Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
martedì 6 settembre 2011
MAFIA (censurato dal governo Berlusconi)
lunedì 5 settembre 2011
Censurare il Web? Un autogol. - di Fabio Chiusi
Vero dunque che i regimi sbagliano quando, come accaduto in Egitto dal 28 gennaio al 2 febbraio scorso, spengono del tutto il web. Non solo per l'evidente e ingiustificabile limitazione della libertà di espressione dei cittadini. Ma anche perché così facendo accelerano «la disintegrazione dello status quo», invece di preservarlo.
David Cameron, che a sua volta ci aveva pensato dopo gli scontri di agosto, prenda nota. Possibile? Hassanpour, nel suo studio, lo sostiene tramite un misto di modelli di decision-making, regressioni statistiche, dati storici e analisi empirica della rivolta che ha portato alla caduta del regime di Hosni Mubarak. In alcuni passaggi, servendosi di idee già abbondantemente esplorate da Evgeny Morozov nel suo volume The Net Delusion, tutto teso a smontare la credenza 'tecno-utopista' che, per i popoli in rivolta, basti «lasciarli twittare, e si apriranno la loro strada a suon di tweet verso la libertà». In altri, andando perfino oltre: «I social media possono essere controproducenti per la mobilitazione dal basso» e «ostacolare l'azione collettiva». E questo perché «scoraggiano la comunicazione faccia a faccia e le presenze di massa per le strade», scrive l'accademico. Inoltre, mostrando in tempo reale il racconto di quanto avviene, potrebbero «creare una maggiore consapevolezza dei rischi corsi dai manifestanti», inducendoli a rimanere nelle loro case, al sicuro, a condividere post su Facebook. Perché i «legami deboli» stabiliti in Rete «raramente conducono ad attivismo ad alto rischio».
Secondo Hassanpour, qualcosa di simile è già accaduto nel corso della storia. Durante la rivoluzione francese, per esempio; prima della caduta della Duma, nella Russia del 1917; o ancora, nella rivoluzione iraniana del 1978-79. Ma è il recente caso egiziano a fornire l'occasione di mettere l'ipotesi in esame alla prova dei fatti. Per lo studioso, si tratta di una conferma su tutta la linea. Hassanpour la riassume in un grafico che mostra la correlazione – sorprendente - tra il blackout di cellulari e Rete, totale a partire dal 28 gennaio, e il diffondersi della protesta da piazza Tahrir al resto del Paese. «Troppi rivoltosi e in troppi luoghi», riassume nella conclusione, citando il parere del direttore per le emergenze di Human Rights Watch, Peter Bouck.
Titoli giornalistici a parte, le ultime righe sono anche l'occasione per riformulare l'ipotesi in termini maggiormente scientifici: «In presenza di una maggioranza avversa al rischio, aggiungere maggiori collegamenti al suo interno non necessariamente aiuta la mobilitazione». Una conclusione che tuttavia resta tutta da dimostrare per quanto avvenuto negli altri paesi protagonisti della 'primavera araba'. Che si fonda sul reperimento di una correlazione tra grandezze, il che non significa certo averne individuato un legame causale. E che lascia piuttosto perplessa Giovanna Loccatelli, autrice del recente volume 'Twitter e le rivoluzion'i, che indaga proprio il ruolo dei social media nelle rivolte che hanno scosso il Nord Africa. «Non sono d'accordo che il loro utilizzo impoverisca l'azione pratica dei manifestanti», dice all'Espresso. «Perché, per esempio, questi strumenti erano presenti sotto ogni tenda a piazza Tahrir. Nello studio di Hassanpour sembra invece quasi che siano stati usati da casa. Non è andata così». Loccatelli contesta poi la rilevanza della dispersione della protesta nel resto del Paese per il successo della rivoluzione: «Piazza Tahrir ne è stata il cuore pulsante, e lo sarà ancora per i prossimi mesi. Anche con il blackout totale di Internet le persone sapevano dov'era la protesta reale, concreta. Senza piazza Tahrir le cose sarebbero andate diversamente».
Senza contare il ruolo giocato da Al Jazeera, «che si è messa dalla parte degli attivisti e ha aiutato a diffondere la protesta». Il problema semmai, conclude Loccatelli, «è che i social media hanno senso prima e durante la rivoluzione, ma dopo non hanno alcun peso reale. Perché nel dopo c'è bisogno della politica, di una comunità che si aggreghi e faccia delle proposte. Questo non lo possono fare i social network».
Grillo, le sue 350 mila firme e la dimenticanza del Senato.
Depositate a corredo di 3 disegni di legge, mai esaminate.
