venerdì 22 luglio 2011

Napolitano: “I magistrati siano inappuntabili per evitare attacchi inammissibili”.


Il presidente della Repubblica sulla situazione politica: "Nessuno può negare serva ancora coesione". Nuovo ministro della Giustizia? "Pare non siano pronti."


I magistrati devono essere “inappuntabili” in modo da vanificare “attacchi inammissibili alla magistratura”, disinnescando così “un fuorviante conflitto” con la politica. Lo ha detto GiorgioNapolitano, durante la cerimonia del Ventaglio al Quirinale. Parlando dei temi della giustizia, il presidente della Repubblica ha fatto riferimento al discorso da lui tenuto ieri ricevendo i giovani nuovi magistrati in tirocinio.

Il capo dello Stato ha respinto alcune letture di quel discorso che vi hanno visto una volontà di ridimensionare il ruolo di magistrati. “Ma più di qualche commento polemico – ha aggiunto Napolitano – di difensori d’ufficio della magistratura, mi interessa l’apprezzamento che è venuto da numerosi suoi autorevoli esponenti. Da parte della sua stessa Associazione rappresentativa si mostra di ben comprendere i miei richiami, d’altronde ben noti in quanto costanti e coerenti negli anni”. “Ho richiamato – ha sottolineato ancora il presidente della Repubblica – a comportamenti che non offuschino la credibilità e il prestigio dei magistrati e non indeboliscano l’efficacia dei loro interventi a tutela della legalità”. Napolitano ha quindi citato una frase del presidente dell’Anm che ha esortato i magistrati ad essere “inappuntabili e professionali”. “Anche così – ha chiosato Napolitano – si vanificano attacchi inammissibili alla magistratura e si disinnesca un fuorviante conflitto tra polita e magistratura”.

Nuovo ministro della Giustizia – Ala domanda su quando avremo il nuovo ministro della Giustizia, il Capo dello Stato ha risposto: “Io non ho visto nessuna lista di nomi. So solo che una lista di 12 candidati è arrivata ai giornali. Io non ho dato nessun avallo per rinviare la nomina a settembre. Ho detto che sono pronto in qualsiasi momento”, ha detto Napolitano a margine della cerimonia del Ventaglio. “Mi sembra – ha aggiunto – che non siano pronti loro, che abbiano altri problemi. L’unica cosa che ho raccomandato è di evitare l’effetto domino che si creerebbe prendendo qualcuno dal governo per nominarlo Guardasigilli. Sarebbe meglio prendere dal Parlamento”.

Coesione nazionale – Con l’approvazione ”rapidissima” in Parlamento della manovra finanziaria, l’Italia ha dato “una prova di coesione nazionale, una prova che si doveva dare per mostrare la consapevolezza degli obiettivi da perseguire”, ha detto il presidente della Repubblica. Il capo dello Stato ha aggiunto che “molto resta da fare” in Italia ed in Europa “in una logica di condivisione di rischi e di necessità di azione comune che si è affermata nel Consiglio di ieri a Bruxelles. Ci si è mossi nella direzione in cui molti, ed io stesso, avevamo auspicato che si procedesse risolutamente”.

”Mi chiedete se serve ancora un impegno di coesione? Non so chi potrebbe negarlo”, ha detto Napolitano ed ha spiegato ancora una volta cosa intende con questo richiamo. ”Lo intendo non come rinuncia – ha proseguito Napolitano – da parte di qualche forza politica o sociale alle proprie ragioni ed impostazione, né come passaggio fortunoso o obbligato da piattaforme nettamente contrastanti ad un programma unificante. Il punto è riconoscere la complessità e gravità dei problemi che si sono accumulati e che pongono a rischio il futuro del Paese ed il suo ruolo in Europa; escludere competizioni perverse sul terreno della dissimulazione, della sdrammatizzazione e del populismo demagogico, aprirsi ad un confronto serio”. “Confrontarsi in questo spirito sia sul rigore per azzerare il deficit di bilancio ed abbattere lo stock di debito pubblico, sia su uno strenuo sforzo per elevare il tasso di crescita della nostra economia. Più in generale – ha concluso – sul come perseguire obiettivi essenziali di revisione e di riforma, anche al di fuori del campo economico e finanziario, di molteplici realtà istituzionali, amministrative e sociali”.

“No a interpretazioni fantaistituzionali” – Il presidente della Repubblica ha tenuto a chiarire che non intende dare giudizi sull’effettiva stabilità e capacità decisionale del quadro politico. E ha poi voluto smentire le recenti ricostruzioni apparse sulla stampa sul suo ruolo nel passaggio della manovra parlamentare. “Ho considerato che fosse mio dovere porre decisamente questa esigenza, senza tenere alcun conto delle convenienze dell’una o dell’altra parte politica, e senza invadere o occupare alcuno spazio o ruolo che non fosse il mio. Non c’è nulla di serio in certe interpretazioni dietrologiche o fantaistituzionali del mio operato”.

