mercoledì 8 giugno 2011

Galan: ministeri al Nord? Una puttanata intercontinentale


Il ministro della Cultura boccia la proposta leghista:
solo propaganda che mette in difficoltà gli alleati

Galan (Omniroma)
Galan (Omniroma)
ROMA - «Una puttanata intercontinentale». Così il ministro della Cultura Giancarlo Galan definisce la proposta leghista di trasferire alcuni ministeri al Nord. «È tutto tranne che una cosa seria - dice Galan a Radio Radicale -, anzi, se non fossi in onda su Radio Radicale direi che è una puttanata intercontinentale e mi meraviglio che non la si tratti come tale».

«SOLO PROPAGANDA» - Di più, il ministro della Cultura (del Pdl) spiega: «È semplicemente una iniziativa propagandistica - prosegue Galan - che mette in difficoltà gli alleati e che non ha alcuna possibilità di essere attuata. È sgradevole e inutile anche perché dà la sensazione che chi dovrebbe battersi per risparmiare nella spesa pubblica in realtà la dilata, chi dovrebbe contrarre la pubblica amministrazione in realtà la dilata. Insomma un errore fondamentale, marchiano, evidente sotto tutti i profili».

http://www.corriere.it/politica/11_giugno_08/galan-ministri-nord-puttanata-intercontinentale_e385be44-91c0-11e0-9b49-77b721022eeb.shtml



Sul quorum il rebus del voto all'estero ma il governo rischia l'autogol


Dal Viminale la conferma che gli italiani all'estero non potranno votare sulle nuove schede. Aver modificato la legge e il conseguente cambio del quesito potrebbe portare però al paradossale risultato di rendere più facile il raggiungimento del 50%. Il radicale Staderini: "Tutti gli italiani che vivono fuori dal paese sono stati messi in condizione di votare? Il governo risponda, è una questione di democrazia".


ROMA - Appelli, mobilitazioni, flash mob, passa parola in rete. La battaglia per il raggiungimento del quorum ai referendum del 12 e 13 giugno si combatte con molte armi, ma alla fine la battaglia decisiva sarà probabilmente quella che si disputerà a partire da lunedì pomeriggio in Cassazione attorno al voto degli italiani all'estero. Oggi il Viminale, attraverso la comunicazione al Parlamento del ministro Elio Vito, ha reso noto che sono in corso di stampa e distribuzione in tutto il Paese le schede di colore grigio con la nuova formulazione del quesito sul nucleare, così come disposta dall'ordinanza 1 giugno 2011, depositata il 3 giugno dell'ufficio centrale per il Referendum presso la Cassazione.

Le nuove schede però non saranno nuovamente inviate agli italiani residenti all'estero, dal momento che il voto poteva essere espresso solo entro il 2 giugno. Le vecchie schede già votate saranno conteggiate ai fini del risultato ma soprattutto ai fini del raggiungimento del quorum? Su questo punto Vito non si è espresso. E' logico pensare però che il governo dopo i ripetuti tentativi di sabotare la consultazione non rinuncerà a considerare anche i 3,2 milioni di italiani residenti oltreconfine parte della base elettorale su cui calcolare il 50% di votanti necessario a rendere valido il referendum.

Proprio il pasticcio combinato da Berlusconi e Romani con la finta moratoria inserita nel dl omnibus rischia però di depotenziare l'arma più efficace posseduta dal Governo per far fallire i quesiti. Per capire il perchè è necessario però fare un passo indietro.