Beppe Grillo (Ansa) |
Riassumiamo? A metà dicembre del 2007, nella sciadelle polemiche intorno ai costi della politica e «V-Day», il comico-capopopolo genovese si presenta a Palazzo Madama, pedalando su un risciò (anche lo show vuole la sua parte...) per consegnare una catasta di sottoscrizioni raccolte in un solo giorno su tre disegni di legge. Sintesi: 1) Nessun cittadino può candidarsi in Parlamento se condannato in via definitiva o in primo e secondo grado in attesa di giudizio finale. 2) Nessuno può essere eletto alle Camere per più di due legislature (10 anni). 3) Basta con i deputati e i senatori «nominati» dai capi partito e via alla riforma elettorale perché possano essere votati dai cittadini con la preferenza diretta. Giusto? Sbagliato? Libero ciascuno di pensare che si tratti di proposte ottime o pessime, utili o inutili, virtuose o demagogiche. C'è reato e reato, dirà qualcuno, e un conto è avere nella fedina penale una condanna per tangenti su un reparto di leucemia e un altro per aver violato, facendone una battaglia politica (e non violenta, ovvio) una legge considerata ingiusta e da cambiare. E c'è chi sottolineerà come escludendo automaticamente tutti dopo due legislature ci saremmo risparmiati tantissimi somari ma avremmo perso anche un pò di purosangue. Per non dire dei dissensi sulla legge elettorale... Ma qui sta il nocciolo della questione: i senatori hanno il diritto di prendere uno per uno questi disegni di legge, valutarli, decidere che si tratta di sciocchezze e buttare tutto nel cestino. È nelle loro incontestabili facoltà. Quello che non possono fare è di infischiarsene di quelle proposte facendo finta che non siano mai arrivate. Lo ammise un anno fa, dopo una fiammata di polemiche, lo stesso Renato Schifani: «Sono favorevole affinché i ddl di iniziativa popolare, a prescindere dai loro contenuti, abbiano una risposta da parte del Parlamento. È un diritto e un dovere del Parlamento. Si deve riconoscere ai cittadini che hanno presentato una proposta popolare il diritto assoluto di avere una risposta».
Lo dice la Costituzione all'articolo 71: "L'iniziativa delle leggi appartiene al governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale. Il popolo esercita l'iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli". E gli articoli 48 e 49 della Legge 25 maggio 1970, n. 352 precisano tutti i dettagli perché questo strumento di democrazia possa avere piena dignità.
Il guaio è che i nostri padri costituenti non avevano tenuto conto di una sventurata ipotesi. Quella che in Parlamento si affermassero maggioranze prepotenti decise a svuotare questo istituto. Sia chiaro: di destra o sinistra non importa. E lo dimostra il destino dei progetti "grillini", ignorati sia in questa sia nell'altra legislatura. Fatto sta che, come spiega Michele Ainis, la facoltà solennemente riconosciuta dalla Carta Costituzionale alla volontà popolare di proporre delle leggi si è ridotta di più e né meno che al ruolo che avevano un tempo le suppliche al sovrano. Con il Parlamento che si arroga il diritto di occuparsene o meno così, a capriccio. Come quei monarchi annoiati che, mollemente adagiati sul trono, decidevano il destino di questo o quel poveretto condotto al loro cospetto sollevando o abbassando il mignolo inanellato.
Dicono: ma Beppe Grillo è stato uno screanzato. E ricordano che, convocato a Palazzo Madama (audizione obbligatoria: mica una gentile concessione), il comico genovese fondatore del Movimento 5 stelle, ne disse di cotte e di crude contro «questo Parlamento di nominati in cui sono stati scelti amici, avvocati e qualche zoccola». Affermazione che, buttata lì prima dei fuochi d'artificio sul «ciarpame senza pudore» accesi dalle accuse di Veronica Lario, sollevò un'ondata di proteste.
Verissimo: la scelta di Grillo di usare un linguaggio spiccio e ricco di parolacce è una cosa che gli viene rinfacciata anche dagli amici e suona insopportabile alle orecchie di chi in Parlamento dice cose spesso oscene però sventolando educatamente il ventaglio. Ma può bastare per ignorare le proposte di 350 mila cittadini? Vogliamo ricordare, almeno, che per legge i promotori dei Ddl di iniziativa popolare dovrebbero esser convocati entro un mese e il comico «indignato» ebbe l'opportunità di dire la sua dopo un anno e mezzo e solo dopo aver avvertito il presidente della commissione affari costituzionali Carlo Vizzini che gli avrebbe appiccicato addosso migliaia di «pittime», quei petulanti personaggi seicenteschi vestiti di rosso che si attaccavano per mesi ai debitori senza sfiorarli con un dito ma ricordando loro ossessivamente il debito da pagare? Disse quel giorno Grillo ai commissari: «Datemi una data di quando sarà discussa l'iniziativa popolare per l'elezione dei parlamentari, per lasciare fuori i condannati e scegliersi il parlamentare anziché trovarselo nominato, e mi manderete via contento». Macché: vuoto pneumatico. Al punto che se domani mattina la legislatura subisse un infarto, quelle proposte evaporerebbero nel nulla.
C'è poi da stupirsi se il 10 settembre, quattro anni dopo la raccolta delle firme, il comico si presenterà a Roma per chiedere che gli siano restituite quelle carte sottoscritte da 350.000 cittadini perché è ormai chiaro che il Senato non ritiene quelle proposte neppure degne di essere esaminate e cestinate? Una cosa è certa: che Beppe Grillo abbia ragione o torto nel merito dei disegni di legge (e a questo punto la cosa è del tutto indifferente), i senatori hanno perso un'altra occasione per riaprire dalla loro torre d'avorio un dialogo coi cittadini. E con il loro assordante silenzio spingono a ripetere quella domanda fastidiosa: l'articolo 71 è ancora in vigore o è stato abolito?