I costi della politica – Il presidente della Repubblica è intervenuto anche sul tema dei tagli ai costi della politica. “Rispetto alla spesso indiscriminata agitazione che raccoglie ed esaspera comprensibili insofferenze ma anche pericolosi umori antidemocratici, io auspico da tempo – ha detto – decisioni di alleggerimento e semplificazione dell’architettura istituzionale oltre che tangibili correzioni sul piano del costume politico”. “In particolare, suggerisco ora – ha aggiunto Napolitano – di valutare con obiettività e con attenzione le misure che stanno per essere adottate dagli organi costituzionali”.




Italia soffocata dalla Casta, Merlo: “Non bastano i tagli, serve una rivoluzione”. - di Thomas Mackinson


Intervistato dal Fattoquotidiano.it, l’economista che ha scoperto la formula della mediocrazia non usa mezzi termini: “I tagli annunciati dal governo sono un contentino, qui serve una rivoluzione istituzionale che un governo delegittimato come quello attuale non farà mai”. Lo dice anche la matematica.


Antonio Merlo

L’Italia è una Repubblica fondata sulla mediocrità, una “mediocracy”. E’ un sistema di rappresentanza che premia sistematicamente i peggiori, neutralizza le spinte al cambiamento, seleziona e premia i rappresentati in funzione della fedeltà al capo o al partito e trasforma i rappresentati in eterni sconfitti. E’ la legge fondamentale della Casta, un blocco di potere che usa le istituzioni per riprodurre e mantenere se stesso, massimizzando i propri benefici personali e non l’interesse nazionale.Antonio Merlo, direttore del dipartimento di Economia della Pennsylvania University è riuscito a trascrivere questi concetti in una formula matematica complessa che aggiunge al dibattito sulla casta parametri e valori che appartengono al mondo rigoroso e definitivo dei numeri, non a quello variegato e influenzabile delle opinioni.

Perché usare la matematica per studiare la casta?

“In realtà io volevo capire come si formano le carriere dei parlamentari italiani applicando le stesse nozioni che si usano in economia per studiare i comportamenti e le regole dei gruppi di lavoro di qualsiasi settore. E la matematica ci dice che in Italia gli incentivi a intraprendere una carriera politica sono cambiati tra la prima e la seconda Repubblica: oggi portano in parlamento una ceto politico qualitativamente peggiore del passato. Perché nella mediocracy si punta a candidare non chi assicura le migliori performance all’elettore ma all’organizzazione che li ha nominati, in altre parole non conta quanto sei bravo e apprezzato ma quanto sei disposto a tenere in vita il sistema. La matematica può rappresentare e riprodurre questo concetto complesso con il rigore dei numeri, senza il rischio delle deviazioni e delle variabili tipiche del linguaggio discorsivo e della dialettica politica”.

Ma quel’è il meccanismo alla base della mediocrazia?

“A differenza di quanto avviene nelle imprese di mercato l’incentivo è differito nel tempo e nella quantità. In pratica chi lavora per i partiti non viene ricompensato a dovere e nell’immediato per il suo impegno ma con una promessa tacita o esplicita di una carica elettiva o di una poltrona (di cui si è certi) e ben retribuita. Un congruo indennizzo alla fedeltà. Questo incentivo determina una selezione della classe dirigente di basso profilo che non è funzionale al Paese ma al partito che vota compatta per sostenerlo. Non a caso abbiamo il record di parlamentari non laureati ma gli stipendi più alti di sempre. Non a caso assistiamo a leggi vergognose per qualunque altro cittadino. L’Italia oggi è la regina indiscussa della mediocrazia che è la legge di equilibrio che tiene insieme il sistema della Seconda Repubblica, quella in cui governano i mediocri”.

Tagli agli stipendi, dimezzamento dei parlamentari. Forse siamo a una svolta…

“Alcune voci della bozza Calderoli sono condivisibili ma è forte il rischio che restino annunci o misure di facciata senza alcuna speranza di incidere sulla realtà. Mi spiego. L’Italia ha un duplice problema. E’ una mediocrazia e quindi ha tutti i difetti della casta al potere, con persone mediocri chiamate a decidere sulle leggi. Proprio per questo sono poche le speranze di un’azione riformatrice davvero efficace. La bozza non tocca il cuore del problema ma lo copre dietro a degli annunci ad effetto”.

Perché non crede agli annunciati tagli?

“Perché non c’è una volontà politica seria di metterli in pratica subito e con rigore come si vuole far pensare sull’onda emotiva dell’antipolitica. Lo dicono le date del provvedimento che si vuole approvare a giorni. Al di là del merito dei singoli tagli, gli interventi sono stati differiti deliberatamente alla prossima legislatura. In quella attuale non cambia nulla. I parlamentari si tengono i loro privilegi e questa scelta indica in realtà la volontà di incentivare il più possibile la durata del governo in carica, senza incidenti d’aula e con il voto compatto anche i fronte a provvedimenti che per qualsiasi cittadino di buon senso sarebbero inaccettabili”.

Cosa bisognerebbe fare per avere una moderna democracy?

