martedì 6 settembre 2011

Il Csm indaga su Laudati per il caso Escort Ghedini: “Dell’estorsione non sapevo nulla”


Il pm barese Scelsi aveva denunciato il procuratore capo per presunti intralci all'indagine che mette in imbarazzo Berlusconi. Anche la Procura di Lecce apre un'inchiesta. L'avvocato del premier: "Non ero a conoscenza dei pagamenti a Tarantini e Lavitola", ma il suo nome compare più volte nelle carte. Il direttore dell'Avanti!, latitante: "Torno presto, ho solo aiutato una coppia in difficoltà."


Il caso Tarantini-Escort scuote anche la magistratura. Mentre la procura di Lecce apre un fascicolo sull’operato dei colleghi di Bari, affidata al procuratore aggiunto Antonio De Donno, entra in campo anche il Csm. La prima commissione del Consiglio superiore della magistratura ha avviato gli accertamenti dopo l’esposto inviato dall’ex pm di Bari Giuseppe Scelsi, ora sostituto procuratore generale, contro il procuratore della Repubblica, Antonio Laudati. Scelsi, che fu il primo ad indagare su Gianpaolo Tarantini, lamenta i tempi lunghi dell’indagine barese sulle escort che l’imprenditore barese portò a feste organizzate nelle residenze private del premier Silvio Berlusconi tra il 2008 e il 2009.

Nell’esposto Scelsi afferma anche che nel luglio scorso Laudati gli ha impedito di leggere l’informativa conclusiva appena depositata dalla Guardia di finanza sul giro di sesso a pagamento, fascicolo assegnato fino ad allora a Scelsi e ai sostituti Eugenia Pontassuglia e Ciro Angelillis. A carico di Laudati pende da alcuni mesi al Csm un esposto anonimo nel quale si afferma che il procuratore di Bari avrebbe creato un database sulle intercettazioni e avrebbe gestito in modo non appropriato militari della Guardia di finanza che fanno parte della sua segreteria particolare.

Intanto scoppia il caso Ghedini. Niccolò Ghedini, avvocato di Silvio Berlusconi e parlamentare del Pdl, rivendica una completa “estraneità in relazione a pagamenti, movimentazione di denaro o incontri” relativi alla presunta estorsione orchestrata ai danni del presidente del consiglio daGianpaolo Tarantini e Valter Lavitola. Ghedini reagisce così a un articolo di Repubblica, uscito oggi, che lo definisce “perfettamente al corrente dei passaggi di denaro da Berlusconi a Tarantini”, in cambio del silenzio di quest’ultimo sulle escort fornite al presidente del consiglio, a cominciare da Patrizia D’Addario. “La Procura”, scrive ancora Repubblica, “che nei giorni scorsi ha sentito come testi gli avvocati Nicola Quaranta e Nicola Perroni, legali di Tarantini nella vicenda barese, vuole capire se sia stato proprio Ghedini a gestire in prima persona i pagamenti. Teneva lui il libro paga?”.

Nella nota diffusa alle agenzie di stampa, l’avvocato-parlamentare afferma che l’articolo è “completamente inventato” e annuncia querele. Il caso prende spunto dall’ordinanza di custodia cautelare contro Lavitola e Tarantini firmata dal gip di Napoli Amelia Primavera il 30 agosto, dove Ghedini è nominato più volte. A partire da una telefonata intercettata tra i due indagati il 17 luglio, che verte sui 500 mila euro sborsati da Berlusconi e, secondo l’accusa, trattenuti in gran parte da Lavitola.

GT: senti Và (Valter), ti volevo dire una cosa strana che mi ha chiesto Perroni oggi (Giorgio Perroni, avvocato di Tarantini e, in altri procedimenti, di Silvio Berlusconi, ndr)”.

VL: eh.

GT: mi sono incontrato…va bè che non so se tu sai che è uscito il fatto della D’Addario, sai de…

VL: no. Me lo stava dicendo adesso tua moglie, ma da ieri non ho visto i giornali.

GT: va bè…che ha ritrattato tutto, ha detto che è stata obbligata da…dall’avvocato, che è la compagna di Scelsi… va bè, ste cose qua. Poi, a un certo punto, mi prende un attimo e mi dice nell’orecchio: “ma lei li ha avuti…ma, senta, mi tolga una curiosità, perchè mi hanno chiesto…mi ha chiesto – inteso come Nicolò, di chiesto – ma ha avuto poi i 500 lei?” Ho detto: “guardi…” ho detto:”no, veramente no.” Oh?