Così il ministro usa i tuoi soldi. - di Marcello Bella
E' lui il vero erede politico della corrente democristiana guidata prima da Lillo Mannino e poi da Totò Cuffaro, l'ex presidente della Sicilia finito in carcere per una brutta storia di mafia e politica. Nello staff di Romano convivono avvocati, ex parlamentari, consulenti, magistrati contabili e amministrativi, manager in pensione e grand commis dei serbatoi elettorali siciliani. A capo del gabinetto ministeriale c'è Antonello Colosimo, magistrato della Corte dei conti. Spedito in giro per l'Italia a pontificare sulle strategie per alleviare la crisi, Colosimo spera di far dimenticare le frasi al vetriolo a lui dedicate dal gip Rosario Lupo, che nell'ordinanza sul "sistema gelatinoso" della cricca di Balducci e dei grandi eventi, parlava dei suoi "rapporti poco chiari" con l'imprenditore Francesco Piscicelli.
Alla corte di Romano c'è un altro magistrato: è il casertano Salvatore Mezzacapo, consigliere del Tar nel Lazio. Piccole scorie sul suo curriculum, per un concorso al Tar del Lazio che ha visto stravincere la moglie. Lui aveva nominato i componenti della commissione. Il cuore nevralgico della macchina politica del ministero è invece nelle mani di Mimmo Di Carlo, ricompensato dopo una vita al fianco di Romano: capo della segreteria particolare del ministro, consigliere di amministrazione della Gesap, società che gestisce lo scalo palermitano Falcone Borsellino, e pure componente direttivo del Consorzio Asi di Palermo. Il nome del segretario di Romano appare negli atti del processo alle Talpe nella Dda, proprio il procedimento che ha visto la condanna definitiva di Cuffaro.
Altro siciliano doc alla corte dell'agricoltura è Giovanni Randazzo. Ricopre la funzione di capo della segreteria tecnica del ministero. Il suo nome è stato tirato in ballo da Francesco Campanella, politico pentito dell'enclave mafiosa di Villabate, uscito invece indenne dall'inchiesta della Procura di Roma per frode all'Unione europea. Dalla stagione politica di Cuffaro, il "responsabile" dell'agricoltura ha recuperato anche Felice Crosta, l'uomo dalla pensione d'oro. E' uno dei dieci consulenti nominati a titolo gratuito da Romano. Crosta, che percepisce 1.500 euro al giorno di pensione, si occupa di consulenze giuridiche. Altro elemento di continuità con la stagione di Cuffaro è Antonino Giaimo.
In Sicilia si è occupato di fondi europei e programmazione. Anche per lui c'è il doppio incarico. E' nella lista dei legali che si occupano di contenzioso per il Consorzio Asi di Palermo. Altro esperto di legge al servizio di Romano è Tito Varrone. Un vero e proprio ripescaggio: Varrone è stato al fianco di Mariastella Gelmini, per la contestatissima riforma sulla scuola. Volendo andare più indietro nel tempo, spuntano fuori anche i legami mai interrotti con Calogero Mannino, che quello stesso ministero ha guidato prima del naufragio della prima Repubblica. Responsabile del servizio di controllo interno del ministero è l'architetto marsalese Attilio Tripodi.
TECNOLOGIA PROIBITA. - DI ANDREA GIOTTI
Tra tutti, un esempio particolarmente noto è il progetto MKULTRA della CIA, ma anche i sovietici compirono numerose sperimentazioni in proposito e non esiste servizio al mondo che non sappia come riconoscere o peggio causare un blocco psicologico in un testimone scomodo. I risultati degli esperimenti condotti nel contesto di tali progetti non sono quasi mai stati resi noti al grande pubblico nella loro completezza, perché le tecniche di controllo mentale che hanno consentito di mettere a punto costituiscono una terribile arma nei confronti delle libertà individuali ed ogni soggetto che ne disponga desidera mantenerne il monopolio.
Il “lavaggio del cervello”, la creazione di “candidati manciuriani” e quant'altro non sono temi destinati a comparire in testi di psicologia o articoli di giornale, nondimeno possono essere terribilmente concreti ed insinuare legittimi sospetti nella mente di coloro che si interrogano su inquietanti fatti di storia recente, come l'assassinio del presidente Kennedy, o di cronaca, come le ultime stragi compiute nel mondo da apparenti squilibrati.
Scrivere di questi argomenti è in qualche misura difficoltoso perché le fonti sono spesso incerte, i testimoni reticenti o inattendibili ed i pochi documenti disponibili ricchi di omissis. Per quanto difficoltoso, è parimenti doveroso tentare di informare il pubblico sulla possibilità che simili tecniche siano impiegate comunemente, senza svelare i dettagli grazie ai quali è possibile implementarle ma rivelandone abbastanza da consentire di riconoscerle e, ove possibile, difendersi dalle stesse. Citare fonti interne alle strutture che le conoscono meglio, cioè i servizi, è praticamente impossibile senza incorrere in spiacevoli incidenti, ma lo scrivente ha avuto modo di fare esperienza diretta delle più sofisticate tra queste tecniche e sulla base di questa esperienza ha redatto il presente articolo. Raccontare non è dimostrare, ed infatti non vengono citate prove documentali di quanto narrato nel seguito, ma una simile informazione ha comunque un valore in quanto può insinuare dubbi nelle menti più aperte e preparare i lettori ad affrontare più consapevolmente e meno passivamente il nuovo ordine che si sta delineando nel mondo.