“Bisognerebbe che la attuale classe dirigente facesse un passo indietro o i cittadini elettori uno in avanti. Una strada potrebbe essere quella di una costituente che richiami intorno a un tavolo le forze politiche, i giuristi, gli economisti insomma il meglio del Paese per coglierne i segnali e ridisegnare le strutture della democrazia a partire dai meccanismi di selezione della classe politica. Un sistema proporzionale uninominale toglierebbe ai partiti la certezza di governare e rischiando di perdere anche per un solo voto si troverebbero incentivati a candidare le personalità migliori e non degli yesman”.

Ma se questa è la mediocracy all’italiana, Berlusconi chi è?

“Lui è una star. Sulle sue doti non ci sono dubbi. Ma da un punto di vista strettamente analitico manca delle qualità necessarie a un leader per rispondere ai bisogni dei suoi cittadini. Non ha l’onestà, la conoscenza e il rispetto delle istituzioni e della politica. Ha massimizzato gli effetti negativi della mediocracy creando un intero Parlamento di eletti di scarso valore che, in quanto tali, lo seguono e votano a prescindere dall’interesse nazionale e dei loro elettori”.

Che funzione svolgono in una mediocrazia i faccendieri e i corrotti d’Italia?

“I lobbisti ci sono sempre stati. Ci sono anche negli Usa dover però sono sottoposti a regole ferree, hanno perfino un albo e se sgarri vai in galera. In Italia il lobbista è funzionale a ricomporre quella asimmetria non limpida tra i meccanismi e le richieste dell’economia reale e quelli della politica che funziona allo stesso modo ma ha sostituito al compenso in denaro l’assegnazione di cariche elettive e benefici. E’ un sistema premiale di favori che sfugge al controllo, fa lievitare i costi della politica e svolge una funzione di stampella a un sistema vecchio e malato”.

Ma la mediocracy è arrivata al tramonto o può ancora peggiorare?

“Non direi. La democrazia rappresentativa corre un rischio altissimo perché è al centro di due opposte tendenze. Quella del Paese che chiede di cambiare le regole e la qualità della classe politica e la classe politica di governo che segue gli incentivi utili a resistere al cambiamento, a garantire ad ogni costo la durata massima della legislatura. Questo spiega perché il Paese è in crisi ma i parlamentari non rinunciano a guadagnare più di tutti i colleghi europei e americani. Che i giudici vogliano punire corrotti e corruttori ma gli “yesman” della mediocracy si adoperino sistematicamente per propria totale impunità”.


Antonio Merlo è professore di Economia e Direttore del Dipartimento di Economia alla University of Pennsylvania. Ha una laurea in Discipline Economiche e Sociali dall’Universita’ Bocconi e un dottorato in Economia dalla New York University. Il Professor Merlo e’ un esperto di economia pubblica, politica economica e economia della politica. Ha pubblicato numerosi lavori sulle carriere dei politici, la formazione e dissoluzione dei governi, e lo studio del sistema politico come settore dell’economia.



Fondi neri di Finmeccanica indagato il presidente Guarguaglini.


Ipotizzato il reato di frode fiscale e false fatturazioni. La procura: "Usò denaro extracontabile degli appalti Enav per pagare provvigioni a Cola". La collaborazione dell'imprenditore Tommaso Di Lernia: i soldi usati anche per pagare la politica. di CARLO BONINI

ROMA - Pier Francesco Guarguaglini è indagato per frode fiscale e false fatturazioni. Dopo un anno di lavoro istruttorio, cade l'ultimo diaframma e l'inchiesta della Procura di Roma sui fondi neri di Finmeccanica travolge con un'ipotesi di reato di una qualche gravità (reclusione fino a 9 anni) il suo presidente, il manager che ha sin qui posato da sopravvissuto alla tempesta giudiziaria che ha investito la holding e che, non più tardi del 4 aprile scorso, il ministro dell'Economia Giulio Tremonti ha confermato al vertice 1 del colosso degli armamenti.

Il pm Paolo Ielo e il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo accusano Guarguaglini di aver creato o comunque autorizzato fondi extracontabili attraverso una almeno delle società controllate dal Gruppo (la "Selex"), disponendone l'uso per il pagamento di "provvigioni nere" di cui non doveva restare traccia, e ne hanno dunque iscritto il nome al registro degli indagati insieme a quelli di Lorenzo Borgogni, capo delle relazioni esterne della holding, Lorenzo Cola, per anni "facilitatore" del Gruppo (e oggi agli arresti domiciliari), Marco Iannilli e Tommaso Di Lernia, gli "imprenditori" (diciamo così) utilizzati per creare e distribuire le provviste nere della "Selex", società di cui è amministratore delegato Marina Grossi, moglie di Guarguaglini.

L'iscrizione del presidente di Finmeccanica risale ai primi mesi di quest'anno, ma soltanto ieri se ne è avuta l'evidenza, con la notifica agli indagati della proroga di indagine concessa alla Procura dal gip di Roma. Risale cioè ai giorni in cui Lorenzo Cola, l'uomo da cui, in modo grottesco, Guarguaglini prova a prendere le distanze dopo l'arresto (8 luglio 2010), decide tirarsi dietro l'ex padrino.