VL: eh! Ti sento, ti sento.

GT: io sono rimasto di cazzo. Ho detto: “no, me li doveva dare, perché siamo rimasti così l’ultima volta.”

VL: roba da pazzi. Questi sò scemi, sò pazzi.

GT: non vorrei che lui gli abbia detto così a…Nicolò.

VL: chi lui?

GT: lui, il Presidente.

Per gli inquirenti, “Nicolò” è proprio l’avvocato del Cavaliere: “La circostanza della consegna di quella somma da Berlusconi al Lavitola”, scrive il gip Primavera, “è stata comunque comunicata al Tarantini dal suo avvocato Perroni che l’avrebbe appresa, a sua volta, dall’avvocato Niccolò Ghedini”. Su questo punto, ribatte il parlamentare, “nell’ordinanza del Gip si può apprezzare come l’unico momento in cui vi sarebbe stato un mio interessamento in merito ai 500.000 euro sarebbe a versamento ampiamente avvenuto. Quindi da parte dell’autorità giudiziaria non vi è alcuna indicazione di una consapevolezza ex ante né di una compartecipazione né la consegna del denaro, né alcun profilo di illiceità”.

Ghedini si spinge oltre e afferma di non aver saputo nulla neppure ex post, e comunque “essendo il presidente Berlusconi persona offesa dal reato di estorsione, se avesse comunicato al suo avvocato di fiducia anche prima del pagamento ciò che stava accadendo, non vi sarebbe nulla di anomalo poiché in occasioni consimili può accadere di consultarsi con un professionista”. Ma “così non è stato e nulla anticipatamente sapevo dell’asserito pagamento dei 500.000 euro”. Totale estraneità a tutto, insomma.

Nell’ordinanza, il gip Primavera chiede però l’arresto di Lavitola e Tarantini anche per evitare l’inquinamento probatorio, dato che i due “hanno dimostrato di conoscere il modo di eludere le investigazioni, anche con contatti con appartenenti alle forze dell’ordine ed avvocati”. In particolare”, continua, “l’accertato, obbiettivo, ‘coinvolgimento’ dei difensori del Tarantini nonché di quello della persona offesa, avvocato Niccolò Ghedini, derivante dall’essere chiamati in causa dal Tarantini come soggetti a conoscenza dei cospicui, ingiustificati ed illeciti trasferimenti di danaro dal Berlusconi al Tarantini”, rafforza le ragioni dell’arresto. “Non potendo escludersi”, conclude il gip, “il pericolo che i patrocinatori – a prescindere da chi sarà nominato dagli indagati – siano veicolo di manovre inquinanti”. E tra le righe del documento emerge che questo aspetto potrà essere oggetto di “ulteriori investigazioni”,

Mentre Tarantini si trova in carcere a Napoli, Lavitola è latitante a Panama. Lo conferma lui stesso in un’intervista pubblicata oggi da Libero. “Non ho nulla di cui temere e presto rientrerò a casa e mi farò arrestare”, assicura il direttore ed editore dell‘Avanti!. Lavitola parla di accuse infondate: “Le pare che, dati i mie rapporti con Silvio Berlusconi sarebbe stato mio interesse mettere insieme una truffa del genere, ovvero spillargli 500 mila euro per poi dividerli con Tarantini? Le pare che il gioco valesse la candela? Se avessi avuto bisogno di denaro lo avrei chiesto direttamente al Cavaliere. Nessun bisogno e nessun interesse a truffarlo, per poi dimezzare il bottino. Oltretutto”.

Lavitola conferma di aver incassato i soldi, ma di averli girati all’imprenditore pugliese: “A Tarantini ne ho dati 350 mila, più altri 100 mila. Ne ho ricevuti 400, veda un po’. Ce ne ho rimessi per l’esattezza 173 mila. Sono pronto a documentare tutto. Ci sono le prove: io di soldi non ne ho intascati». A quale titolo? Per aiutare Tarantini e la moglie, con cui Lavitola aveva una relazione: “Erano nei guai. Guai veri e un tenore di vita non certo rispondente alle loro possibilità. Spendevano l’impossibile, senza criterio”.