La “lettura della mente” è stata parimenti oggetto di numerose ricerche in ambienti sia civili che militari durante il corso dell'ultimo secolo, specialmente da parte dei sovietici. Tali ricerche si sono sempre dimostrate infruttuose fino all'inizio del nuovo millennio, ma da almeno una decina di anni è stata segretamente sviluppata dalla NSA o da qualche altra agenzia governativa americana la cosiddetta "telepatia artificiale", una tecnologia che consente una comunicazione bidirezionale remota tra un apposito dispositivo, controllato da un operatore, ed il cervello umano. Essa permette inoltre di interfacciarsi all'intero sistema nervoso umano da distanze rilevanti ed attraverso schermature di vario genere, forse grazie ad una rete di satelliti in grado di offrire una copertura globale, e ad una prima analisi non sembrano esistere difese tecnologiche in grado di proteggere la vittima designata. Particolare ancora più inquietante, questa tecnologia può essere utilizzata anche per torturare ed uccidere a distanza singoli individui senza lasciare tracce.
I lettori dotati di preparazione scientifica resteranno oltremodo perplessi di fronte a simili sviluppi ed è quindi opportuno specificare immediatamente che tale tecnologia è basata su alcuni progressi radicali, sia nel campo della fisica che in quello delle neuroscienze, fino al punto di apparire incredibile per la scienza ufficiale nonché per il senso comune. Scrivere e soprattutto leggere le correnti corticali in remoto, nonché interpretarle in termini di parole ed immagini, appare cioè un traguardo così distante dallo stato dell'arte comunemente riconosciuto da stupire qualunque esperto del settore, nondimeno tale traguardo è stato raggiunto e questo è verosimilmente avvenuto attraverso la scoperta di un nuovo vettore di interazione fisica, fasci di onde o particelle sconosciute oppure già note ma ufficialmente non ancora sfruttate per finalità pratiche. Questo vettore di interazione presenta caratteristiche di distanza massima, penetrazione e precisione mai viste prima e grazie ad esso è stato poi possibile indagare nel dettaglio il funzionamento del cervello umano.
Come ogni tecnologia reale, fortunatamente anche questa presenta però alcuni importanti limiti. Innanzitutto, essa non consente ancora di determinare direttamente i pensieri della vittima, né di controllarne i movimenti del corpo, ma solo di interferire con entrambi soprattutto attraverso la manipolazione psicologica, la privazione del sonno e l'induzione di dolore. L'operatore che controlla il dispositivo può proiettare la sua voce nella mente della vittima per manipolarla ed indurla così a comportamenti degni di un “candidato manciuriano”, ma le tecniche di manipolazione utilizzate sono per lo più tradizionali e ad esse si può opporre la stessa resistenza che si opporrebbe di fronte ad un interlocutore in carne ed ossa. La lettura della mente è inoltre limitata ai pensieri verbali o “superficiali”, cioè quelli che esprimiamo attraverso le parole, ad alcuni pensieri non verbali o “profondi” ed alle immagini mentali che visualizziamo, ma la maggior parte dei pensieri non verbali ed i ricordi memorizzati nel nostro cervello non risultano ancora accessibili dall'esterno oppure non ancora decifrabili attraverso la tecnologia in questione.
Gli effetti fisici che l'operatore può causare nella vittima vanno dalla proiezione di falsi ingressi sensoriali di natura visiva, uditiva e tattile, ingressi che con una certa facilità possono essere identificati come disturbi e conseguentemente ignorati, all'interferenza diretta nel sistema neurovegetativo con conseguente possibilità di morte, ad esempio per arresto cardiaco o respiratorio.
Questa tecnologia è impiegata oggi per monitorare costantemente determinate figure chiave politiche, scientifiche, militari e mediatiche in tutto il mondo, nonché per compiere operazioni psicologiche segrete ovunque si riveli necessario e porre così in stato di sottomissione tutti coloro che prendono coscienza di una simile realtà, ad esempio ricattandoli grazie alla lettura dei loro stessi pensieri. Agli oppositori è poi riservato un programma di screditamento ed autodistruzione sociale, psicologica ed infine fisica, che tipicamente si conclude con l'induzione al suicidio della vittima, con un incidente mortale causato artificialmente oppure con una morte apparentemente naturale. Visti dall'esterno, questi appariranno semplicemente come casi di pazzia, dato che in psichiatria la semplice percezione di una voce è considerata un sintomo sufficiente per tale diagnosi. L'obiettivo, manco a dirlo, è quello di imporre un dominio assoluto sul mondo ma stavolta, a differenza di quanto avveniva ai tempi di Hitler o Stalin, esiste lo strumento che può permetterlo attraverso un subdolo colpo di stato globale che sta avvenendo all'insaputa del grande pubblico. L'agenzia che detiene il monopolio di questo strumento non permette che altri ne sviluppino di anche solo lontanamente simili ed è quindi verosimile che le figure in grado di farlo, soprattutto scienziati, vadano incontro alla stessa sorte degli oppositori, assieme a tutti coloro che sono in grado di contrapporre più tradizionali forme di resistenza come una rappresaglia nucleare in caso di guerra.
