domenica 10 luglio 2011

Lodo Mondadori, Cir all'incasso in dieci giorni.


Fininvest studia contromosse. Quagliariello: "Presto una legge sull'esecutività delle sentenze"

FOTO DAL WEB
19:32 - Entro una decina di giorni Cir dovrebbe passare all'incasso, intanto però i legali Fininvest studiano le contromosse. Il giorno dopo il deposito della sentenza con cui la seconda sezione civile della Corte d'Appello di Milano ha condannato la holding del Biscione a versare 560 milioni di euro alla società della famiglia De Benedetti per la vicenda del Lodo Mondadori, gli avvocati del gruppo Berlusconi stanno già impostando il ricorso in Cassazione.
Visto che il provvedimento è immediatamente esecutivo, i legali di Cir invieranno la lettera a Intesa Sanpaolo per chiedere il pagamento del risarcimento non appena otterranno copia autentica dell'atto firmato dai giudici. Presumibilmente entro al fine della prossima settimana o, al massimo, tra dieci giorni.

La banca, capofila di un pool di istituti di credito, nel dicembre 2009, dopo la decisione con cui il Tribunale aveva condannato Fininvest a risarcire 750 milioni, aveva fornito a quest'ultima una fideiussione - rinnovata fino al prossimo ottobre - di 806 milioni nell'ambito di un accordo tra le parti che finora ha "congelato'" il risarcimento.

Intanto il pool di avvocati che segue Fininvest, già domani mattina si riunirà per valutare il provvedimento "per decidere il da farsi". E non si tratta solo di cominciare ad impostare il ricorso in Cassazione, ma di trovare una via per tentare di ottenere la sospensione dell' esecutività immediata della sentenza di secondo grado. Una delle possibilità è quella di presentare al Tribunale un ricorso per bloccare il pagamento a Cir da parte delle banche. Una strada per ora ipotetica, a cui seguirà comunque il ricorso in Cassazione. I legali hanno tempo 60 giorni dalla notifica della sentenza da parte di Cir, ma vista la sospensione per la pausa estiva, i termini si allungheranno almeno fino alla fine di ottobre.

Solo contestualmente al ricorso, come prevede il codice di procedura civile, Fininvest potrà presentare ai giudici d'Appello l'istanza per sospendere l'efficacia del provvedimento di condanna ritenendo che da ciò "possa derivare un grave e irreparabile danno". Ma, se la società della famiglia De Benedetti avrà già incassato il risarcimento, si tratterebbe di un'istanza del tutto inutile e dunque non rimarrebbe che attendere che la Suprema Corte metta la parola fine a questa causa.
"Presto una proposta di legge sull'esecutività delle sentenze"
Intanto il vicepresidente dei senatori del Pdl Gaetano Quagliariello annuncia che "La settimana prossima, il gruppo Pdl al Senato presenterà una proposta di legge sulla sospensione dell'esecutività delle sentenze". La stessa che era stata inserita nella manovra e poi stralciata. ''Presentiamo quel testo e vediamo le reazioni'', afferma Quagliariello, che però esclude che la norma possa essere ''retroattiva'', in modo da riguardare anche la sentenza della Corte d'Appello sul lodo Mondadori che ha condannato Fininvest.
''C'e' stata una polemica sul provvedimento inserito nella manovra - spiega il vicepresidente dei senatori Pdl - Ma ora ci interessa dimostrare che si trattava di una norma che aveva una sua giustificazione di carattere generale e una razionalità di ordine giuridico ed economico. Il resto lo vedremo".



Bot, azioni, fondi: cosa cambia. Ecco i conti con il superbollo. Giuditta Marvelli

La stangata sul risparmio si porta via i magri rendimenti offerti negli ultimi anni dai titoli di Stato.