Nella sua lunga e all'epoca in buona parte "omissata" collaborazione con i pm, Cola racconta infatti di aver "mediato" per conto di Finmeccanica l'acquisizione, nel 2008, della statunitense "Drs Technologies Inc.", uno dei principali contractor del Pentagono (10 mila dipendenti e un fatturato annuo superiore ai 3 miliardi di dollari). Un affare che si chiude con un prezzo di acquisto di 5 miliardi e 200 milioni di dollari (3 miliardi e mezzo di euro) e per la quale Cola ottiene da Guarguaglini una provvigione che supera, ufficialmente, gli 8 milioni di euro.

Il punto - aggiunge Cola - è che solo una parte di quel denaro deve risultare in "chiaro". Il resto, dovrà essere "ritagliato" in nero. Come? È sempre Cola a spiegarlo, sostenendo che Guarguaglini lo invitò a rivalersi per quella parte di denaro che gli era ancora dovuto sui fondi neri di cui la "Selex" (di cui Cola era per altro consulente) disponeva, grazie al sistema di fatturazioni fittizie che normalmente accompagnava la concessione in subappalto alla società "Print system" di Di Lernia e Iannilli delle gare che "Selex" si aggiudicava con Enav. Un sistema che gonfiava il costo degli appalti e che naturalmente gravava per intero sulle casse pubbliche di Enav.

L'indagine ancora in corso accerterà se e quali altre direzioni abbia preso il denaro ottenuto da Cola "in nero". E' un fatto - ipotizza oggi l'accusa - che Guarguaglini fosse consapevole non solo dell'esistenza di fondi neri del Gruppo (circostanza che ha sempre pubblicamente negato, accusando "Repubblica" di condurre una "campagna strumentale" e "per conto terzi"), ma anche di come funzionassero le cose nell'acquisizione degli appalti Enav, vicenda nella quale, sin qui, è rimasta coinvolta la moglie, Marina Grossi, indagata dagli stessi pm Ielo e Capaldo per corruzione. Un'ipotesi, per altro, cui il tempo ha portato nuove evidenze in grado di sostenerla.

L'ultima, cruciale, è storia di queste ultime settimane. Tommaso Di Lernia, uno dei protagonisti chiave dell'indagine sugli appalti Enav e dunque sui fondi neri Finmeccanica, arrestato negli Usa ed estradato due mesi fa in Italia, ha cominciato a collaborare. Ha iniziato a indicare chi erano i destinatari delle "provvigioni nere" create dalla holding di piazza Monte Grappa e di cui lui, Di Lernia, era "il pagatore". Ieri, il gip, con parere favorevole della Procura, gli ha concesso gli arresti domiciliari e Natale Perri, il suo avvocato, non ha fatto mistero delle ragioni. "Il mio assistito è stato vessato dai suoi committenti (Enav e "Selex", ndr) che dovevano ingraziarsi settori della politica italiana".


Moro, Imposimato: un 'commando' era pronto a salvarlo. Ma il blitz fu annullato.


Aldo Moro (Adnkronos)

Roma - (ESCLUSIVA ADNKRONOS) - Ferdinando Imposimato, in qualità di legale di Maria Fida Moro, parte offesa nel processo sulla strage di via Fani e il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro, si oppone alla richiesta di archiviazione: ''Esiste una denuncia fatta da un brigadiere della Guardia di Finanza che appare persona attendibile''. Maria Fida Moro: mandanti omicidio guardino nella loro coscienza.

Roma, 21 lug. (ESCLUSIVA ADNKRONOS) - "Un 'commando' era pronto a liberare Moro. Ma all'ultimo minuto è arrivato l'ordine di abbandonare l'operazione". Lo dice all'ADNKRONOS Ferdinando Imposimato, dal 1978 al 1984 giudice istruttore del processo Moro.

Un piano militare per liberare Aldo Moro. Avevano deciso di intervenire l'8 o il 9 maggio del 1978. Si erano preparati a fare un blitz dopo aver ispezionato l'appartamento di sopra a quello in cui era prigioniero lo statista. Ma un contrordine, arrivato all'ultimo momento, blocca l'operazione in via Montalcini n. 8. Una pista che sembrerebbe legare il caso Moro all'organizzazione Gladio.