Prima di dare la colpa di tutto ciò al presidente americano, è opportuno però ricordare che tale tecnologia garantisce a chi la gestisce direttamente un potere abbastanza grande da consentirgli di svincolarsi dal controllo di qualunque autorità superiore, dunque anche politici, scienziati, militari e giornalisti statunitensi non vengono risparmiati dal trattamento precedentemente descritto. Senza entrare in dettagli la cui esposizione richiederebbe molte altre pagine, si segnala che la storia dell'attacco alle Torri Gemelle e quella di svariati altri fatti di cronaca italiana ed internazionale dovrebbero forse essere riscritte alla luce dell'esistenza di questa “tecnologia proibita”. Il parere dello scrivente è che il potere che questa tecnologia conferisce sull'umanità sia così enorme da corrompere inevitabilmente chiunque lo detenga e trascinare così il mondo futuro nel caos.
Per eventuali approfondimenti si possono consultare i siti:
http://www.facebook.com/groups/controllomentale
http://www.aisjca-mft.org/ingegnere.htm
http://rudy2.wordpress.com/testimonianza-di-un-ingegnere-informaticovittima-di-controllo-mentale-remoto
http://www.associazionevittimearmielettroniche-mentali.org/giotti2.htm
http://lists.peacelink.it/dirittiglobali/2010/07/msg00029.html
Da www.mentecritica.net
- Default Italia, 66 Giorni al Fallimento. Non ci Resta che la Dittatura dei Migliori?
- Fatti di gente perbene
- Default Italia, 67 Giorni al Fallimento. Una Nuova Norimberga
Default Italia, 66 Giorni al Fallimento. Non ci Resta che la Dittatura dei Migliori?
L’idea che Giustizia e Solidarietà siano ingredienti indispensabili alla convivenza sociale fa parte della cultura del mondo occidentale. Sia pure coniugate in modi diversi, perché Giustizia e Solidarietà non sono la stessa cosa. Un’azione può essere giusta e solidale, o il suo contrario, ma anche giusta e non solidale, oppure solidale ma ingiusta. Se due uomini, uno con prole e l’altro senza, fanno lo stesso lavoro e vengono retribuiti allo stesso modo è sicuramente giusto, ma non solidale. Mentre se il secondo viene retribuito meno del primo, è sicuramente solidale, ma non giusto.
La Giustizia risponde all’esigenza di avere secondo i propri meriti, la Solidarietà di avere secondo i propri bisogni.
Le due cose non sono antitetiche, aut-aut, ma neppure indifferenti, et-et; se mai, ove si debbano fare i conti con la scarsità delle risorse, che è la condizione più probabile nella realtà, complementari. Se ti allarghi con l’una ti resta meno spazio per l’altra e viceversa. Per convivere devono essere coniugate e regolate. Dev’essere stabilito quale delle due prevarrà sull’altra in caso di conflitto e fin dove e fino a quando. Un’iniziativa politica onesta deve indicare l’ordine in cui intende perseguirle e, ove s’imponga una scelta, se darà priorità alla Giustizia, oppure alla Solidarietà, e in che modo.
La parabola dei lavoratori della vigna, dove quelli giunti al tramonto ricevono la stessa paga di quelli giunti all’alba, è la chiara espressione di come sia regolata la questione nell’etica cattolica. Che si può condividere o meno, a me non piace, ma è pur sempre una regola chiara. Chi l’abbraccia sa cosa attendersi quando sarà chiamato a lavorare nella vigna.
È ciò che servirebbe nei momenti difficili, un’etica condivisa in base alla quale la Classe Politica possa prendere delle decisioni in accordo col sentire della propria Opinione Pubblica.
È quel che manca da noi in questo momento.
Si ha la deprimente impressione che lo snodo tra Giustizia e Solidarietà sia del tutto estraneo alla nostra Classe Politica, senza distinzione tra destra e sinistra. Un paradosso, se si considera che le diversità politiche sono soprattutto figlie del diverso modo di coniugare quei due valori.
Le traversie che incontra in questi giorni la manovra finanziaria per arrivare in porto, le proposte sovente antitetiche delle parti politiche, talvolta della stessa parte in momenti diversi, i continui avanti e indietro sotto la pressione degli interessi costituiti, i repentini ribaltamenti di fronte alla ricerca del tornaconto politico, confermano l’impressione e la aggravano: non solo i nostri governanti non perdono il sonno per far convivere Giustizia e Solidarietà, ma proprio non gliene frega niente; ciò che li guida è unicamente l’imperativo categorico di pelare il gatto senza farlo miagolare.
Contributo di solidarietà per i redditi superiori a una certa cifra: solidale ma iniquo. Per gli statali sì e per i privati no: iniquo due volte. I riscatti di laurea e il servizio militare non valgono, abbiamo scherzato: una truffa. Gli uomini vanno in pensione a 65, le donne a 60, salvo quelle del pubblico che vanno a 65 anni: incoerente e iniquo. Aumentiamo l’IVA: equo, ma non solidale. Imposta una tantum sui capitali condonati: equa e solidale, peccato che lo stato ci perda la faccia.