MILANO - Negli ultimi dodici mesi se gli unici averi di famiglia parcheggiati sul dossier titoli fossero stati diecimila euro investiti in Bot, a casa sarebbero tornati interessi netti sufficienti per due pizze (25 euro). Nel 2012, immaginando che i rendimenti annuali dei Buoni del Tesoro restino fermi dove sono ora (1,5% netto) e che il bollo sul deposito salga a 120 euro, la pizza rischia di diventare singolare (10 euro). E infine, nel 2013, anche l'ultima Margherita potrebbe scomparire. Mangiata non da voi, ma dal superbollo a 150 euro.

PROSPETTIVA - Il condizionale è d'obbligo. Ieri, infatti, il ministro delle Finanze Giulio Tremonti, spiegando i particolari del decreto che contiene la manovra e che è stato firmato dal presidente della Repubblica, ha detto che la stangata sui dossier titoli non è un dogma. L'imposta - che oggi ammonta a 34,20 euro l'anno per tutti coloro che ricevono l'estratto conto delle loro posizioni in titoli e che nel 2013 è destinata a ultra decuplicare (380 euro) per chi ha più di 50 mila euro e a crescere di quattro volte abbondanti (150 euro) per chi resta sotto i 50 mila - potrebbe anche essere modificata. Ma solo se si troverà un modo migliore - impresa non certo facile - per portare a casa gli 8 miliardi di gettito assicurati dalla misura, che riguarda 10 milioni di conti: la metà, circa delle famiglie italiane.

I COSTI - Aspettando le eventuali novità, ecco allora qualche ragionamento, chiavi in mano, per farsi un'idea. Cominciamo dal presente. I numeri del 2011 si riferiscono al rendimento effettivo totalizzato nell'ultimo anno dai Bot (0,8%) e dalle azioni (9% circa), dividendi compresi. Il risparmiatore più povero (10.025 euro in Bot) e quello più abbiente (109.736 euro in azioni) si trovano con queste cifre dopo aver pagato il bollo da 34 euro, le tasse (12,5%) e il costo della tenuta titoli che, per chi possiede solo titoli di Stato brevi, è pari in media a 30 euro e per chi invece ha anche le azioni raddoppia a 60.

LE INCOGNITE - E nei prossimi due anni che cosa succederà? Nessuno può dire né dove andranno i tassi - oggi il mercato si aspetta un ulteriore ritocco all'insù dello 0,25% da parte della Bce - né che cosa succederà in Borsa. I conti, quindi, sono stati fatti tenendo fermi gli ultimi due dati disponibili: il rendimento dei Bot annuali che nel frattempo è raddoppiato (1,5% netto a metà giugno) e il 9% (sempre dividendi compresi) registrato in Borsa da giugno 2010 ad oggi. Ed ecco il quadro: nel 2012 il Bot people da 10.000 euro a fine corsa si trova con dieci euro in tasca. In teoria ha comprato un titolo che rende il doppio di quello precedente, ma il superbollo da 120 euro spazza via (quasi) tutto. E peggio va nel 2013 quando sul suo 1,5% netto verrà caricata l'imposta da 150 euro e si ritroverà con 9.977 euro. Chi possiede 50 mila euro di Bot, invece, riesce ad ammortizzare meglio la botta del superbollo e a vedere l'effetto dei tassi più elevati: nel 2012, al netto di bollo da 120, imposte e spese tenuta dossier, si ritrova con 637 euro che scendono a poco più di 600 nel 2013. Rispetto al 2011, quindi, gode di un interesse (calante ma sempre positivo) superiore a 200 euro.