Ferdinando Imposimato, ora, in qualità di legale di Maria Fida Moro, parte offesa nel processo sulla strage di via Fani e il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse il 9 maggio 1978, si oppone alla richiesta di archiviazione, chiedendo la prosecuzione delle indagini. ''La verità sul caso Moro è più vicina -spiega all'ADNKRONOS Imposimato- e vogliamo conoscerla, anche per onorare la memoria dei martiri di via Fani. Senza paura e con fiducia nella giustizia. Ma non c'è giustizia senza verità. La vicenda Moro si riapre perché esiste una denuncia fatta da un brigadiere della Guardia di Finanza, G.L., che appare persona attendibile. E' stato militare dei bersaglieri presso il Battaglione Valbella, di stanza ad Avellino, insieme ad altri 40 commilitoni. Una parte di questi fu portato a Roma, con lo scopo di liberare un 'importante uomo politico'. Questo accadeva durante il sequestro Moro, dopo il 20 aprile 1978, data in cui i militari del 'commando' sarebbero arrivati a Roma''. ''Quando ho letto la denuncia che mi fu consegnata dallo stesso brigadiere il 7 ottobre 2008 -ricostruisce l'ex magistrato esperto di trame- in presenza di altri due sottufficiali inviati da un colonnello della Finanza di Novara, sono rimasto perplesso, data la gravità delle affermazioni del brigadiere, e ho detto che senza avere dei riscontri al suo racconto, quella storia non poteva essere credibile. Spiegai loro che non ero in grado di fare una verifica, anche perché -mi fu riferito dal sottufficiale- nel frattempo il Valbella era 'scomparso', smantellato. Penso che questo Battaglione Valbella poteva essere una struttura di Gladio. Ritengo ci sono tutti gli elementi per fare ulteriori indagini, oltre quelle svolte puntualmente dalla procura della Repubblica di Roma e dalla procura di Novara''.

In quella sede, spiega ancora Imposimato, ''sottolineai anche che bisognava identificare i commilitoni che secondo il brigadiere avevano partecipato alla missione nella capitale. Ho quindi consegnato la denuncia al procuratore aggiunto della Repubblica di Roma, Pietro Saviotti, il 20 novembre 2008, per chiedere una verifica delle circostanze riferite dall'uomo. Ho chiesto che il brigadiere G.L. fosse sentito e di essere informato in caso di una eventuale archiviazione. Allo stesso tempo ho cercato, tra altri atti di cui ero venuto in possesso regolarmente, riguardanti un'altra richiesta di archiviazione disposta dal gip, eventuali conferme o smentite al racconto del sottufficiale della Guardia di Finanza. E ho letto anche gli atti della commissione stragi riguardanti l'inchiesta su Gladio''. ''Ho poi esaminato gli atti -spiega l'ex giudice- regolarmente da me acquisiti su autorizzazione del gip di Roma, che riguardavano sia la vicenda di Pierluigi Ravasio, ex carabiniere paracadutista, che prima aveva parlato, per poi ritrattare, di un mancato intervento per impedire il sequestro Moro, e del colonnello Camillo Guglielmi, presente in via Fani la mattina del 16 marzo '78. Ho analizzato anche i documenti che riguardavano Nino Arconte, che aveva compiuto una speciale missione per andare in Libano e prendere contatti con un agente speciale, in vista della liberazione di Moro. Arconte ha prodotto un documento che è stato ritenuto falso dagli investigatori, ma che io invece reputo fondamentale sottoporre a una perizia tecnico-grafica per stabilirne l'autenticità o meno''. ''Altro elemento che ho acquisito -rimarca il legale di Maria Fida Moro- riguarda la presenza a Roma della Sas, Special Air Force inglese, durante il sequestro dello statista della Democrazia cristiana. Secondo Francesco Cossiga, allora ministro dell'Interno, doveva essere impiegato per la liberazione di Moro. Un riscontro alle dichiarazioni del brigadiere della Guardia di Finanza, che non può aver tratto questa ricostruzione dal mio libro 'Doveva morire. Chi ha ucciso Aldo Moro. Il racconto di un giudice', né può aver preso dagli atti dei processi che non fanno in alcun modo riferimento alla presenza di agenti inglesi nella vicenda Moro''.

''Il brigadiere G.L. -spiega Imposimato- viene a sapere che la sua presenza a Roma, insieme ad altri militari, anche stranieri, era finalizzata alla liberazione di questo 'importante uomo politico'. A Roma questa presenza si protrae per 15-20 giorni. Era stato loro detto che l'operazione doveva essere fatta l'8 o il 9 maggio 1978, e avevano capito che lì c'era Moro. Anzi, uomini di questo 'commando' erano stati anche portati in via Montalcini, in un altro edificio vicino a quello in cui era stata individuata la prigione del politico Dc''. Il sottufficiale, sottolinea l'ex giudice, ''sostiene di aver visto anche la famiglia che abitava nell'appartamento sovrastante quello in cui era prigioniero Moro. Ma l'8 maggio arriva un 'ordine superiore': il blitz viene annullato e tutti gli agenti e i militari devono tornare nelle strutture di origine''. La cosa non è indolore: ''Nel momento in cui i militari vengono a sapere che l'operazione era stata annullata -spiega Imposimato- hanno una reazione perché avrebbero voluto liberare l'ostaggio. Fu detto loro di dimenticare quello che era successo. E calò il silenzio su tutto''. Ma ''non è finita'', incalza l'ex giudice. ''A mio avviso -spiega- bisogna eliminare qualunque tipo di segreto di Stato sulla vicenda. Un segreto che, invece, è stato posto dall'autorità militare all'elenco dei commilitoni del brigadiere. Occorre poi interrogare gli altri uomini del 'commando', nel contraddittorio delle parti, come previsto dall'articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dall'art. 111 della Costituzione. E bisogna sentire anche tutti i vertici di Gladio per conoscere la sua reale struttura, e se sia possibile che di essa abbiano fatto parte soldati dell'esercito o di altre forze armate, oltre agli agenti del Sismi''.