Nel corso della giornata, Valter Lavitola ha anche diffuso una nota in cui annuncia “un memoriale che consegnerò all’autorità giudiziaria tra qualche giorno”. Dopodiché, continua, “rilascerò un’intervista alla stampa nella certezza di chiarire tutto, carte alla mano”. Lavitola non ci sta a passare ”per l’Uomo nero”, cioè” l’unico artefice di una situazione venutasi a creare solo a causa delle serie difficoltà del Tarantini e in cui io, per evidenti motivi di opportunità, mi sono limitato a fare da tramite con il Presidente”. Nella nota, il giornalista-editore con mille affari in Centroamerica tiene molto a precisare di essere legato da diversi anni “da profonda amicizia” con Silvio Berlusconi, ben al di là del caso Tarantini.


Ft: fiasco fiscale dell'Italia, Eurozona a rischio. - di Elysa Fazzino


Il Financial Times boccia la manovra italiana

Il Financial Times boccia la manovra italiana, troppo annacquata e senza riforme strutturali, attacca il sistema politico "incompetente" che ha lasciato l'Italia paralizzata di fronte a mercati sempre più nervosi e vede all'orizzonte un taglio del rating del Belpaese.

La Lex Column del quotidiano britannico lancia l'allarme per l'Italia e per l'intera eurozona. "Fiasco fiscale" è il titolo-stroncatura dell'edizione cartacea; "L'Italia deciderà il fato dell'eurozona" è quello apparentemente più possibilista dell'edizione online.

"L'Italia è il cardine dell'eurozona", esordisce la Lex Column: l'area dei 17 membri dell'euro può sopravvivere a una crisi della Grecia, del Portogallo, dell'Irlanda "e forse anche della Spagna". Ma "se l'Italia s'infetta, l'eurozona non ha le risorse né finanziarie né politiche per andare in soccorso di Roma". L'Italia deve "inocularsi da sola" il vaccino per combattere il virus della crisi del debito sovrano, avverte il Ft. Più volte di recente il Financial Times ha auspicato un cambio di governo a Roma, ma l'appello non viene esplicitato nella Lex Column di oggi, che bastona però la classe politica al timone dell'Italia: "Un sistema politico incompetente l'ha lasciata paralizzata di fronte al brusco repricing del rischio italiano da parte di investitori sempre più nervosi". Un altro po' di temporeggiamento fiscale "questa volta non risolverà il problema dell'Italia".

Dall'inizio di luglio, puntualizza il Ft, l'Italia è stata colpita dal crollo delle previsioni di crescita globali e della credibilità della sua politica. I rendimenti sui titoli decennali italiani sono saliti di 65 punti base e di 100 punti base su quelli biennali. Rendimenti che sarebbero ancora più alti se la Banca centrale europea non fosse intervenuta. La manovra da 45 miliardi di euro "è stata annacquata così tanto che rappresenta solo un gioco di prestigio", sottolinea il Ft. E il crollo del mercato dei bond ha devastato le quotazioni delle banche italiane (l'Unicredit è sceso del 42% dal 1.mo luglio) in parte a causa del crollo del valore dei loro portafogli titoli. Il pacchetto d'austerità sul piatto, secondo il Financial Times, probabilmente "danneggerà l'economia italiana piuttosto che accelerare la crescita". E' quanto hanno sperimentato Grecia e Portogallo e "non c'è ragione che sia diverso per l'Italia", soprattutto con i mercati d'esportazione in Europa e in Usa che si avviano verso la recessione.

Il governo italiano, ancora una volta, ha "evitato ogni riforma strutturale che potrebbe aumentare il tasso di crescita", che secondo la Deutsche Bank non supererà lo 0,7% quest'anno e lo 0,4% nel 2012 (al di sotto degli obiettivi ufficiali dell'1,1 e dell'1,3%). Con il declassamento del rating all'orizzonte, il premio di rischio dell'Italia potrebbe salire ulteriormente, avverte il Ft. E conclude: "L'Italia, non la Spagna, deciderà il fato dell'eurozona".

http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2011-09-06/fiasco-fiscale-italia-eurozona-131130.shtml?uuid=AarGxz1D


Articolo 18, la geografia delle nuove regole. - di Salvatore Cannavò


Se sarà legge definitiva l’articolo 8 della manovra, quello sul “contratto di prossimità” è destinato a stravolgere l’intero diritto del lavoro italiano. I principali giuristi ne sono convinti e chi si è dedicato alla stesura di norme che regolano da quarant’anni il diritto giuslavoristico italiano, guardano con amarezza a quanto sta accadendo. Di fatto si produce un diritto alla deroga, non solo dal Contratto, ma anche dalla Legge, che realizza una sorta di “federalismo contrattuale” con un potere inedito ai sindacati territoriali e aziendali, compresi i singoli delegati. Il che spiega, ad esempio, l’appoggio di Cisl, Uil e Ugl alla modifica. Sal. Can.