BOLLO E AZIONI- Decisamente più impegnativo, invece, l'effetto combinato del super bollo e della riforma fiscale sulle azioni. Per i Bot infatti, fatta salva l'incidenza dell'imposta sul dossier titoli, il 12,5% resterebbe fisso. La legge delega, presentata insieme alla manovra, chiarisce che i titoli di Stato non verranno toccati dal provvedimento che dovrebbe uniformare al 20% le sorti fiscali di azioni, corporate bond, conti correnti, depositi bancari e altri strumenti. Per le azioni, quindi, ipotizzando che nel 2012 entri in vigore l'aliquota unica sui redditi da capitale, i minori guadagni rispetto al 2011 dovuti al maggior peso delle imposte vanno da 170 euro (investimento azionario da 10 mila euro nel 2012) ai 1.100 abbondanti registrati da chi possiede centomila euro di azioni nel 2013. In questo caso infatti, per chi volesse passare all'incasso del capital gain, l'aliquota non sarà più del 12,5% ma del 20%, mentre il bollo - sempre che le cose non cambino - arriverà a 380 euro. A parità di rendimento, quindi, se nel 2011 il piccolo azionista è arrivato a fine corsa incassando una plusvalenza netta di 9.736 euro, nel 2013 il suo bottino finale potrebbe scendere a 8.550.

OPZIONI - Cambierà qualcosa o i conti sono questi? Il cammino della manovra con bollo è appena cominciato. Resta da vedere se arriverà in porto così, costringendo gli italiani a interrogarsi sul futuro. A capire se è meglio abbandonare dossier titoli modesti e pieni solo di titoli di Stato per migrare su depositi on line e prodotti assicurativi, che risolvono alla radice il problema. Oppure se è conveniente considerare l'opzione dei fondi comuni, che molte banche infilano nei dossier per praticità ma che potrebbero benissimo essere detenuti - a differenza di Bot & C - senza bisogno di deposito.



Consob al lavoro contro la speculazione Ue, riunione sul debito dell’Eurozona.


La Commissione si riunirà in serata per fare il punto della situazione alla vigilia della riapertura dei mercati e dopo lo scorso 8 luglio, ormai noto come "il venerdì nero". Non è escluso, un provvedimento restrittivo sulle vendite allo scoperto in base a quanto già in vigore in altri paesi europei.


La Consob corre ai ripari. Dopo lo scorso 8 luglio, ormai noto come “il venerdì nero”, la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa si riunisce in serata per fare il punto della situazione alla vigilia della riapertura dei mercati e per adottare misure di contrasto alla speculazione ribassista.

Le banche italiane sono state l’oggetto principale degli attacchi, anche se il numero uno di via Nazionale, Mario Draghi, è intervenuto con parole rassicuranti per dirsi certo che gli intermediari nazionali supereranno – e “con un margine significativo” – gli stress test europei grazie alla loro adeguata capitalizzazione. Tra le misure che la Consob potrebbe intraprendere, non è escluso un provvedimento restrittivo sulle vendite allo scoperto (un’operazione finanziaria che consiste nella vendita di titoli non direttamente posseduti dal venditore, ndr) in base a quanto già in vigore in altri paesi europei. Un “consiglio” che arriva anche da Lamberto Cardia, a capo della Commissione dal 2003 al 2010: “Le vendite allo scoperto in presenza di una situazione di grave crisi andrebbero totalmente vietate per il periodo necessario o al massimo consentite nell’ambito della giornata”, ha detto oggi l’ex presidente.

La Consob già in passato era intervenuta sulle vendite allo scoperto dopo il panico sui mercati generato dal crac Lehman Brothers. Dopo Sec e Fsa, infatti, anche la Commissione italiana di vigilanza sui mercati avviò nell’autunno 2008 un deciso giro di vite sulle vendite allo scoperto deliberando, in quell’occasione, che la vendita di azioni di banche e imprese di assicurazioni quotate nei mercati regolamentati italiani e qui negoziate “dovesse essere assistita dalla disponibilità dei titoli da parte dell’ordinante al momento dell’ordine e fino alla data di regolamento dell’operazione”. In questo modo di fatto veniva impedita la pratica di vendita allo scoperto su quei particolari settori oggetto di attacco speculativo, che consiste appunto nella cessione di titoli che non sono materialmente in possesso del venditore.