''L'obiettivo -rimarca Imposimato- è capire se era possibile salvare Moro durante la sua prigionia, con un blitz analogo a quello che scattò per liberare il generale Dozier, senza cedere al ricatto delle Brigate Rosse''. ''Ero e sono d'accordo -precisa l'ex giudice- con la linea della fermezza e con quello che ha detto il Presidente Cossiga, ma prova di maggior fermezza sarebbe stato intervenire 'manu militari' per liberare Moro''. ''E' questa -rimarca il legale di Maria Fida Moro- la pagina che manca e che la famiglia dello statista e direi tutta l'Italia, attende di conoscere per sgomberare il campo da ogni dubbio su quella che, per dirla con il Presidente Ciampi, è stata la più grande tragedia che ha colpito il Paese dalla nascita della Repubblica''. E a chi gli chiede perché Moro doveva morire, Imposimato replica: ''Perché il suo progetto politico era in contrasto con la strategia dell'America e dell'Unione Sovietica. Gli americani non potevano accettare un governo con i comunisti né i sovietici consentire il dialogo comunisti-cattolici, perché questo avrebbe scardinato il 'modello' dell'Est''.

A distanza di 33 anni dall'omicidio Moro, conclude Imposimato, ''bisogna avere il coraggio di accettare degli aspetti che non erano conosciuti dagli inquirenti al tempo delle indagini. Ma ora la verità è più vicina''.




I miracoli di don Verzè. - di Vittorio Malagutti


Milioni di euro dirottati in hotel di lusso in Costa Smeralda e speculazioni immobiliari, favori agli amici e progetti megalomani. Così è stato ridotto sul lastrico il San Raffaele.


Piantagioni brasiliane. Palazzi e ospedali nei Paesi dell’est Europa. Aerei ed elicotteri intestati a società della Nuova Zelanda. È ufficialmente cominciata la caccia al tesoro del San Raffaele. Ma per trovare le tracce delle centinaia di milioni di investimenti sballati che hanno messo sul lastrico l’impero sanitario di don Luigi Verzé non c’è bisogno di andare in capo al mondo. La catastrofe è cominciata e si è sviluppata a Milano e dintorni. Tutt’al più per capire come e perché una delle strutture di eccellenza della sanità nazionale sia stata portata sull’orlo del crac è sufficiente una capatina in Costa Smeralda, sulla spiaggia che si affaccia sul mare azzurro di fronte all’isola di Tavolara.

Don Verzé è arrivato anche lì. Niente ospedali. Niente opere di bene. Più prosaicamente un hotel a quattro stelle, il Don Diego, riservato a una clientela d’élite, almeno a giudicare dai prezzi: anche cinquemila euro per una settimana in alta stagione. L’albergo è di proprietà della Fondazione Monte Tabor, la stessa che controlla il San Raffaele. La gestione però è affidata a un’altra società, la San Diego srl che fa capo a cinque azionisti. Uno di loro è l’attore Renato Pozzetto (quello di Cochi e Renato). Un altro, con una quota del 20 per cento, si chiama Mario Cal. Proprio lui, il braccio destro di don Verzé, il manager che si è suicidato lunedì scorso.

DUNQUE la Fondazione ha dirottato milioni di euro dalle attività sanitarie a quelle alberghiere e uno dei massimi dirigenti della fondazione stessa si è messo personalmente in pista, con un investimento di poche decine di migliaia di euro, per partecipare agli utili dell’iniziativa. Utili che per la verità ancora non si vedono, visto che l’hotel Don Diego viaggia in rosso. L’iniziativa sarda è tutto sommato una piccola cosa, almeno se confrontata con il miliardo e più di debiti che grava sul San Raffaele, ma riesce a dare un’idea di come andassero le cose nel regno di don Verzé. Con l’andar del tempo una miriade di investimenti sballati e di progetti megalomani ha minato alle fondamenta la grande opera del sacerdote visionario. Con il contorno, come si vede nel caso dell’hotel San Diego, anche di evidenti conflitti di interessi.

“Tutto è possibile a chi crede”, ripete il novantenne gran capo della Fondazione Monte Tabor. Quasi tutto, verrebbe da correggere. Se per esempio si impiegano nelle iniziative più disparate parte dei soldi versati dalla Regione Lombardia per i rimborsi dei medicinali e dei ricoveri in convenzione (oltre 400 milioni l’anno), allora è chiaro che si corre dritti verso il dissesto. Per un po’, infatti, il peso di questa strategia folle è stato fatto ricadere sui fornitori. E così il debito verso le aziende che riforniscono il San Raffaele, dalle aziende farmaceutiche a quelle informatiche, è esploso fino a superare i 500 milioni.