Né la Maggioranza né l’Opposizione se la sono sentita di lavorare per sopprimere le decime alla Chiesa, tagliare le prebende della politica, purgare gli enti inutili, cassare i vassallatici delle pubbliche amministrazioni centrali e periferiche, seccare le mille mammelle alle quali ciucciano i peones di questo paese, che sono millanta che tutta notte canta.
E l’Opinione Pubblica, come le stelle di Cronin, sta a guardare. Rugliando solo che si attenti all’integrità del suo orticello, tornando quieta appena il nuvolo s’allontana. Nessuna obiezione di metodo. Soltanto un’indignazione diffusa, spesso strumentale, un esorcismo per salvarsi l’anima, il ringhio di avvertimento del cane a chi si avvicina troppo alla sua ciotola.
Occorre cambiare. Di questo passo non faremo molta strada.
Dovremmo poter cambiare Maggioranza, Opposizione e Opinione Pubblica. Ma non si può, l’Opinione Pubblica ce la dobbiamo tenere. Mentre le altre due potrebbero temporaneamente essere messe fuori gioco da un Governo Tecnico, di Salute Pubblica, del Presidente, o come vogliamo chiamarlo. Una cosa che non sia espressione della Politica. Una Dittatura dei Migliori. Temporanea. Che ci porti fuori dal guado.
Fatti di gente perbene.
«È una vicenda dolorosa, ma è anche l’occasione per fare una riflessione ulteriore non solo sul nostro diverso modo di procedere rispetto alla maggioranza, fatto di fiducia nella magistratura, passi indietro, uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, ma anche sul fatto che dobbiamo mettere ogni impegno nel migliorare l’esigibilità dei nostri codici etici e del nostro Statuto. E ci stiamo lavorando. Ma la nostra gente ci chiede anche di reagire a teorie che vanno oltre le legittime critiche, e che descrivono il Pd come un corpo malato. Abbiamo fatto partire un po’ di denunce. Né accettiamo che si faccia di tutta l’erba un fascio e che si indebolisca per questa via l’unico strumento che gli italiani hanno per il cambiamento». (P. Bersani, intervista all’Unità, 3 settembre 2011.)
C’è tutto Bersani e tutta la weltanschauung piddina in questo ragionamento. La pretesa della diversitàper se e quasi come dogma, la riflessione – che si porta su tutto – e lo “stare lavorando” al posto del prendere un’iniziativa, dell’azione, del fare delle scelte; il farsi scudo dei militanti che “ci chiedono di reagire” e la dichiarazione finale, insopportabilmente ricattatoria, di autoinsostituibilità di una classe dirigente, l’ineluttabilità del cambiamento che può solo passare attraverso di essa o sul suo cadavere.Après nous le dèluge. Come B. che pensa di essere eterno.
Per Bersani, che il capo della sua segreteria politica dal 2009 Filippo Penati sia indagato per corruzione e finanziamento illecito al partito per vicende spalmatesi negli ultimi dieci anni è solo una “vicenda dolorosa”. Aggettivo che sarebbe congruo solo se si trattasse di uno sciagurato che si è arricchito alle spalle del partito ingannando cani e porci, compreso il suo segretario, ma che è assolutamente inadeguato se per caso la corruzione era parte di un sistema, di un modo per tenersi buoni gli uni gli altri tra imprenditori, politici e partiti al fine di avvantaggiarsene reciprocamente, con Penati a quel punto solo pedina fra le tante sulla scacchiera.
Sono tutti fatti da dimostrare in sede giudiziaria, è ovvio, però il sospetto è brutto e, più che di macchina del fango, ho paura che si tratti di cannoni sparaneve caricati a merda.
Per questo ci vorrebbe meno indecisione nel rendere conto di fatti precisi. Meno supponenza da “noi siamo diversi” e tendenza al risentimento quando qualcuno fa giustamente delle critiche. Invece Bersani continua solo ad incazzarsi, a fare il piangina e a minacciare querele invece di rispondere alle domande. Come il suo gemello settembrino in fondotinta. Sarà colpa del sole in Bilancia.
Basterebbe intanto che Bersani ci rassicurasse sullo scambio di telefonate – testimoniate da intercettazioni pubblicate fin dal 2006 – tra lui, il gruppo Gavio e Penati.
Tutta la storia dell’affare Milano Serravalle è raccontata da Gianni Barbacetto in un libro del 2007, ma diciamo solo come si è conclusa: nel 2004 la Provincia di Milano guidata da Penati acquisisce il 15% delle quote di proprietà del Gruppo di Marcellino Gavio della Milano-Serravalle, pagandole quasi quattro volte oltre il loro valore. Una cifra enorme, 238.000.000 di euro di denaro pubblico, contenenti quindi una plusvalenza per il venditore di € 179.000.000. Un amministratore pubblico che fa questi regali ai privati non pare molto auspicabile ma ciò che incuriosisce i magistrati è ciò che accade dopo. Nel 2005 Gavio partecipa a fianco di Consorte (Unipol) alla scalata di BNL, con una quota di € 50.000.000. Non sarà che quella partecipazione è un ringraziamento, un modo per sdebitarsi con il partito per l’affarone fatto con la Serravalle?