L’intervento dell’Unione europea. Intanto il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, ha convocato una riunione di emergenza per domani mattina per discutere della crisi del debito nell’Eurozona. Smentita dallo stesso Van Rompuy, la voce che gli attacchi speculativi all’Italia siano oggetto dell’incontro, al vertice prenderanno parte il presidente della Commissione europea,Jose Manuel Barroso, il presidente della Bce Jean-Claude Trichet e quello dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker. Al centro del summit sarà la discussione sul secondo pacchetto di aiuti alla Grecia. All’incontro, proseguono le fonti, è stato invitato anche il commissario europeo agli Affari economici e monetari Olli Rehn.




La speculazione che verrà. - di Superbonus


Le tensioni sul debito non dipendono ancora dai fondi speculativi ma dai grandi investitori preoccupati per la tenuta dei conti dell'Italia e per la crisi politica.


I mercati, la Bce e i politici non parlano più lo stesso linguaggio. Ci ha provato Mario Draghi venerdì a chiedere una tregua con una dichiarazione irrituale a mercati aperti: “Le banche italiane sono solide e la manovra finanziaria è un importante passo avanti”. Ma anche lui ha usato un linguaggio antico per investitori che già provano a immaginarsi un mondo dopo l’euro.

I trader che venerdì per tutto il giorno si sono scambiati opinioni e informazioni sanno che il capitale della più solida istituzione europea copre a stento il 10 per cento dell’attivo e che i passi avanti non bastano: le finanze pubbliche andrebbero risanate subito con tagli immediati. Il comunicato di Palazzo Chigi “la manovra finanziaria sarà approvata entro luglio” alle orecchie degli operatori come una barzelletta mentre lo spread dei Btp decennali raggiungeva il 2,40 per cento aumentando dello 0,70 in una settimana. Una “barzelletta”, una “commedia”, queste sono le parole più usate da chi con un click del mouse può vendere o comprare 100 milioni di Btp. Sono i market maker che macinano profitti o perdite anticipando gli ordini dei “real money”, fondi e compagnie assicurative che comprano per detenere i titoli, per offrire ai propri clienti rendimenti sui prodotti finanziari collocati al pubblico.

Più di un market maker si è lamentato venerdì sera di non aver realizzato abbastanza profitti: a inizio giornata tutti avevano venduto Btp alle poche banche italiane che acquistavano con lo spread al 2,20 per cento. Ma intorno al 2,30 per cento si erano ricoperti vendendo Bund pensando che fosse finita. E invece sul più bello sono arrivati i grossi fondi tedeschi e americani a scaricare i Btp, complici i dati sulla disoccupazione Usa che lasciano presagire un rallentamento della crescita mondiale. Quindi una minor crescita dell’Italia e una maggior difficoltà nel ripagare il debito. La cattiva notizia è che gli speculatori veri, gli hedge fund che comprano e vendono a soli fini speculativi non hanno ancora venduto. Solo un paio erano come si dice in gergo “corti”, avevano cioè venduto allo scoperto (senza averli mai comprati) i Btp.

Il meccanismo perverso della speculazione ancora non si è messo in moto, le vendite sono nella maggior parte reali. L’Europa e l’Italia non sono affidabili, hanno avuto innumerevoli aperture di credito dagli operatori in quest’ultimo anno, la Grecia il Portogallo e l’Irlanda sono problemi che un establishment che ha perso completamente il senso del pericolo. E ora i nodi vengono al pettine sia per la Spagna sia per l’Italia.
Chi ha perso soldi credendo che si sarebbero risolte le situazioni debitorie più problematiche non è disposto a perderne altri. E si allontana da tutto quello che è troppo rischioso, troppo indebitato o troppo difficile da capire. Ci sono altri mercati e altri Paesi dove allocare la ricchezza: una famosa società di gestione del risparmio organizza a Milano lo Yuan Happy Hour presentando i suoi nuovi prodotti in valuta cinese, altro denaro che se ne va, altri flussi di real money che non torneranno a comprare i Btp.