Grandi aziende, modello Fiat per tutti

Per le grandi aziende, dove più frequente è la presenza delle Rsu e del sindacato, la norma varata dal Senato potrebbe avere l’impatto minore. Anche se l’esperienza recente fa pensare il contrario. Del resto, la norma è ritagliata sul modello Fiat. Pomigliano e Mirafiori avrebbero dovuto essere delle eccezioni e invece sono diventate legge. Il diritto di licenziare, aggirando l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, è solo una delle possibilità che la manovra consente perché nel comma 2 dell’articolo 8 l’elenco delle materie “derogabili” è ben più lungo è importante: orario di lavoro, mansioni, turnistica, modalità di assunzione fino al controllo mediante apparecchi audiovisivi. Basterà che la maggioranza delle Rsu dei sindacati firmatari dell’accordo (così sembra dalla lettura letterale del testo) dia parere favorevole e “le disposizioni di legge” così come “le regolamentazioni contrattuali” e “contrattuali” vengono modificate e applicate diversamente. La legge incorpora anche l’accordo del 28 giugno a riprova della volontà di coinvolgere i sindacati che, come sostiene il senatore Ichino, dovrebbero tutelare maggiormente. Secondo la Cgil, però, l’accordo è vanificato proprio per il fatto di garantire deroghe alla legge, mentre l’intesa le permetteva solo rispetto al contratto nazionale a sua volta indicato come la fonte primaria degli accordi collettivi. Ora, contratto nazionale e contratto aziendale vengono di fatto parificati con evidente svuotamento del primo da parte del secondo.

Medie, troppo peso ai delegati sindacali

Nelle medie aziende le novità sono analoghe alle grandi. I contratti nazionali e le leggi potranno essere derogate, con accordi aziendali oppure con accordi territoriali per zone omogenee (si pensi al nord-est, ad esempio). Nel loro caso, però, essendo meno presenti le Rsu – per lo più diffuse nelle grandi aziende – sarà particolarmente rilevante il ruolo dei delegati nominati dal sindacato di appartenenza a cui viene conferita una responsabilità pesante. Proprio l’ampiezza delle materie oggetto della norma permette questa analogia perché per molte di queste – mansioni, audiovisivi, orario di lavoro – non c’è distinzione tra grande e piccola impresa.

Piccole, si rischia una giungla

Secondo i giuslavoristi proprio nelle piccole ci sarà la spinta a una maggiore contrattazione in deroga. E se è vero che per quanto riguarda l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non si sentirà alcuna differenza, per quanto riguarda le norme sul mansionamento, sulla disciplina dei contratti a termine, sulle collaborazioni, sugli orari, in cui la disciplina è analoga alle altre imprese, le modifiche possono essere stravolgenti. Per la semplice ragione che, molto spesso, nelle piccole imprese il sindacato non c’è o, se c’è, è rappresentato da uno o due delegati nominati. Per chi si occupa di diritto del lavoro è facile prevedere che su di essi si scaricherà una pressione enorme così come sarà facile avere sindacati di comodo che possono firmare qualunque deroghe alle tutele. I delegati, di fronte alle richieste aziendali e magari di fronte alla minaccia di chiusura o di delocalizzazione, si sentiranno in dovere di firmare qualunque cosa. Il problema potrebbe essere aggirato con la firma di accordi territoriali che coinvolgano le aziende di una determinata zona. Ma la norma non impedisce che di fronte a tali accordi se ne possano siglare altri più limitati a una sola azienda. In tal modo, sostengono gli avvocati del lavoro, la contrattazione non è più controllabile, anche la possibilità di impugnare un licenziamento si fa molto, molto più difficile.