Come ha spiegato Antonio Di Pietro a Repubblica Tv 1, contando gli italiani all'estero - che hanno votato però su un quesiti che non esiste più - il quorum sale in realtà al 58%. Anche se le schede spedite per corrispondenza tra il 25 maggio e il 2 giugno fossero conteggiate, difficile sperare che siano poco più di qualche decina di migliaia. Se dei referendum si è parlato poco o nulla qui da noi, è facile capire quanto ancor meno ne siano stati informati gli italiani all'estero, tra l'altro tendenzialmente più distratti e inclini all'astensionismo (alle ultime politiche, per dire, ha votato solo il 39,5%). Detto in altre parole, se si fosse votato tutti con il vecchio quesito il raggiungimento del quorum sarebbe stato davvero ai limiti dell'impossibile. Ma il governo, con la sua smania di sabotaggio, è riuscito nell'impresa di far votare italiane e italiani all'estero con due schede diverse, spalancando così la porta a un ricorso che Di Pietro ha già annunciato di voler presentare entro le 15 di lunedì alla Cassazione.

Precedenti in materia non ce ne sono, ma che i giudici - che tra l'altro sino ad oggi hanno sempre dato ragione ai reclami dei referendari - possano decidere di non cosiderare validi ai fini del quorum i voti espressi su schede diverse da quelle su cui ci si esprime ai seggi il 12 e 13 appare più di un'ipotesi. Nel caso le cose andassero davvero così, le possibilità che il referendum sia valido crescerebbero vertiginosamente. "A superare il muro del 50 per cento ce la facciamo, del 58 no", profetizzava sempre Di Pietro. Che a quel punto avrebbe "azzeccato" anche un'altra profezia: "Berlusconi lo ringrazio. Meno male che si attornia di tanta gente incompetente e incapace: prima fa un decreto per fermare il referendum sul nucleare, poi ricorre alla Cassazione, poi alla Consulta, con il risultato che oggi tutti parlano del referendum".

E un'altra, importante, questione la pone il segretario dei Radicali Mario Staderini. "Tutti gli italiani all'estero sono stati messi nelle condizioni di votare?" si chiede il leader radicale. "I dubbi sulla regolarità del voto degli italiani all'estero - dice - riguardano tutti e quattro i referendum, non solo quello sul nucleare. La questione non è tanto se chi ha già votato sul nucleare debba o no rivotare, bensì se gli oltre 3 milioni di italiani all'estero sono stati messi effettivamente nella condizione di votare per i quattro referendum". "Siamo davvero sicuri - insiste - che siano stati tutti informati nei loro attuali recapiti della possibilità di votare? Il plico contenente le schede referendarie non è inviato tramite raccomandata, per cui non v'è certezza sulla sua effettiva ricezione. Peraltro, sono sempre di più le segnalazioni che sto ricevendo i italiani all'estero a cui le schede non sono arrivate nonostante al consolato risultasse di si. Lo stesso voto all'estero avviene con posta ordinaria, per cui chi ha votato non saprà mai se il suo voto è arrivato a destinazione.
E poi, quali informazioni di merito e occasioni di conoscenza i consolati hanno garantito affinché l'interesse a votare non fosse soffocato? Dal momento in cui il quorum condiziona la validità del voto di decine di milioni di italiani, la verifica su cosa accaduto ai 3 milioni di votanti all'estero è condizione essenziale di democrazia. Chi non è stato messo in condizione di votare non deve essere conteggiato nel quorum. Sto valutando la possibilità di fare un ricorso in Cassazione".



L'austerity deve colpire la politica. - di Mario Deaglio


Senza riduzione del debito pubblico non c’è crescita. Senza crescita, però, la sola riduzione del debito pubblico spinge l’economia verso una nuova fermata.

E’ in queste condizioni difficili che la Commissione dell’Unione Europea ha inviato ieri le sue «raccomandazioni» ai ventisette governi degli Stati membri, intenti a preparare le leggi finanziarie per il 2012: una novità del sistema europeo di governo dell’economia, introdotta per evitare ripetizioni della «tragedia greca» della finanza pubblica e impedire politiche troppo disinvolte a spese di tutti.