C’è qualcuno che in mezzo a ogni bufera invoca nuove regole contro gli speculatori, venerdì lo ha fatto l’onorevole Francesco Boccia del Pd che voleva vietare la vendita dei Credit defaults swap(Cds, le assicurazioni sul rischio di fallimento dei paesi): la notizia apparsa fugacemente su Bloomberg mentre lo spread fra Btp e Bund aveva appena toccato il massimo storico del 2,47 per cento ed i Bonos spagnoli addirittura il 2,82 per cento ha provocato una nuova ondata di ilarità. I Cds non c’entrano niente: chi vende allo scoperto lo fa prendendo in prestito i Btp da altri, per lo più assicurazioni, e restituendoli dopo aver lucrato fra il prezzo di vendita ed il prezzo di riacquisto.

Per fermare le vendite allo scoperto bisognerebbe proibire i pronti contro termine, (o REP0), impossibile perché tutto il sistema si basa su questo strumento, la stessa Bce quando eroga denaro alle banche lo fa sulla base di un prestito titoli. Ma proprio questo comprensibile errore è la cartina di tornasole di due mondi che non parlano più la stessa lingua: i regolatori gridano alla speculazione, gli operatori chiedono soluzioni che non arrivano. Nella conferenza stampa di giovedì il presidente della Bce Jean Claude Trichet, interrogato sulle soluzioni per il debito dei Paesi in crisi, ha risposto: “Non chiedete a me, chiedete ai governi, noi ci occupiamo di stabilità dei prezzi e della moneta”.

Se si vuole fermare la caduta, non chiedete di farlo agli operatori finanziari: loro si occupano di fare profitti non di salvare gli Stati.




Big Pharma: truffe e bugie sulla nostra salute.





Un regno che affonda in un mare di scandali. - di EUGENIO SCALFARI





LA FINE d'un regno ha sempre un andamento drammatico e talvolta addirittura tragico. Pensate a Macbeth e a Lear ma anche a Hitler e a Mussolini, dove la realtà sembra imitare i vertici della letteratura.
Talvolta però alla cupezza del dramma si accompagna la sconcia comicità della farsa; sconcia perché inconsapevole e quindi cupa e drammatica anch'essa. Vengono in mente alcuni comprimari del fine regno berlusconiano: Brunetta, Gasparri, La Russa, Quagliariello, Sacconi, Ghedini, Prestigiacomo, Gelmini, Alfano e il suo partito degli onesti. Con Calderoli siamo al culmine della comicità inconsapevole, a cominciare da come si veste e da come cammina: non è un pavone che esibisce la sua splendida ruota e neppure un tacchino con i suoi bargigli, ma ha piuttosto l'andare del gallinaccio, il più sgraziato dei pennuti.
Bossi no, non è comico ma profondamente drammatico: un leader lucido e sensibilissimo a cogliere gli umori della sua gente, cui la malattia aveva addirittura conferito un di più, quella parlata inceppata, quei gesti di una volgarità voluta, quella faccia segnata ma non rassegnata: così era stato fino a un anno fa, ma poi il vento è cambiato anche nella Lega e il Senatur ha cominciato ad annaspare. Ora sembra un timoniere senza bussola e senza stelle che procede alla cieca in una fitta foschia mentre infuria lo scontro per la successione.

Il dramma di Berlusconi è ancora più complesso ed enigmatica la sua comicità. A volte è anche per lui
inconsapevole e quindi oscena come nel caso della nipote di Mubarak. Ma poi usa consapevolmente quella stessa comicità, la trasforma in barzelletta con la quale strappare al suo pubblico una risata e un applauso con la duplice intenzione di dimostrare la sua autoironia e la sua calma nella tempesta. A volte però la barzelletta non piace, non provoca la risata liberatoria ma un assordante silenzio e in lui sempre più spesso emerge la sindrome della solitudine, del tradimento, della congiura.