IN PAROLE POVERE i finanziamenti pubblici sono stati in parte assorbiti da iniziative che nulla avevano a che fare con il bene comune. Tipo la colossale cupola con l’arcangelo sulla sommità costata oltre 60 milioni. Oppure il nuovo ospedale di Olbia, costato oltre 200 milioni di euro in buona parte finanziati dalle banche. Una struttura finita di costruire pochi mesi fa e che sembra destinata restare ferma fino a quando non si chiarirà il destino dell’intero gruppo sanitario. Poi c’è il capitolo delle speculazioni immobiliari. Basta fare un viaggetto di pochi chilometri da Milano fino a Cologno Monzese, una cittadina dell’hinterland. Qui una società del San Raffaele, la Edilraf a suo tempo amministrata da Cal, ha restaurato una villa storica immersa in un parco dove ha anche costruito decine di appartamenti. All’operazione aveva partecipato anche il gruppo Diodoro costruzioni diPierino Zammarchi, che però alla fine del 2008 si è sfilato. Adesso tutto è fermo. Invenduti gli appartamenti, fin qui proposti a prezzi giudicati fuori mercato. Fermi anche l’auditorium e il ristorante che avrebbero dovuto essere consegnati al comune di Cologno. Nel frattempo la Edilraf ha accumulato debiti per oltre 60 milioni di cui quasi 35 verso le banche e 16 milioni nei confronti della stessa fondazione Monte Tabor. Adesso anche la Edilraf è in vendita. Trovare un compratore però sarà un’impresa. A meno di non cedere a prezzi di saldo. Lo stesso discorso vale per molte altre partecipazioni. Il Vaticano, che ha preso il comando al San Raffaele, potrebbe quindi essere costretto a svendere. Ma in questo modo non sarà facile tappare il buco lasciato da don Verzé. Salvo miracoli, ovviamente.




Festa del peperoncino, la Polverini arriva in elicottero. Il cronista del Fatto viene insultato. - di Carlo Tecce


Il presidente del Lazio arriva con un volo della Protezione civile alla kermesse organizzata a Rieti dal consigliere Rai Guglielmo Rositani. Che se la prende con il giornalista quando chiede conto del costoso viaggio a fronte dei tagli promessi dal governatore

Il peperoncino ha buoni effetti terapeutici: anestetico, afrodisiaco, antibatterico. Ma provoca irritazione ai politici, un terribile vuoto di memoria e una profonda crisi d’identità. Con la solennità del luogo e la tenacia di una ex sindacalista, ieri mattina nel palazzo regionale, Renata Polverini ha invocato le forbici di casta: tagli ai privilegi spropositati, ai soldi spesi male, ai trattamenti speciali. Un urlo: “Basta”. E che cavolo! Con lo stesso completo verde oliva pugliese, il presidente del Lazio ha chiesto un passaggio a un elicottero noleggiato dalla Protezione civile per spegnere gli incendi durante l’estate. La giornata era ancora lunga: la Polverini doveva tagliare – e stavolta l’ha fatto davvero – il nastro per la prima fiera campionaria di “Rieti cuore piccante”, una passione di Guglielmo Rositani, ex senatore di Alleanza nazionale e ora consigliere Rai devoto al Cavaliere, fondatore e presidente dell’Accademia reatina del peperoncino.

Ore 18, la Polverini atterra con un po’ di ritardo all’aeroporto Ciaffulli, un’auto con il sindaco Giuseppe Emili aspetta a motori spenti. Ma i più nervosi sono i camerieri che osservano il rinfresco in Prefettura, un omaggio per le autorità in trasferta con le fuoriserie di Stato: il ministro Paolo Romani, i sottosegretari Roberto Rosso (Agricoltura) e Alfredo Mantica (Esteri), i consiglieri Rai, Antonio Verro e Alessio Gorla. Nessuno ha il coraggio di afferrare le bruschette con la ‘nduja prima che le mani di Romani e Polverini possano graffiare la tavolata, mentre la gente guarda spaesata il palazzo Papale vuoto, dove – dicono i manifesti – Rositani e istituzioni apriranno le danze. La Polverini e Rositani lasciano senza esitazioni la Prefettura e quei prodotti tipici, quelle 400 specialità di peperoncino, che soltanto a Rieti puoi trovare. É impossibile capire se la Polverini che annuncia i risparmi di casta sia la stessa Polverini che ordina un elicottero per la festa del piccante. Non risponde: “Non ho nulla da spiegare. Pago tutte le spese che faccio, non scoprirai nemmeno una cena a mio carico. L’importante è che non vado con i soldi pubblici, vai tranquillo caro”. L’affettuoso “caro” del presidente regionale è accompagnato da spintoni e insulti di Rositani: “Vada via, cretino, altrimenti la prendo a schiaffi. Non ha capito? Le do uno schiaffo”.




NON È FACILE condannare il volo del presidente Polverini, più di 15 mila euro per un viaggio di 60 chilometri, la strada statale Roma-Rieti è un girone dantesco con curve bastarde, code irritanti, fameliche prostitute e simpatici autostoppisti. E non provate a suggerire il treno diretto. Arriverà, abbiate fede: a Rieti l’aspettano dai tempi di Giovanni Giolitti. Una speranza rinvigorita negli ultimi vent’anni con le promesse proprio di Rositani che, calabrese di Varapodio (ora è sindaco), sul miraggio ferroviario ci ha costruito una carriera politica. Tra enormi peperoni rossi e verdi di polistirolo, piantine messicane che decorano la piazzetta, ieri era il giorno di Rositani. Una gloria cercata con passione, e forza: la Rai ha annullato il Consiglio di amministrazione per l’invito a casa Rositani, qualcuno ha colto al volo (la Polverini in senso letterale), qualcuno ha declinato (il direttore generale Lei). In piedi sul palchetto davanti ai porticati, come se fosse un comizio di Totò, Rositani raduna e mostra a una folla (modesta, in verità) i grandi di Roma che visitano la città di Rieti.