Nelle «raccomandazioni» la Commissione schiaccia fino in fondo il freno del rigore: «Non abbiamo alcun desiderio di imporre l’austerità agli europei - hanno scritto i commissari - ma è un fatto che l’insostenibilità delle finanze pubbliche sta limitando il nostro potenziale di crescita». Giudica generalmente «troppo poco ambiziosi» e troppo vaghi i piani dei governi ai quali indica una serie di priorità: aumento dell’età pensionabile, riduzione dei pensionamenti anticipati, aggancio dei salari alla produttività, semplificazioni burocratiche per le imprese e incentivi per la ricerca e lo sviluppo. Non c’è male sul piano dei principi, soprattutto per chi non deve la propria carica al consenso degli elettori, ma la traduzione di questi propositi abbastanza nobili in proposte concrete è difficilissima per governi alle prese con un’impopolarità crescente.

La Commissione bacchetta un po’ tutti, ma indirizza un discorso particolarmente severo proprio all’Italia, forse perché in realtà proprio l’Italia è il Paese-chiave per la tenuta dell’euro. Sostiene che fino al 2012 i programmi italiani sono sostanzialmente in linea con gli impegni presi di riduzione di deficit e di debito, ma che i piani fiscali per il 2013-14 non sono adeguati all’obiettivo; in questo è in linea con il giudizio di Moody’s, l’agenzia internazionale che ha confermato la sua valutazione sullo stato attuale della finanza italiana ma ha peggiorato la valutazione futura. Quello che è richiesto all’Italia è, in pratica, un cambiamento radicale e gigantesco del settore pubblico. Dietro l’espressione, apparentemente «innocente», di «riforme di struttura» si cela un rinnovamento profondo di tutte le procedure amministrative.

Rinnovamento, è inutile dirlo, che risulterà in una sensibile riduzione del numero dei dipendenti pubblici a tutti i livelli nel giro di pochissimi anni. Le forze politiche saranno costrette a presentarsi agli elettori alla fine di questa legislatura- sia che essa arrivi al suo termine naturale sia che invece venga anticipata - non già con la lista dei regali e delle promesse, ma con la lista dei tagli.

Al primo posto di questa lista non può non esserci la stessa politica. Tagli profondi nella spesa pubblica non possono essere credibilmente proposti da chi non è disposto a tagliare la spesa relativa alle proprie funzioni. Devono quindi costituire il punto di partenza di chi vuol governare il Paese nel prossimo futuro. A un calcolo approssimativo, non dovrebbe essere troppo difficile ottenere un taglio di 1-2 miliardi di euro l’anno, agendo sulla riduzione sia dei privilegi della politica sia sul numero di quanti ne hanno diritto.

Solo con questa premessa sarà possibile cercare davvero di rendere al tempo stesso più efficienti, meno complicate e meno care le procedure amministrative: i burocrati dovranno essere sostituiti, dove possibile, dai computer. Alcune fasi del processo amministrativo dovranno essere saltate, magari prendendo a esempio quanto già si fa in molti Paesi. E un pilastro fondamentale, quello da cui è auspicabile che derivi il maggior contributo, sarà una lotta accanita all’evasione fiscale, un terreno sul quale si è ottenuto parecchio in questi anni ma che comincia a provocare forme vistose di risentimento.

Dallo sport all’agricoltura, i sussidi, anche quelli giustificabili e ragionevoli, dovranno essere rivisti con spirito molto critico; nelle «libere» professioni occorre liberalizzare l’entrata, resa sempre più difficile nel corso dei decenni. E’ inevitabile che molte missioni militari all’estero debbano essere terminate. E forse bisognerà decidersi a vendere un po’ di quell’oro, acquistato decenni fa a trentasei dollari l’oncia, che ora ne vale più di millecinquecento, una mossa che i governi di ogni colore sono sempre stati molto restii a prendere in considerazione. Da tutte queste misure risulterà probabilmente un insieme non trascurabile di risorse da destinare non solo alla riduzione del debito ma anche a progetti di crescita.