Leggendo l'altro ieri la sua intervista a "Repubblica" tutti questi passaggi sono chiarissimi: c'è la stanchezza d'un leader che preannuncia il suo futuro di padre nobile, il disprezzo verso i nemici esterni, l'ira verso i traditori interni, la volontà di mantenere il potere attraverso i figliocci da lui delegati. Infine il colpo di teatro d'affidare il lascito testamentario ad un giornale da lui attaccato, vilipeso, ingiuriato.

E Tremonti? Qual è la parte di Tremonti in questo fine regno sempre più incombente?
Ha appena varato una manovra finanziaria che avrebbe dovuto mettere al sicuro i conti pubblici e il debito sovrano, ma proprio nei giorni del varo i mercati sono stati scossi da una speculazione che ha il nostro debito, le nostre banche, i nostri titoli, come bersagli primari. Invece di rafforzare la stabilità del governo e della maggioranza la manovra ha aumentato le crepe diventando a sua volta un fattore di instabilità.
Potrà in queste condizioni il ministro dell'Economia restare al suo posto? Potrà reggere al dibattito parlamentare che si annuncia estremamente difficile?

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La storia - lo sappiamo - non si fa con i se, ma i se a volte ci aiutano a capir meglio i fatti che sono realmente avvenuti. Dove saremmo oggi se il 14 dicembre del 2010 Berlusconi non avesse avuto la fiducia?
Il governo sarebbe caduto, il Presidente della Repubblica avrebbe aperto le consultazioni e molto probabilmente avrebbe nominato un nuovo governo, un nuovo presidente del Consiglio, un nuovo ministro del Tesoro. I nomi non mancavano ed erano tutti di primissimo piano, da Mario Monti a Mario Draghi. I mercati sarebbero stati ampiamente rassicurati da quei nomi e dalla loro politica.
Purtroppo non andò così. Oggi i mercati stanno attaccando i titoli pubblici emessi dallo Stato e i titoli delle banche; il rendimento dei buoni del Tesoro decennali è salito al 5 e mezzo per cento, lo "spread" rispetto al Bund tedesco a 2,48.

Nel frattempo ieri mattina la Corte civile d'appello di Milano ha condannato la Fininvest, nel processo di secondo grado sul Lodo Mondadori, a pagare alla Cir di Carlo De Benedetti 560 milioni di euro. Si tratta d'una sentenza che fa giustizia in sede civile d'uno dei più gravi reati che il nostro codice penale contempla: la corruzione di magistrati. Quel reato fu accertato con sentenza definitiva ma Berlusconi ne fu tenuto fuori perché per lui erano decorsi i termini della prescrizione.
Restava tuttavia il diritto della parte lesa al risarcimento del danno e a questo ha provveduto la sentenza di ieri. Essa certifica che l'impero editoriale del presidente del Consiglio è fondato su un gravissimo reato penale. Noi l'abbiamo sempre saputo e sempre detto e questo è per noi il valore politico e morale della sentenza di ieri.