MAFIA (censurato dal governo Berlusconi)



Parte del documentario di Lucarelli (Blu Notte) su RAI TRE sulla Mafia e sulle inchieste censurato dal governo Berlusconi.


lunedì 5 settembre 2011

Censurare il Web? Un autogol. - di Fabio Chiusi


Navid Hassanpour

Quando i dittatori spengono Internet fanno un errore clamoroso: perché una brusca interruzione della comunicazione digitale accelera la mobilitazione, rinsaldando i legami 'fisici' al posto di quelli virtuali. La tesi (provata) di uno studioso americano.

Censurare la Rete temendo che scateni una rivoluzione è un clamoroso autogol, un errore madornale in cui i dittatori cadono per ignoranza. Ne è convinto Navid Hassanpour, dottorato in ingegneria elettronica a Stanford, già studente di scienze politiche a Yale. E autore di un recente studio diffuso dal 'New York Times' secondo il quale il blackout totale della Rete, lungi dal sedare le rivolte, le amplifica. «L'opinione comunemente accettata suggerisce che interruzioni della connettività dei media», scrive Hassanpour riassumendo il suo lavoro, «abbiano un effetto negativo sulla mobilitazione politica. Ma al contrario una brusca interruzione della comunicazione di massa accelera la mobilitazione rivoluzionaria e aumenti proteste distribuite».

Vero dunque che i regimi sbagliano quando, come accaduto in Egitto dal 28 gennaio al 2 febbraio scorso, spengono del tutto il web. Non solo per l'evidente e ingiustificabile limitazione della libertà di espressione dei cittadini. Ma anche perché così facendo accelerano «la disintegrazione dello status quo», invece di preservarlo.

David Cameron, che a sua volta ci aveva pensato dopo gli scontri di agosto, prenda nota. Possibile? Hassanpour, nel suo studio, lo sostiene tramite un misto di modelli di decision-making, regressioni statistiche, dati storici e analisi empirica della rivolta che ha portato alla caduta del regime di Hosni Mubarak. In alcuni passaggi, servendosi di idee già abbondantemente esplorate da Evgeny Morozov nel suo volume The Net Delusion, tutto teso a smontare la credenza 'tecno-utopista' che, per i popoli in rivolta, basti «lasciarli twittare, e si apriranno la loro strada a suon di tweet verso la libertà». In altri, andando perfino oltre: «I social media possono essere controproducenti per la mobilitazione dal basso» e «ostacolare l'azione collettiva». E questo perché «scoraggiano la comunicazione faccia a faccia e le presenze di massa per le strade», scrive l'accademico. Inoltre, mostrando in tempo reale il racconto di quanto avviene, potrebbero «creare una maggiore consapevolezza dei rischi corsi dai manifestanti», inducendoli a rimanere nelle loro case, al sicuro, a condividere post su Facebook. Perché i «legami deboli» stabiliti in Rete «raramente conducono ad attivismo ad alto rischio».

Al contrario, quando il confronto on line non è possibile, i cittadini sono costretti a fare affidamento solamente su se stessi per scoprire che cosa stia accadendo. Il che, di norma, si traduce in nuovi e più saldi rapporti con i propri vicini di casa o di quartiere. La propaganda del regime, spente le comunicazioni, non può più manipolare gli eventi, prosegue lo studio. E il ricorso alla sola comunicazione tra concittadini aumenta l'influenza dei settori più radicali della popolazione, gli stessi che osteggiati dai media di Stato non riescono a scatenare «dissenso universale».

Secondo Hassanpour, qualcosa di simile è già accaduto nel corso della storia. Durante la rivoluzione francese, per esempio; prima della caduta della Duma, nella Russia del 1917; o ancora, nella rivoluzione iraniana del 1978-79. Ma è il recente caso egiziano a fornire l'occasione di mettere l'ipotesi in esame alla prova dei fatti. Per lo studioso, si tratta di una conferma su tutta la linea. Hassanpour la riassume in un grafico che mostra la correlazione – sorprendente - tra il blackout di cellulari e Rete, totale a partire dal 28 gennaio, e il diffondersi della protesta da piazza Tahrir al resto del Paese. «Troppi rivoltosi e in troppi luoghi», riassume nella conclusione, citando il parere del direttore per le emergenze di Human Rights Watch, Peter Bouck.