Chi vuole governare questo Paese nei prossimi anni potrà essere davvero credibile agli elettori e ai partner europei solo se si presenterà con un programma in regola su questi punti. In caso contrario, bando alle ipocrisie: prepariamoci, di qui a qualche anno, ad abbandonare l’euro e a riprendere il vecchio ciclo di inflazione e svalutazione.



Senza Gabanelli la Rai può chiudere. - di Aldo Grasso.


MILANO - Fra le trasmissioni di successo, «Report» è l'unica che conserva la missione di servizio pubblico nella sua accezione più alta, di indagine e di senso civico. Se la Rai si lascia sfuggire Milena Gabanelli può chiudere bottega, diventerebbe un'azienda televisiva fra le altre, faticherebbe non poco a giustificare la richiesta di un canone.

LE INCHIESTE - Non basta fare le inchieste, bisogna anche chiedersi che esito hanno avuto, come sono andate a finire. In queste puntate di fine stagione, «Report» fa il punto sul suo lavoro, a cominciare dalla «puntata riparatrice» chiesta dall'Agcom (una vera assurdità che mette a nudo il carattere essenzialmente politico delle nostre Autorità di garanzia) a compensazione di un'inchiesta del 24 ottobre sulla manovra economica. In assenza di un intervento diretto del ministro Giulio Tremonti, Stefania Rimini ha intervistato Alberto Quadrio Curzio e Marco Fortis chiedendo loro un giudizio positivo sull'operato del governo: una vera assurdità targata Agcom.

EXPO 2015 - Il servizio che più mi ha colpito è stato quello sull'Expo 2015: la questione dei terreni, la speculazione edilizia, il ruolo di Lucio Stanca che spavaldamente rivendicava il doppio stipendio di parlamentare e di a.d. di Expo 2015 (non è che la Moratti ha perso le elezioni anche per queste arroganti storture?), il fallimento dell'affascinante progetto Boeri-Petrini sugli orti planetari che pure aveva affascinato il Bureau International des Expositions: «Questo progetto - conclude la Gabanelli - è troppo rivoluzionario. Si preferisce il supermarket del cibo e i tradizionali padiglioni e quando la fiera finisce si smobilita e si edifica. A meno che il nuovo sindaco, che dovrà correre perché fra 4 anni si inaugura e c'è ancora tutto da fare, non abbia il coraggio del nuovo. Una domanda: ma la Moratti rimane commissario straordinario?».



Rai, il silenzio dei garanti. - di Aldo Grasso.


La vicenda del divorzio di Michele Santoro
da Viale Mazzini rappresenta un danno oggettivo per l'azienda.
Ma in tutta questa vicenda di Santoro qual è il ruolo di Paolo Garimberti? Un presidente di garanzia della Rai può accontentarsi di fare il pesce in barile limitandosi a dichiarare il suo «profondo rispetto per il diritto di ciascuno di essere artefice del proprio destino»? È indispettito per non essere stato coinvolto nella trattativa?

Da qualunque parte la si legga, la vicenda del divorzio di Michele Santoro da Viale Mazzini rappresenta un danno oggettivo per l'azienda. Sì, è vero ci sono rilevanti questioni politiche e partitiche (come sempre, quando si parla di Rai), ma un presidente di garanzia deve innanzitutto tutelare il servizio pubblico che idealmente gli è stato affidato. Se non ci riesce, se viene messo da parte, se viene trattato alla stregua di un notaio, beh forse è il caso di inviare un segnale forte, dare persino le dimissioni, come in passato ha fatto Lucia Annunziata. Santoro faceva un programma fazioso, «anti-sistema», paradiso degli indignati, a volte con il gusto di irridere l'avversario, lo abbiamo detto più volte, però era anche uno dei pochi programmi che teneva in piedi e «illuminava» Raidue (insieme a X Factor, già cancellato, e a Simona Ventura, dal futuro incerto). In una democrazia matura, in un servizio pubblico, ad Annozero si contrappone un altro talk di segno opposto. Ci hanno provato ed è andata male. Così, la rottura appare non solo come una vendetta personale di Berlusconi, che attribuisce a Santoro la sconfitta nei ballottaggi e come il capitano Achab insegue ossessivamente il suo leviatano, ma anche un danno oggettivo per la Rai. Nel primo round Santoro aveva sconfitto il direttore generale Mauro Masi, costringendolo ad andarsene, nel secondo, ai punti, con guanto felpato, Lorenza Lei ha piegato Santoro, indebolendo però l'azienda.