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Ribadito che la reazione negativa dei mercati è motivata principalmente dall'implosione della maggioranza di centrodestra, occorre tuttavia esaminare la manovra nella sua impostazione politica e tecnica, ambedue estremamente manchevoli.
Il ministro dell'Economia aveva inizialmente spacchettato i tempi dell'operazione: per l'esercizio in corso un intervento di un miliardo e mezzo, di semplice manutenzione. Nel 2012 cinque miliardi e mezzo e tanto bastava secondo il calendario concordato con l'Ue. Il grosso nei due esercizi successivi, 20 miliardi in ciascuno di essi per azzerare il deficit nel 2013 e per realizzare il pareggio del bilancio nel 2014. In totale 47 miliardi, ai quali bisognava aggiungerne circa 32 utilizzati nel 2009-2010 per mettere i conti pubblici in sicurezza.
Sembrò che queste operazioni fossero sufficienti e che il loro risultato finale segnasse il pieno successo di Tremonti e per riflesso del governo di cui egli è il perno economico. Mancavano in questo quadro di rigore finanziario, interventi destinati alla crescita del prodotto interno lordo, ma il superministro non mostrava di preoccuparsene. La crescita sarebbe venuta al momento opportuno. Protestavano le imprese, protestavano i sindacati, protestavano le organizzazioni dei commercianti e dei consumatori e protestavano anche Berlusconi e Bossi, ma Tremonti restava fermo e sicuro con l'appoggio dell'Europa e - così sembrava - anche dei mercati.
Ma poi le cose sono radicalmente cambiate e una realtà del tutto diversa è venuta a galla. Fermo restando lo spacchettamento temporale, si è venuti a sapere che Tremonti aveva effettuato un altro tipo di spacchettamento: la manovra vera e propria non era di 47 miliardi ma soltanto di 40; di questi, 25 erano contenuti nel decreto firmato quattro giorni fa da Napolitano (dopo che era stata ritirata la vergognosa norma mirata a bloccare la sentenza sul Lodo Mondadori). Altri 15 miliardi sarebbero stati invece reperiti con la legge delega per la riforma fiscale, che dovrà anch'essa esser votata dal Parlamento nelle prossime settimane o nei prossimi mesi.

È proprio la riduzione della manovra che ha indotto Giorgio Napolitano nel momento in cui firmava il decreto a indicare la necessità di ulteriori interventi da prendere al più presto possibile. Senza ancora entrare nel merito, la criticità che ha allarmato i mercati si deve soprattutto a quei 15 miliardi affidati alla legge delega. Dovrà essere approvata dal Parlamento e dovrà poi confrontarsi, nel momento di emettere i decreti delegati, non solo con l'apposita commissione bicamerale ma soprattutto con la conferenza Stato-Regioni. E poiché la parte più rilevante dei 15 miliardi da reperire è prevista proprio a carico delle Regioni e degli Enti locali, è facile prevedere che il negoziato sarà lungo e molto complesso.
La reperibilità e la tempistica restano dunque i punti interrogativi che difficilmente saranno risolti nel prossimo esercizio.
Quanto al merito, la manovra da 25 miliardi e la riforma fiscale per reperirne altri 15 poggiano, come ha più volte osservato Bersani, su prelievi a carico del sociale: il taglio dei contributi agli Enti locali, le maggiori imposte territoriali, il peggioramento dei servizi, il potere d'acquisto delle famiglie, la mancata rivalutazione delle pensioni, i giovani disoccupati, l'età pensionistica delle donne.

Se si dovesse definire con due parole il significato politico di questa imponente operazione, di cui uno degli interventi principali è l'imposta sui titoli depositati nelle banche, si dovrebbe definirla una manovra di classe. Forse questo piacerà al Pdl e per alcuni aspetti anche alla Lega, ma certo non piacerà alle opposizioni e soprattutto a quelle fasce sociali che si sono manifestate nelle recenti elezioni amministrative e nel voto referendario.

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L'ultimo capitolo che marca il fine regno berlusconiano è la marea degli scandali che coinvolge due eminenti deputati del Pdl, Alfonso Papa e Marco Milanese, un ministro di recente nomina, quel Saverio Romano sul quale il Presidente della Repubblica nell'atto di firmare il decreto di nomina voluto da Berlusconi indicò un possibile impedimento giudiziario che in quel momento era soltanto potenziale ma che ora è diventato di stringente attualità perché a suo carico è stato formalizzato dal Tribunale di Palermo un mandato di cattura per associazione mafiosa.
Papa, Milanese, Romano sono i tre terminali sui quali stanno lavorando le Procure di Napoli, Palermo e Roma e che riguardano appalti, nomine in alcune imprese di natura pubblica, dazioni di danaro, gioielli, automobili di altissimo pregio, immobili, informazioni riservate ed usate per ricatti e vere e proprie estorsioni.
Il centro di alcuni di questi scandali e di questi reati è la Guardia di finanza e il suo Comando generale. Il ministro dell'Economia, ascoltato di recente come testimone dalla Procura di Napoli, ha addirittura ammesso che esistono due cordate nella Guardia di finanza che operano per favorire due diversi candidati alla nomina di comandante generale.