Titoli giornalistici a parte, le ultime righe sono anche l'occasione per riformulare l'ipotesi in termini maggiormente scientifici: «In presenza di una maggioranza avversa al rischio, aggiungere maggiori collegamenti al suo interno non necessariamente aiuta la mobilitazione». Una conclusione che tuttavia resta tutta da dimostrare per quanto avvenuto negli altri paesi protagonisti della 'primavera araba'. Che si fonda sul reperimento di una correlazione tra grandezze, il che non significa certo averne individuato un legame causale. E che lascia piuttosto perplessa Giovanna Loccatelli, autrice del recente volume 'Twitter e le rivoluzion'i, che indaga proprio il ruolo dei social media nelle rivolte che hanno scosso il Nord Africa. «Non sono d'accordo che il loro utilizzo impoverisca l'azione pratica dei manifestanti», dice all'Espresso. «Perché, per esempio, questi strumenti erano presenti sotto ogni tenda a piazza Tahrir. Nello studio di Hassanpour sembra invece quasi che siano stati usati da casa. Non è andata così». Loccatelli contesta poi la rilevanza della dispersione della protesta nel resto del Paese per il successo della rivoluzione: «Piazza Tahrir ne è stata il cuore pulsante, e lo sarà ancora per i prossimi mesi. Anche con il blackout totale di Internet le persone sapevano dov'era la protesta reale, concreta. Senza piazza Tahrir le cose sarebbero andate diversamente».

Senza contare il ruolo giocato da Al Jazeera, «che si è messa dalla parte degli attivisti e ha aiutato a diffondere la protesta». Il problema semmai, conclude Loccatelli, «è che i social media hanno senso prima e durante la rivoluzione, ma dopo non hanno alcun peso reale. Perché nel dopo c'è bisogno della politica, di una comunità che si aggreghi e faccia delle proposte. Questo non lo possono fare i social network».


Grillo, le sue 350 mila firme e la dimenticanza del Senato.


Depositate a corredo di 3 disegni di legge, mai esaminate.

Beppe Grillo (Ansa)
Beppe Grillo (Ansa)
Non gliene importa niente? Aboliscano l'articolo 71 della Costituzione. Almeno i cittadini verranno ufficialmente informati: al Parlamento, dei disegni di legge di iniziativa popolare previsti dalla Carta, non interessa un fico secco. La prova: da quattro anni il Senato evita accuratamente di esaminare le proposte presentate da Beppe Grillo e firmate da oltre 350.000 italiani. Sette volte di più di quelle necessarie.

Riassumiamo? A metà dicembre del 2007, nella sciadelle polemiche intorno ai costi della politica e «V-Day», il comico-capopopolo genovese si presenta a Palazzo Madama, pedalando su un risciò (anche lo show vuole la sua parte...) per consegnare una catasta di sottoscrizioni raccolte in un solo giorno su tre disegni di legge. Sintesi: 1) Nessun cittadino può candidarsi in Parlamento se condannato in via definitiva o in primo e secondo grado in attesa di giudizio finale. 2) Nessuno può essere eletto alle Camere per più di due legislature (10 anni). 3) Basta con i deputati e i senatori «nominati» dai capi partito e via alla riforma elettorale perché possano essere votati dai cittadini con la preferenza diretta. Giusto? Sbagliato? Libero ciascuno di pensare che si tratti di proposte ottime o pessime, utili o inutili, virtuose o demagogiche. C'è reato e reato, dirà qualcuno, e un conto è avere nella fedina penale una condanna per tangenti su un reparto di leucemia e un altro per aver violato, facendone una battaglia politica (e non violenta, ovvio) una legge considerata ingiusta e da cambiare. E c'è chi sottolineerà come escludendo automaticamente tutti dopo due legislature ci saremmo risparmiati tantissimi somari ma avremmo perso anche un pò di purosangue. Per non dire dei dissensi sulla legge elettorale... Ma qui sta il nocciolo della questione: i senatori hanno il diritto di prendere uno per uno questi disegni di legge, valutarli, decidere che si tratta di sciocchezze e buttare tutto nel cestino. È nelle loro incontestabili facoltà. Quello che non possono fare è di infischiarsene di quelle proposte facendo finta che non siano mai arrivate. Lo ammise un anno fa, dopo una fiammata di polemiche, lo stesso Renato Schifani: «Sono favorevole affinché i ddl di iniziativa popolare, a prescindere dai loro contenuti, abbiano una risposta da parte del Parlamento. È un diritto e un dovere del Parlamento. Si deve riconoscere ai cittadini che hanno presentato una proposta popolare il diritto assoluto di avere una risposta».