Si dirà, sono tutte maldicenze del centrodestra che aveva osteggiato l’affare nelle persone di Ombretta Colli e Gabriele Albertini. Sarà, tuttavia l’intermediario di Gavio è tale Binasco, nientemeno che colui che inguaiò Primo Greganti e il PCI nel corso delle indagini di Tangentopoli, e che videro alla fine dei relativi processi condannati sia il concusso che il concussore.
Un personaggio al quale un dirigente DS, visti i trascorsi tangentopolitani dell’interlocutore, non avrebbe dovuto nemmeno rivolgere la parola per paura di inguaiare di nuovo il partito.
Ecco, il punto è che Gavio ha bisogno di parlare con Penati per sbloccare l’affare Serravalle e telefona invece a Bersani il quale gli risponde che può parlare direttamente con Penati. Qualche giorno dopo Penati telefona a Gavio:
Penati: «Buon giorno, mi ha dato il suo numero l’onorevole Bersani…».
Gavio: «Sì, volevo fare due chiacchiere con lei quando era possibile…».
Penati: «Guardi, non so… Beviamo un caffè».
Gavio non poteva telefonare direttamente a Penati in Provincia? In ogni caso l’effetto “mi manda Bersani”, sarà un’illusione ottica ma è abbastanza evidente e meriterebbe una spiegazione da parte dell’interessato. Visto oltretutto che Penati fa carriera fino a diventare, nel 2009, capo della sua segreteria politica.
Ora, il problema di fronte a queste ombre ed insinuazioni sull’illibatezza del PD – e prima dei DS – sulla base di pesanti indizi, sono i militanti piddini, che non vogliono sentir parlare di questi fatti, si mettono le mani sulle orecchie facendo bla-bla-bla e reagiscono dicendo che Di Caterina e Pasini, gli accusatori di Penati, sono vicini al centrodestra, quindi non attendibili. Che tutte le maldicenze sulla vicenda Milano Serravalle sono una vendetta di Ombretta Colli. Che Bersani non deve rendere conto di alcunché a Sallusti che grufola nello scandalo scrivendo paginate e paginate sull’affaire Penati. E soprattutto, che parlare di queste cose è il solito autolesionismo tafazziano della sinistra e che in questi momenti bisogna essere uniti e che questa è antipolitica.
Vedete, amici, se Sallusti grufola è perché gli se ne dà modo.
Non si può nascondere la testa sotto la sabbia e negare a priori che possa esistere e non da oggi un sistema di gestione degli affari da parte della sinistra che assomiglia molto a quello della destra.
Ho l’impressione che, siccome la vittoria alle prossime elezioni pare probabile, visto il disastro berlusconiano, i piddini intesi come base non abbiano alcuna voglia di rifondarsi, dandosi finalmente una dirigenza nuova in vista della Terza Repubblica ma siano disposti a tenersi questa, anche se chiacchierata e più logora di un calzino bucato. Con i Bersani lanciaquerele, i D’Alema – e dicendo D’Alema si è già detto tutto, i Fassino abbiamo-una-banca e i Letta abbiamo-un-banchiere.* Più le varie beghine che vorrebbero trasformare il Partito Democratico in Partito Democristiano.
I fans del PD sono talmente attaccati alla vecchia dirigenza che non riescono ad immaginarne un ricambio. In questi casi ti chiedono: “E chi ci mettiamo al posto di Bersani?” come se stessimo parlando di un Berlinguer. Renzi no, per carità, Ciwati nemmeno – i rottamatori, muhahaha!, Zingaretti – uhm si farà ma per ora lasciamolo dov’è, meglio Bersani; la Serracchiani – troppo inesperta povera cocca, meglio Bersani.
E’ così importante fare un nome piuttosto che un altro se l’unico che accetteranno mai è il segretario del partito perché pensano ancora che bisogna votare chi dice il partito? Non dite che non è così. Meno male che gli elettori di sinistra invece cominciano ad essere più autonomi nelle scelte e sempre più sovente eleggono nomi che non erano quelli designati dalla segreteria del PD. Vedi Pisapia e Zedda.
L’immobilismo, la tetraparesi da centralismo democratico di questo partito di mummie che credono di essere ancora vive, contagia anche la base, che accetta tutto purché si vinca e si torni al governo. Non per mandar via Berlusconi, ma per mettersi al suo posto. Cambiar gestione ad un ristorante purché serva sempre le stesse polpette avvelenate. Polpette che mangiano tutti e che finiscono anche nei nostri piatti.
Non è qualunquismo ma più di un sospetto che possa trattarsi di una triste realtà. Pensare che un partito possa aver vissuto in un paese con la corruzione al posto del DNA senza farsi corrompere con fenomenali incentivi come potere e denaro è un ragionamento molto ingenuo. E’ come quando uno viene morsicato dal vampiro, si vampirizza anche lui.
Detto questo, io mi auguro di cuore che Penati abbia solo fatto la cresta come le colf disoneste che vanno a far la spesa all’Esselunga con il borsellino della padrona, e che Bersani e il PD siano puri siccome angeli, perché sentire gli sfottò e le prediche di Sallusti e di tutta la merda stampata e televisiva berlusconiana mi sarebbe ancora una volta, dopo la Commissione Mitrokhin, intollerabile.
