’Italia in Europa, creato una reputazione disgraziatamente comica alla reputazione dell’italia in molti settori del governo statunitense».

Ma non è ancora finita. Perché Spogli subito dopo deride la politica estera del Cavaliere, tutta apparenza e niente sostanza: «L’Italia ha cercato di compensare la mancata allocazione di risorse proponendosi come grande mediatore mondiale, un ruolo autoconferitosi che i politici (e in particolare Silvio Berlusconi) credono dia grande visibilità e virtualmente nessun costo. Senza alcun tipo di coordinamento esterno, i leader italiani hanno cercato di mediare nei rapporto dell’Occidente con la Russia, nell’impegno verso Hamas e Hizballah, nello stabilere nuovi canali di negoziazione con l’Iran ed espandendo l’agenda e il mandato del G8».

E va beh.

Ma di questo Paese, appunto, l’America ha bisogno. E l’ambasciatore lo dice chiaramente: «La combinazione tra declino economico e idiosincrasie politiche ha spinto molti leader europei a denigrare i contributi italiani e di Berlusconi. Noi non dobbiamo farlo. Dobbiamo riconoscere che un impegno di lunga durata con l’Italia e i suoi leader ci procurerà importanti dividendi strategici, ora e in futuro», ad esempio «per l’insediamento dei detenuti di Guantanamo e per un più ampio e approfondito impegno in Afghanistan».

Detta fuori dal linguaggio dei diplomatici: agli altri capi di Stato e di governo occidentali, Berlusconi sta talmente sulla balle («idiosincrasie») che non vogliono più averci niente a che fare. A noi invece è utile, quindi ci turiamo il naso.

Del resto era stato lo stesso Spogli, pochi mesi prima, a compiacersi per la «schiacciante vittoria elettorale di Berlusconi», la cui «forza e la popolarità stride brutalmente con i due anni di divisioni interne che hanno caratterizzato il governo Prodi».

E nel febbraio 2009 spiega perché agli Usa conviene sostenere il Cavaliere: «Benché Berlusconi non sia sintonizzato con i nostri ritmi politici quanto ritiene di essere, è genuinamente e profondamente devoto al rapporto con gli Usa. Il suo ritorno in politica la scorsa primavera ha portato un tangibile e pressoché immediato miglioramento nella nostra capacità di conseguire risultati da un punto di vista operativo».

Quindi: «Sono convinto che, nella misura in cui lei e i suoi più stretti collaboratori resterete in contatto e vi coordinerete con i leader italiani, avremo risultati soddisfacenti. Allo stesso modo, se troveremo il modo di includere l’Italia nel gruppo di nazioni con cui lavoriamo a più stretto contatto sui temi chiave – come il Medio Oriente, l’Iran e l’Afghanistan – lei e il presidente troverete moltissimi modi per incanalare il grande potenziale italiano in supporto agli obiettivi strategici statunitensi».

Ricapitolando: l’America ci considera un paese allo sbando e governato da un pagliaccio, ma il pagliaccio è devoto, molto più ubbidiente di chi l’ha preceduto. E siccome l’Italia sta in mezzo al Mediterraneo e ha carne fresca da mandare a combattere, agli americani sta bene così.

Buona giornata.