Lo dice la Costituzione all'articolo 71: "L'iniziativa delle leggi appartiene al governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale. Il popolo esercita l'iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli". E gli articoli 48 e 49 della Legge 25 maggio 1970, n. 352 precisano tutti i dettagli perché questo strumento di democrazia possa avere piena dignità.
Il guaio è che i nostri padri costituenti non avevano tenuto conto di una sventurata ipotesi. Quella che in Parlamento si affermassero maggioranze prepotenti decise a svuotare questo istituto. Sia chiaro: di destra o sinistra non importa. E lo dimostra il destino dei progetti "grillini", ignorati sia in questa sia nell'altra legislatura. Fatto sta che, come spiega Michele Ainis, la facoltà solennemente riconosciuta dalla Carta Costituzionale alla volontà popolare di proporre delle leggi si è ridotta di più e né meno che al ruolo che avevano un tempo le suppliche al sovrano. Con il Parlamento che si arroga il diritto di occuparsene o meno così, a capriccio. Come quei monarchi annoiati che, mollemente adagiati sul trono, decidevano il destino di questo o quel poveretto condotto al loro cospetto sollevando o abbassando il mignolo inanellato.
Dicono: ma Beppe Grillo è stato uno screanzato. E ricordano che, convocato a Palazzo Madama (audizione obbligatoria: mica una gentile concessione), il comico genovese fondatore del Movimento 5 stelle, ne disse di cotte e di crude contro «questo Parlamento di nominati in cui sono stati scelti amici, avvocati e qualche zoccola». Affermazione che, buttata lì prima dei fuochi d'artificio sul «ciarpame senza pudore» accesi dalle accuse di Veronica Lario, sollevò un'ondata di proteste.

Verissimo: la scelta di Grillo di usare un linguaggio spiccio e ricco di parolacce è una cosa che gli viene rinfacciata anche dagli amici e suona insopportabile alle orecchie di chi in Parlamento dice cose spesso oscene però sventolando educatamente il ventaglio. Ma può bastare per ignorare le proposte di 350 mila cittadini? Vogliamo ricordare, almeno, che per legge i promotori dei Ddl di iniziativa popolare dovrebbero esser convocati entro un mese e il comico «indignato» ebbe l'opportunità di dire la sua dopo un anno e mezzo e solo dopo aver avvertito il presidente della commissione affari costituzionali Carlo Vizzini che gli avrebbe appiccicato addosso migliaia di «pittime», quei petulanti personaggi seicenteschi vestiti di rosso che si attaccavano per mesi ai debitori senza sfiorarli con un dito ma ricordando loro ossessivamente il debito da pagare? Disse quel giorno Grillo ai commissari: «Datemi una data di quando sarà discussa l'iniziativa popolare per l'elezione dei parlamentari, per lasciare fuori i condannati e scegliersi il parlamentare anziché trovarselo nominato, e mi manderete via contento». Macché: vuoto pneumatico. Al punto che se domani mattina la legislatura subisse un infarto, quelle proposte evaporerebbero nel nulla.

C'è poi da stupirsi se il 10 settembre, quattro anni dopo la raccolta delle firme, il comico si presenterà a Roma per chiedere che gli siano restituite quelle carte sottoscritte da 350.000 cittadini perché è ormai chiaro che il Senato non ritiene quelle proposte neppure degne di essere esaminate e cestinate? Una cosa è certa: che Beppe Grillo abbia ragione o torto nel merito dei disegni di legge (e a questo punto la cosa è del tutto indifferente), i senatori hanno perso un'altra occasione per riaprire dalla loro torre d'avorio un dialogo coi cittadini. E con il loro assordante silenzio spingono a ripetere quella domanda fastidiosa: l'articolo 71 è ancora in vigore o è stato abolito?

http://www.corriere.it/politica/11_settembre_05/grillo-firme-stella_e40b6fca-d77b-11e0-af53-ed2d7e3d9e5d.shtml

Così il ministro usa i tuoi soldi. - di Marcello Bella



Un costosissimo pool di ex gerarchi democristiani. Che distribuiscono fondi per raccogliere voti. Così Saverio Romano, in attesa di essere giudicato per mafia, si costruisce un robusto bacino elettorale. A spese dei contribuenti.