Se il sistema tv italiano non fosse così anomalo, il cambio di guardia di un conduttore o di un giornalista non dovrebbe suscitare tanto scalpore, esattamente come succede nella carta stampata: ciascuno è artefice del proprio destino. Ma con Viale Mazzini, da tempo bottino di guerra dei vincitori, e con Mediaset, di proprietà del presidente del Consiglio, le cose non stanno così. Se, come probabile, Raidue rischierà il tracollo, di chi sarà la colpa? Il presidente Garimberti sarà in grado di chiedere la testa della Lei nel caso in cui La7 «rubi» una consistente fetta di audience alla Rai?

Di fronte alle proteste dei direttori di rete - Mauro Mazza, Massimo Liofredi e Paolo Ruffini - che hanno abbandonato la sala consiliare per contestare le proposte di palinsesto decise dalla Lei, il presidente di garanzia si limita a prenderne atto? Saltato il consiglio di amministrazione previsto per domani, forse è il caso che, nel frattempo, Garimberti si faccia sentire, forte e chiaro, per tutelare un bene che è di tutti.

Un segnale ce lo aspettiamo anche da Sergio Zavoli, presidente della commissione di Vigilanza Rai, soprattutto per la grande stima professionale e istituzionale che proviamo per lui. Non si può andare avanti trattando la Rai come spoglie di guerra (per di più di una guerra di bande cui non è estranea la Lega, fino a ieri corifea del «Roma ladrona»). Dei morti si parla sempre bene e quando, giorni fa, è mancato Biagio Agnes tutti a dire che aveva tenacemente difeso l'azienda e garantito il pluralismo. Forse è il caso che Garimberti e Zavoli si facciano lodare anche da vivi.

http://www.corriere.it/editoriali/11_giugno_08/grasso-rai-silenzio-garanti_b66a3de8-9190-11e0-9b49-77b721022eeb.shtml


L’ombra di Tremonti. - di Alessandro De Angelis


Mani legate. Dall’Europa un sostegno alla linea del superministro. Maroni punta sul voto anticipato. Berlusconi: «Così non duriamo». E per blindare palazzo Chigi si converte alle primarie: «Vediamo chi mi sfida». Oggi vertice a palazzo Grazioli. E sul successore di Alfano il Cav colleziona rifiuti.