Tremonti del resto è coinvolto in pieno dallo scandalo Milanese; un uomo che è al suo fianco dal 2005 e che è stato colto con le mani nel sacco per decine di reati, ricatti, uso di informazioni riservate. Di tutto ciò il ministro garantisce di non essere mai stato al corrente. Delle due l'una: o il ministro non dice il vero oppure la sua dabbenaggine nella scelta dei collaboratori rasenta un livello tale da minare la sua credibilità.
In questa situazione sarebbe estremamente urgente che il Partito democratico producesse una seria proposta alternativa di politica economica, di politica istituzionale e di legge elettorale. Bersani si era impegnato a farlo subito dopo le elezioni del maggio scorso, ma quella promessa non è stata mantenuta, si è restati nel vago di dichiarazioni che non descrivono una politica nella sua completezza e concretezza.
Il Pd rischia di perdere un'occasione storica per ridare un ruolo al centrosinistra e al riformismo. Viene da dire - insieme alle donne italiane di nuovo mobilitate - se non adesso, quando?


Se non ora quando. di Alberto Capece Minutolo.


No, non parlo di Siena dove secondo la buona novella dovrebbe nascere il nuovo femminismo, con l’apporto di fascistone tipo Perina e Bongiorno, cattoliche come la Bindi, o sindacaliste come la Camusso, appena sbarcata dall’aver dato un sonoro colpo al lavoro femminile, assieme alla cara Marcegaglia. Più che altro è l’apoteosi di un maschilismo crossgender, di un’area di privilegio che si autoreferenzia sulla carta stampata.

Il se non ora quando lo dico piuttosto all’opposizione e al suo maggior partito. Se non ora quando è tempo di presentare in Parlamento e al Paese una manovra economica alternativa che sia meno iniqua e oltretutto più credibile agli occhi del mercato? Se non ora quando è tempo di far capire al proprio elettorato, già deluso nei giorni scorsi, che l’opposizione è pronta a governare e si batterà perché al Berlusconi indecente non subentri un Berlusconi presentabile, ma pur sempre un Berlusconi? Se non ora quando l’opposizione vorrà dissipare l’orrenda sensazione di avere i cassetti vuoti perché prima di riempirli si deve decidere sulle alleanze centriste e quindi non si può osare dire qualcosa di sinistra?

Oppure si aspetta che la situazione divenga così drammatica da imporre un governo di unità nazionale che bastoni i ceti popolari perché ovviamente con certi compagni di strada, anzi di camarilla sarebbe sconveniente affrontare il tema dell’etica civile, dell’evasione ormai insopportabile, del precariato, del welfare?

Se non ora quando sarà il momento di affrontare questi problemi? Oppure si sta aspettando che vi siano le quote del coraggio politico e dell’intelligenza? Se non ora quando si capirà che proprio la mancanza di un’alternativa, in un Paese ormai diviso per bande, è il fattore di maggiore instabilità per la tenuta dell’economia? E se non ora quando si capirà che la prosecuzione del berlusconismo con tutto il peso dei mille conflitti d’interesse, con la devastazione dell’erario, con un sistema premiale della cialtroneria, è l’immagine peggiore che si possa dare ai mercati?

Ma ho una paura, che l’eco di questa richiesta non certo mia, ma che sale dal Paese, ritorni deformata, rimbalzata da un muro di gomma e suoni Se e Quando, ma non ora.

http://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2011/07/10/se-non-ora-quando/