Una preghiera, però, amici del PD. Se dovessero emergere responsabilità precise della dirigenza PD negli episodi di corruzione attualmente sotto indagine della magistratura, se venisse dimostrato il finanziamento illecito, non voglio sentire lagne che “noi siamo diversi” e “bisogna distinguere”. Se avete le palle dovete andare da Bersani e dirgli di levarsi dai coglioni e con lui tutti gli altri residuati bellici del partito sopravvissuti dalla prima repubblica. Anche se lì per lì non saprete chi mettere al loro posto.
Se vogliamo veramente cambiare e salvare questo paese dal cancro della corruzione, questa volta, a differenza degli anni novanta, non dovremo avere nessuna pietà. Tanto meno per quelli della nostra parte.
Ho paura però che gli elettori e simpatizzanti del PD siano come certi mariti innamorati ai quali portano le fotografie della moglie in atteggiamento inequivocabile con un altro e loro rispondono: “Non è possibile, lei non farebbe mai una cosa simile e poi questa qui nelle foto non è lei.”
* grazie Gianguido.
Default Italia, 67 Giorni al Fallimento. Una Nuova Norimberga
Sono passate da poco le 18 e qui, nel profondo Nord Est italiano, piove e c’è la nebbia. E’ un pomeriggio che sa già di autunno. Sole, caldo e vita distano migliaia di giorni e migliaia di chilometri.
Leggo, più per masochismo che per necessità, la pagina del corriere on line dove, per l’ennesima volta, si riassumono i punti salienti della manovra 3.0 o 4.0 (cit.), non ricordo più.
Più o meno a metà, non mi sembra più di leggere, ma di assistere ad una puzzolente e nauseabonda evacuazione corporale. Come pezzi di merda che cascano nel cesso, la deiezione fecale travestita da manovra finanziaria si compone di stronzi grandi e piccoli. Carnosi, morbidi, pesanti. Si vede che chi li sta cacando sono anni che mangia bello grasso.
La SuperInps. Chi è, un super eroe femmina con le mammellone che schizzano latte? La deroga all’articolo 18 se sono d’accordo i sindacati. Ecco, mancavano solo i sindacati. Ora, invece di avere un padrone e un socio alla pari che becca il cinquanta per cento senza fare un cazzo, di padroni ce ne ritroviamo due.
Come se non si sapesse che i sindacati sono anni che pastrocchiano con confindustria sfruttando il precariato con le loro società interinali e cercando di fottersi le liquidazioni con la truffa aggravata dei fondi pensione.
La tassa del 2% sul money transfer per cavare danaro dagli immigrati. Complimenti. E’ inutile indagare perché dietro la profondità culturale ed economica di certe pensate, si immagina immediatamente la pernacchia ed il dito medio di Bossi.
Le dichiarazioni dei redditi on line? Sì, no, forse,ma se lo decide il comune e non per le persone fisiche, solo per le categorie. Giusto, così non servono a un cazzo. Possibile che in Italia si possa sapere nome e cognome di chi chiava minorenni e trans, ma a fianco di una cifra non è mai possibile leggere un nome? Il vero tabù degli italiani non è la fica, sono i danari. Niente manette, ma pugnette agli evasori.
In compenso, però, rimane il numero chiuso sulle farmacie. bene, bene. Ero preoccupato che qualche farmacista con questa crisi non riuscisse a comprarsi il suo cinquanta piedi e si dovesse contentare di una miserrima barchetta del cazzo.
Mentre la cacata scivola sinuosamente nel cesso, mi scopro ad ammirare la capacità schivatoria che consente a questa gente di cavarsela in ogni frangente. Fare i duri, ma poi dire di sì a tutti. Promettere e non mantenere con assoluta determinazione. Chiacchierare a sproposito, confondere, disperdere, compromettere, sopravvivere, galleggiare, sempre e comunque, esattamente come la merda.
Sarà fatta giustizia? Ma sì, prima o poi si fa sempre giustizia, ma sinceramente la cosa non mi riguarda. Ora, sono affascinato dalla prospettiva di una vendetta che, giorno dopo giorno, sento sempre più possibile e vicina. Io non sono un giusto, nel senso che ho anche io i miei peccati. E’ stata una questione personale tra me e quelli che si sono trovati nei paraggi quando mi è capitato di peccare. Una cosa circoscritta, insomma. Ho pagato e continuo a pagare per questo. Ora, voglio che venga il turno di quelli che da decenni campano sistematicamente alle nostre spalle e ci ridono pure dietro. Trafficoni politicanti, evasori, imboscati, ladri, approfittatori.
Magari pensano di cavarsela con un processo e un po’ di domiciliari. Invece no. Se si riesce beccarli prima che salgano sugli aerei, bisogna fargli la pelle, in nome del popolo italiano e secondo legge, ovviamente.
Fargli la pelle, lo ripeto, perché io caco regolarmente al cesso, quando scrivo e prendo posizione esprimo concetti, non stronzi. Non bisogna mandarla a dire, bisogna fargli la pelle, dopo un bel processo. Una specie di Norimberga italiana per riconciliarci con la nostra storia e per ritrovare il rispetto di noi stessi.
Sempre nel nome del garantismo, comunque. Deve essere garantito che chiunque sarà trovato meritorio di tre metri di corda possa riceverli.
Senza eccezione e senza acrimonia. Così, asetticamente, senza niente di personale.
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