«Ormai con Tremonti è una sfida aperta, e noi abbiamo le mani legate. Vuole costringerci a cedere, colpo dopo colpo. Punta tutto su uno scenario di emergenza». Lo spettro «Giulio» si materializza quando il premier legge il documento approvato dalla Commissione europea.
Il piano di consolidamento dei conti italiani è credibile fino al 2012, ma richiede ulteriori misure per far fronte a un deficit strutturale, ovvero la manovra da quaranta miliardi che sarà varata entro l’estate. È un sostegno aperto alla linea del rigore che il superministro ha difeso senza esitazioni, pure di fronte alle pressioni della Lega, durante il tormentato vertice di lunedì.
Berlusconi pensa che l’intervento europeo sia in parte autentico, ma in parte anche concordato nella durezza. Non è un mistero che il superministro è considerato un referente affidabile, se non l’unico, di cancellerie e euroburocrati. Ci parla, è ascoltato, ha familiarità con Barroso. E non sarebbe la prima volta che il vincolo esterno viene usato per imporre una politica di lacrime e sangue. Il che rende difficile, quasi impossibile, qualunque discorso sulla riforma fiscale, unico volano di un rilancio possibile: «Ormai - dice un ministro berlusconiano a microfoni spenti - per capire come andrà a finire sul fisco e su tutto il resto serve un veggente o un medium».
Un’ossessione, la manina tremontiana. Che il premier vede ovunque. Del resto i segnali di sostegno alla linea del rigore senza se e senza ma ieri sono arrivati da vari terminali della «rete di Giulio», neanche ci fosse stata una chiamata alle armi. Il presidente della Confcooperative, Luigi Marino, nella sua redazione annuale, ha usato toni da portavoce del Tesoro: «Sulla riforma fiscale si concentrano aspettative irrealistiche come quella di una drastica riduzione delle tasse». Pure Domenico Siniscalco, presidente di Assogestioni, intervistato da Sky, interpreta il documento della commissione europea come un invito a proseguire sulla strada intrapresa, che non consente diversivi. Ecco la sensazione di impotenza, di mani legate. Quel «può succedere di tutto» sussurrato da Berlusconi a più di un ministro mostra che il Cavaliere stavolta ha davvero paura. E non è un caso che nella war room nessuno si sbilancia sulle previsioni in materia di referendum. Per come viene percepito l’esito è comunque negativo per il governo: se non si raggiunge il quorum non cambia nulla, se dovesse essere superato sarebbe una sconfitta del Cavaliere. Che renderebbe possibili gli scenari più foschi.
Perché le rassicurazioni di Bossi sulla tenuta dell’alleanza bastano, ma fino a un certo punto. I sensori berlusconiani hanno intercettato che un pezzo consistente del Carroccio (vai alla voce: Roberto Maroni) ormai punta apertamente al voto nel 2012. E il semplice galleggiare - senza fisco, senza riforme - favorisce la manovra. E favorisce anche una sensazione di smarrimento delle truppe pidielline. Per dirne una, Berlusconi non è ancora riuscito a trovare il nome per il successore di Alfano alla giustizia, per mancanza di disponibilità: «Non ho ancora chiaro chi fare - ha confidato a un fedelissimo - visto che non c’è nessuno che si vuole accollare quel ministero». È una postazione troppo esposta, la prima trincea a sgretolarsi quando cade il Capo.
Tremonti, Maroni, le inceretezze pidielline. Difficile galleggiare a lungo senza un rilancio sull’economia. Per questo il premier ha convocato per oggi capigruppo, triumviri e neosegretario a palazzo Grazioli. Occorre un “piano B”, tutto politico, per blindare la legislatura. Ieri il premier ha cominciato a parlare con Gasparri e Quagliariello di legge elettorale. La proposta, di un premio di maggioranza nazionale al Senato, è stata già depositata: «Con la legge attuale - spiega una fonte vicino al dossier - la golden share ce l’avrebbe il terzo polo, se cambiamo come diciamo noi è vero che la diamo a Bossi ma almeno rafforziamo l’alleanza».
Ma la vera novità è che Berlusconi è diventato un acceso sostenitore delle primarie. Già oggi, al convegno dei «servi liberi e forti» di Giuliano Ferrara, potrebbe lanciarle in grande stile nel suo intervento. E non perché condivide l’afflato democratico, anzi. Riflettendo sul meccanismo ha pensato che potrebbe tornare utile per far uscire allo scoperto i cospiratori, e abbatterli a colpi di voti: «Voglio vedere - è il suo ragionamento - chi ha il coraggio di candidarsi contro di me, quando sarà». E per questo ha ragionato con Quagliariello di rendere le primarie obbligatorie per legge, aggiungendo qualche comma al testo della riforma elettorale. Fissato il metodo, fissato il timing per tenerle, ovvero quattro mesi prima delle elezioni, il Cavaliere avrebbe trovato un modo per rilegittimarsi in vista della corsa a palazzo Chigi. Chissà. Segno dei tempi, proprio quando il Capo si è appassionato al nuovo giocattolo più di un pidiellino che conta è piombato nello sconforto più cupo. Perché il meccanismo era stato pensato per il “dopo” Berlusconi. Se se ne appropria lui, il dopo non inizia mai.