Paolo Romani ha una faccia stanca e dubbiosa. Del tipo: io che ci faccio qui? L’agenda del ministro era strana: una cerimonia ad Herat in Afghanistan e un intervento per “Rieti cuore piccante”. Non è preparatissimo: “Dobbiamo fare ricerca sul peperoncino per le nostre industrie”. Il sindaco Emili è onesto: “Non mi piace il peperoncino, però possiamo investire”. La Polverini scalda il pubblico come fosse in concerto: “Rieti è il centro agricolo più grande d’Europa. Questo fine settimana entrerà nella vostra storia”. Ma è ancora il sindaco Emili a stupire: “Ringraziamo i rappresentanti esteri. E in particolare l’ambasciatore dello Zimbabwe. Applausi”. Come, come? Il Paese che ispirò una battuta telefonica di Mauro Masi: “Le pressioni per bloccare Annozero… nemmeno nello Zimbabwe”.

(Ha collaborato Fabrizio Colarieti)






Berlusconi: "Abbiamo un debito forte ma gli italiani sono benestanti"


Al termine del vertice straordinario dell'eurozona che ha deciso un nuovo pacchetto di aiuti alla Grecia, il premier, che era arrivato in ritardo, spiega per quale motivo non c'era bisogno di parlare della situazione del nostro Paese.


BRUXELLES - "Noi siamo la terza economia europea, il secondo Paese manifatturiero e abbiamo un sistema bancario solidissimo. Il 75 per cento delle famiglie italiane possiede una casa e abbiamo un sistema pensionistico correlato all'incremento dell'età media e siamo detentori del 60 per cento del debito pubblico. Stringendo, potremmo dire che il nostro Stato ha un debito forte, ma i cittadini italiani sono benestanti". Silvio Berlusconi lascia ilvertice straordinario dei leader dell'eurozona 1 e risponde in questo modo ai giornalisti che vogliono sapere se gli altri leader dell'eurozona abbiamo chiesto della situazione italiana. Quindi riferisce che al vertice "tutti si sono complimentati per la manovra" varata dal governo e soprattutto per "l'approvazione avvenuta a tempi di record".

Della manovra italiana si parla nel passaggio del documento finale in cui si afferma che "tutti gli Stati membri dell'eurozona aderiranno strettamente agli obiettivi di bilancio concordati, miglioreranno la loro competitività e affronteranno gli squilibri marcoeconomici" e che "i deficit in tutti i Paesi, eccetto quelli sotto programma (per ottenere i prestiti dell'eurozona e dell'Fmi, (Grecia, Irlanda e Portogallo, ndr) saranno portati sotto il 3% al più tardi entro il 2013". "In questo contesto - prosegue il testo - salutiamo con favore la manovra finanziaria recentemente
presentata dal governo italiano, che gli consentirà di portare il deficit sotto il 3% nel 2012 e di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2014".

La giornata di Berlusconi a Bruxelles inizia con un inconveniente. Il presidente del Consiglio arriva infatti a vertice iniziato. Scuro in volto, riferiscono alcune agenzie, non rilascia dichiarazioni. Il presidente Ue Herman van Rompuy dà il via ai lavori intorno alle 13.30 con mezz'ora di ritardo sul previsto. Berlusconi fa il suo ingresso nel palazzo intorno alle 13.43.

BERLUSCONI IN RITARDO: FOTO 2 - VIDEO 3

Dopo il vertice Berlusconi dice anche di aver "lanciato una proposta che è stata bene accolta ed è stata ritenuta buona da tutti: fare la riunione dell'Eurogruppo in Grecia. E aggiunge che il primo ministro di Atene George Papandreou "si è impegnato a programmarla alla ripresa dopo le ferie estive".

Quanto ai risultati dell'incontro di Bruxelles, il Cavaliere ne dà un giudizio ampiamente positivo: "Abbiamo lavorato bene. Abbiamo difeso l'euro. Abbiamo rassicurato i mercati mondiali che l'area euro è solida. Tutti i Paesi hanno messo da parte gli egoismi e hanno fatto capire che nessuno stato Ue può fallire. Abbiamo lavorato per evitare il rischio contagio. C'è un chiaro impegno dei Paesi a non far fallire nessuno Stato dell'area euro". A suo dire, l'ammontare complessivo dei finanziamenti per la Grecia è di 160 miliardi di euro: "Il totale del finanziamento alla Grecia è di 109 dal Fondo Europeo", a cui si devono aggiungere altri "37 miliardi" dati su base volontaria dagli "istituti privati" e a questa cifra si devono sommare altri stanziamenti vari per arrivare a "160 miliardi".