Come farà il ministro Saverio Romano a fronteggiare l'attacco della Procura di Palermo che lo vuole alla sbarra con l'accusa di avere favorito la mafia e, al tempo stesso, mettere al riparo l'agricoltura italiana dalla tempesta economica che si avvicina? Con una corte di fedelissimi e un elenco interminabile di spese pazze. E' così che il "responsabile" che salvò il governo Berlusconi, da sei mesi ministro delle Politiche agricole, ha creato una macchina del consenso perfetta, un esercito di fedelissimi, schierati nella roccaforte di via Nazionale, pronti a tutto pur di difenderlo e raccogliere voti.

E' lui il vero erede politico della corrente democristiana guidata prima da Lillo Mannino e poi da Totò Cuffaro, l'ex presidente della Sicilia finito in carcere per una brutta storia di mafia e politica. Nello staff di Romano convivono avvocati, ex parlamentari, consulenti, magistrati contabili e amministrativi, manager in pensione e grand commis dei serbatoi elettorali siciliani. A capo del gabinetto ministeriale c'è Antonello Colosimo, magistrato della Corte dei conti. Spedito in giro per l'Italia a pontificare sulle strategie per alleviare la crisi, Colosimo spera di far dimenticare le frasi al vetriolo a lui dedicate dal gip Rosario Lupo, che nell'ordinanza sul "sistema gelatinoso" della cricca di Balducci e dei grandi eventi, parlava dei suoi "rapporti poco chiari" con l'imprenditore Francesco Piscicelli.

Alla corte di Romano c'è un altro magistrato: è il casertano Salvatore Mezzacapo, consigliere del Tar nel Lazio. Piccole scorie sul suo curriculum, per un concorso al Tar del Lazio che ha visto stravincere la moglie. Lui aveva nominato i componenti della commissione. Il cuore nevralgico della macchina politica del ministero è invece nelle mani di Mimmo Di Carlo, ricompensato dopo una vita al fianco di Romano: capo della segreteria particolare del ministro, consigliere di amministrazione della Gesap, società che gestisce lo scalo palermitano Falcone Borsellino, e pure componente direttivo del Consorzio Asi di Palermo. Il nome del segretario di Romano appare negli atti del processo alle Talpe nella Dda, proprio il procedimento che ha visto la condanna definitiva di Cuffaro.

Chiamato a deporre dalla difesa dell'imprenditore della sanità Michelangelo Aiello (condannato per mafia in via definitiva e ritenuto uno dei prestanome di Bernardo Provenzano), Di Carlo ha dovuto ammettere di avere pressato sul manager delle cliniche per far assumere il genero di Pietro Calvo, boss mafioso di Belmonte Mezzagno, il paese da cui viene il ministro dell'Agricoltura. "Non sapevo che avesse questa parentela", s'è giustificato Di Carlo con i giudici.

Altro siciliano doc alla corte dell'agricoltura è Giovanni Randazzo. Ricopre la funzione di capo della segreteria tecnica del ministero. Il suo nome è stato tirato in ballo da Francesco Campanella, politico pentito dell'enclave mafiosa di Villabate, uscito invece indenne dall'inchiesta della Procura di Roma per frode all'Unione europea. Dalla stagione politica di Cuffaro, il "responsabile" dell'agricoltura ha recuperato anche Felice Crosta, l'uomo dalla pensione d'oro. E' uno dei dieci consulenti nominati a titolo gratuito da Romano. Crosta, che percepisce 1.500 euro al giorno di pensione, si occupa di consulenze giuridiche. Altro elemento di continuità con la stagione di Cuffaro è Antonino Giaimo.

In Sicilia si è occupato di fondi europei e programmazione. Anche per lui c'è il doppio incarico. E' nella lista dei legali che si occupano di contenzioso per il Consorzio Asi di Palermo. Altro esperto di legge al servizio di Romano è Tito Varrone. Un vero e proprio ripescaggio: Varrone è stato al fianco di Mariastella Gelmini, per la contestatissima riforma sulla scuola. Volendo andare più indietro nel tempo, spuntano fuori anche i legami mai interrotti con Calogero Mannino, che quello stesso ministero ha guidato prima del naufragio della prima Repubblica. Responsabile del servizio di controllo interno del ministero è l'architetto marsalese Attilio Tripodi.