Rai preoccupata per minori introiti il govero studia l'aumento del canone.


Una mossa per recuperare anche i mancati introiti pubblicitari. Possibile l'inserimento nella bolletta elettrica. L'impegno preso dal ministro Romani in una telefonata di congratulazioni.


di CARMELO LOPAPAROMA - E adesso il governo studia l'aumento del canone. Una bella cura da cavallo, stavolta, non l'euro e 50 centesimi del ritocco 2011. Ci sono i costi del servizio pubblico che galoppano, certo, ma dal prossimo anno andrà compensato - tra le altre voci in perdita - anche il mancato introito pubblicitario del prime time del giovedì su Raidue, che con Santoro e Annozero ha garantito dal 2006 incassi a sei zeri.

Quando ieri mattina il ministro alle Comunicazioni Paolo Romani ha chiamato il direttore generale Rai Lorenza Lei per congratularsi del benservito a Michele Santoro, per aver compiuto "con successo" la missione nella quale aveva fallito per due anni l'ex Mauro Masi, l'impegno (verbale) è stato preso. La dg le congratulazioni le ha incassate, ma ha anche esternato tutte le sue preoccupazioni per le prospettive non rosee dell'azienda di Viale Mazzini. E l'ex imprenditore televisivo milanese, vicinissimo al premier, su questo è stato in grado di sbilanciarsi, promettendo un intervento del governo.

Il dossier "canone" è sulla scrivania di Romani. E tra le ipotesi contempla anche la possibilità di agganciarne il pagamento alla bolletta elettrica. Espediente ritenuto utile per combattere l'evasione, che sulla tv è ancora dilagante. Nella stagione televisiva che sta per concludersi, il programma di Santoro ha avuto una media di 5,8 milioni di spettatori, con uno share del 20,71, stando ai dati diffusi dallo staff di Annozero. Garantendo così a Raidue il successo in prima
serata il giovedì: il 12 per cento in più rispetto alla media di rete. Non è un caso, d'altronde, se ieri a Piazza Affari i titoli de La7, la TiMedia, hanno subito un balzo del 17,56 per cento, dopo le indiscrezioni sul passaggio di Santoro alla controllata Telecom. Una crescita del valore delle azioni in Borsa stimato in 29 milioni di euro.

A tutto questo, meglio, al già previsto crollo pubblicitario la Rai chiede al governo di porre rimedio. E l'unica leva sarà appunto il canone (oggi già a 110,50 euro). La pillola amara al contribuente sarà somministrata a fine anno, quando Tesoro e Comunicazioni dovranno annunciare che l'aumento di 1,50 euro del 2011 non è stato sufficiente. Ha permesso d'altronde di incassare 30 milioni di euro in più, poca cosa, appena il 10 per cento rispetto ai 300 milioni di fabbisogno che aveva stimato la dirigenza Rai.

Tutto questo, al momento, al presidente del Consiglio Berlusconi interessa poco, raccontano. Soddisfatto com'è del risultato raggiunto con la liquidazione di Santoro. Anche perché al momento della nomina della Lei, il Cavaliere non aveva fatto mistero con la dg del suo personale auspicio. Suo, ma non di Fedele Confalonieri. Sembra che già ieri il numero uno di Mediaset abbia confidato al vecchio amico di sempre tutte le sue preoccupazioni per i pezzi pregiati che la Rai sta "regalando" a La7, con tutte le ripercussioni che il terremoto dei palinsesti avrà sullo share della tv in chiaro dal prossimo autunno.